Quando la combustione non è combustione

Del perché l’ATP non è energia e quali sono gli equivoci più diffusi sul metabolismo

Qualche tempo fa mi è capitato di scrivere una risposta un po’ “di getto” a un post di un qualche professionista che aveva super-semplificato concetti biochimici abbastanza complessi. Onestamente, non ricordo nemmeno più di cosa si parlasse. Rileggendo la mia risposta, che avevo scritto e conservato nelle note del mio iPad, mi è venuta voglia di riprendere alcuni concetti e scrivere un articolo per il blog. Questo perché l’equivoco è diffusissimo e riguarda due parole che usiamo con troppa disinvoltura: combustione ed energia.

Ogni tanto, nei commenti e nei post divulgativi, ricompare un’idea seducente perché è semplice: “nel corpo bruciamo zuccheri e grassi, quindi è combustione”. Il problema è che, presa alla lettera, questa metafora non chiarisce: confonde.

Nel nostro metabolismo non c’è nessuna fiamma. C’è invece una sequenza finissima di reazioni di ossidoriduzione mediate da enzimi, progettata per estrarre energia a piccoli passi, conservarne una parte e spenderla dove serve. È proprio questa regia molecolare – lenta, selettiva, controllata – a rendere possibile la vita.

Metabolismo ≠ combustione (anche se alla fine escono CO₂ e H₂O)

La combustione è, idealmente, una reazione rapida e poco controllata, che dissipa energia soprattutto come calore e luce. Il metabolismo aerobico fa l’opposto: smonta le molecole in modo ordinato e progressivo “raccogliendo” energia in intermedi chimici.

Il ciclo dell’acido citrico (o ciclo di Krebs), per esempio, non è una specie di fornace che “produce energia” nel senso comune. Il suo compito principale è generare carrier ridotti (NADH, FADH₂) e un equivalente di ATP (GTP/ATP) per giro: elettroni “ad alto potenziale”1 che verranno poi convertiti in ATP tramite la respirazione mitocondriale. In pratica, NADH e FADH₂ cedono elettroni alla catena di trasporto degli elettroni nella membrana mitocondriale interna; l’energia liberata pompa H⁺ creando un gradiente protonico, che l’ATP-sintasi (un enzima) usa per produrre ATP.

Per ogni acetil-CoA, il bilancio classico è:

  • 3 NADH
  • 1 FADH₂
  • 1 GTP (o ATP equivalente)
  • 2 CO₂

“Energia chimica”: la scorciatoia dei “legami” e la parola giusta

A questo punto arriva spesso un secondo equivoco: “l’energia è contenuta nei legami chimici”. È una scorciatoia linguistica che può funzionare in una spiegazione rapida, ma rischia di piantare in testa un’idea sbagliata: l’energia non è un contenuto nascosto nel singolo legame, pronto a uscire quando lo rompi. Rompere legami costa energia; formare legami libera energia. Quello che conta è la differenza complessiva tra reagenti e prodotti.

Se vogliamo dirla pulita (senza “chimichese” inutile): la grandezza che interessa davvero, quando parliamo di “energia spendibile”, è l’energia libera di Gibbs. È lì che sta il significato operativo di “questa reazione può trainarne un’altra”.

ATP: non “energia”, ma un “vettore” di energia libera

Qui sta il nodo: ATP è una molecola, non una forma di energia. Ciò che ha significato fisico è la variazione di energia libera associata alla sua idrolisi: in condizioni standard biochimiche (ΔG°′) per ATP → ADP + Pi è circa −30.5 kJ/mol (≈ −7.3 kcal/mol).

Detto senza slogan: la cellula usa ATP come intermedio operativo per accoppiare reazioni che liberano energia (ossidazioni metaboliche) a reazioni che ne richiedono (biosintesi, trasporto attivo, contrazione muscolare). ATP non “è” energia: è uno strumento chimico che permette all’energia libera di essere trasferita e spesa in modo controllato.

Calorie, Joule e “energia degli alimenti”: misura diretta o equivalente?

Il Joule (J) è l’unità SI dell’energia. La caloria è un’unità storica ancora comunissima: nella definizione termochimica 1 cal = 4.184 J.

In nutrizione, poi, la trappola è linguistica: la “Caloria” dei cibi (spesso con la C maiuscola) è in realtà una kilocaloria: 1 Cal = 1 kcal = 1000 cal.

Quando diciamo che un alimento “apporta energia”, spesso ci riferiamo a un valore ricavato (storicamente) dalla calorimetria a combustione: bruci il campione e misuri il calore prodotto. È un modo standardizzato e utile, ma va letto per quello che è: un valore equivalente, non la descrizione letterale di ciò che avviene nel corpo.

In questo senso, il meccanismo è simile a un’abitudine ben nota in chimica analitica e agronomia: quando in etichetta trovi il potassio espresso come K₂O, non significa che nel fertilizzante ci sia davvero ossido di potassio; significa che il contenuto è riportato come equivalente convenzionale. Allo stesso modo, il “potere calorico” è un modo coerente per comparare contenuti energetici, ma non autorizza a immaginare la fisiologia come una combustione “a fiamma”.

“Metabolismo lento”: una frase comoda, ma chimicamente vuota

Un inciso necessario, perché qui si inciampa spesso: “ho il metabolismo lento”. La frase è diffusissima, e non la usano solo i profani: la usano anche alcuni nutrizionisti. Il problema è che, sotto il profilo chimico, detta così non significa nulla. “Metabolismo” non è una singola reazione con una velocità, ma un insieme enorme di vie e processi; “lento” rispetto a quale variabile? Con quale unità? Con quale condizione iniziale?

Se vogliamo parlare in modo serio, dobbiamo dire cosa intendiamo davvero: di solito si sta parlando della spesa energetica (quanta energia l’organismo consuma per unità di tempo), cioè di un flusso misurabile. In quel caso non serve la metafora: si dice metabolismo basale (BMR) o spesa energetica a riposo (REE), e si ragiona su cosa la fa variare: massa magra, età, sesso, stato ormonale, temperatura corporea, attività del sistema nervoso simpatico, ecc. Ma chiamarlo “metabolismo lento” è un modo pigro di mettere un’etichetta a un risultato (consumo più basso del previsto) senza dichiarare il parametro, la misura e il confronto.

In breve: “metabolismo lento” è una frase che suona scientifica, ma spesso è solo un modo per evitare la parte scientifica.

In pratica, cosa intendono davvero quando dicono “metabolismo lento”

Quasi sempre, dietro quella formula ci sono una (o più) di queste cose:

  • Metabolismo basale più basso del previsto (BMR/REE). Non perché le reazioni “vadano piano” in senso chimico, ma perché il “motore minimo” dell’organismo è proporzionato soprattutto alla massa metabolicamente attiva (in primis la massa magra) e a fattori fisiologici (età, ormoni tiroidei, stato infiammatorio, ecc.). Qui “lento” è solo un aggettivo messo al posto di un numero.
  • NEAT basso: il consumo che non si vede. C’è una quota enorme di dispendio energetico che non è “sport”: è movimento spontaneo, postura, gesticolazione, irrequietezza, camminate, scale, micro-attività quotidiane. Se questa quota cala, la persona “consuma meno” senza accorgersene. E il mito del metabolismo lento diventa il cappotto perfetto per coprire un cambiamento di comportamento.
  • Adattamento energetico durante diete restrittive. Quando l’introito calorico scende molto e a lungo, il corpo tende a ridurre alcuni consumi (anche tramite variazioni ormonali e riduzione di NEAT). Non è magia, non è “metabolismo che si rompe”: è fisiologia prevedibile. Chiamarlo “metabolismo lento” è un modo furbo per evitare la frase corretta: sto spendendo meno energia per unità di tempo rispetto a prima.
  • Confronti sbagliati e misure fantasiose. Molte “diagnosi” di metabolismo lento nascono da confronti senza metodo (tabelle generiche, smart-watch, stime grossolane, “calorie bruciate” sparate). Se il dato di partenza è rumoroso, la conclusione è narrativa.

“Metabolismo lento” è spesso un’etichetta che suona scientifica proprio perché non dice nulla di misurabile. Quando mancano parametri e unità, il linguaggio riempie il vuoto con metafore: ATP diventa “energia”, la respirazione cellulare diventa “combustione”. Ma così non si semplifica: si mescolano categorie diverse, e il risultato è un corto circuito linguistico che produce solo una cosa… altra confusione.

Semplificare sì, vendere fumo no

Semplificare è necessario. Ma esiste un punto preciso in cui la semplificazione smette di essere didattica e diventa errore travestito da chiarezza: quando parole grandi (“energia”, “combustione”, “umiltà”, “scienza”) vengono usate come scenografia, al posto dei concetti che fanno davvero funzionare la spiegazione (redox, ΔG, unità di misura, condizioni standard vs condizioni cellulari).

E qui la faccio secca: se uno scambia ATP per “energia”, non sta semplificando, sta sbagliando oggetto grammaticale e oggetto scientifico nello stesso colpo. È come discutere di temperatura e confondere il termometro con i gradi: poi puoi anche metterci sopra parole solenni, ma resta un errore di base.

L’umiltà scientifica non è dire “parliamo semplice” e poi pretendere che la realtà si adatti alla frase. È accettare che la realtà sia più strutturata, e che le metafore, quando diventano troppo comode, non illuminano: addormentano.

In breve: la divulgazione non deve essere un caminetto acceso. Deve essere una lente pulita. E quando la lente è sporca di slogan, l’unica cosa che si vede bene è lo slogan.

Glossario degli acronimi

BMR – Basal Metabolic Rate (o metabolismo basale). Rappresenta la spesa energetica minima necessaria a mantenere le funzioni vitali a riposo.

NEAT – Non-Exercise Activity Thermogenesis. È il dispendio energetico dovuto ad attività non sportive (movimento spontaneo, postura, ecc.).

REE – Resting Energy Expenditure (o spesa energetica a riposo). Rappresenta la spesa energetica a riposo, spesso usata in clinica/nutrizione.

SI – Sistema internazionale

Sigle e simboli

ADP – Adenosine diphosphate (adenosina difosfato). Prodotto dell’idrolisi dell’ATP.

ATP – Adenosine triphosphate (adenosina trifosfato). Molecola “intermedia” usata per trasferire energia libera tra reazioni.

CO₂ – Anidride carbonica. Prodotto finale dell’ossidazione completa del carbonio organico nel metabolismo aerobico.

FADH₂ – Flavin adenine dinucleotide (forma ridotta). Trasportatore di elettroni/protoni prodotto in alcune tappe metaboliche.

GTP – Guanosine triphosphate (guanosina trifosfato). Nucleotide energetico “equivalente” all’ATP in alcune reazioni.

NADH – Nicotinamide adenine dinucleotide (forma ridotta). Trasportatore di elettroni/protoni prodotto da molte ossidazioni metaboliche.

Pi – Inorganic phosphate (fosfato inorganico). Prodotto dell’idrolisi dell’ATP insieme ad ADP.

Note

1 ↩︎ Quando dico che NADH e FADH₂ “portano elettroni ad alto potenziale”, non intendo un misterioso superpotere degli elettroni. È un modo compatto per dire questo: quegli elettroni sono in una condizione energetica tale da poter “scendere di livello”, passando a un accettore più “affamato” di elettroni (come l’ossigeno), e in quella discesa liberano energia utilizzabile.

In termini più rigorosi, “alto potenziale” significa che la coppia redox (per esempio NADH/NAD⁺) ha una forte tendenza a donare elettroni a coppie redox con potenziale più alto (più ossidanti). La catena respiratoria non fa altro che gestire questa discesa a tappe: ogni trasferimento libera un po’ di energia, e quella energia viene usata per pompare H⁺ e costruire il gradiente protonico che alimenta l’ATP-sintasi.

Usando un’immagine mentale: non è una “combustione”, è più simile a una centrale idroelettrica. Gli elettroni sono l’acqua in quota: non “sono energia”, ma hanno la possibilità di cadere e far funzionare una turbina (qui: pompaggio di H⁺ e sintesi di ATP).

L’ombra della fiamma di una candela

Ovvero: quando la semplificazione diventa… troppo semplice

Come sapete, miei cari e fedeli lettori, mi piace fare divulgazione scientifica.

Affronto argomenti molto svariati con una particolare predilezione per la chimica, che è la disciplina in cui sono specializzato.

Una cosa che devo puntualizzare è che nel fare divulgazione cerco sempre di semplificare per rendere digeribili concetti difficili anche a chi non ha una preparazione tecnica.

Molte volte ci riesco. Tante altre – la maggioranza, temo – non ce la faccio.

Per imparare a fare divulgazione seguo tanti canali, uno dei quali è Geopop, famoso per la semplicità con cui riesce a spiegare le cose.

Purtroppo, però, la semplificazione estrema a volte porta a dire inesattezze.

In un recente filmatino (lo trovate qui) hanno affrontato un argomento curioso: la fiamma di una candela non proietta alcuna ombra.

Devo dire che non mi ero mai posto il problema e, quando ho cominciato a guardare il video, mi sono incuriosito per capire come avrebbero spiegato la cosa.

Sono rimasto a bocca aperta quando ho sentito che la fiamma di una candela sarebbe un plasma.

La bassa densità di questo presunto plasma, secondo il video, lascerebbe passare indisturbati i fotoni della luce che, così, non verrebbero né deviati né riflessi: condizione necessaria per proiettare un’ombra.

Ora, perché sono rimasto a bocca aperta?

Semplicemente perché la fiamma di una candela non è affatto un plasma.

Cos’è davvero un plasma?

In fisica-chimica il plasma è considerato il quarto stato della materia, assieme a solido, liquido e gas.

È un gas talmente caldo (o energizzato) da risultare fortemente ionizzato: ioni positivi, elettroni liberi, particelle cariche che rispondono a campi elettrici e magnetici.

Per capirci:

  • i fulmini sono plasmi;
  • il Sole è plasma;

Le torce al plasma (Figura 1) sono progettate apposta per raggiungere temperature elevatissime.

Figura 1. Rappresentazione schematica di una torcia al plasma. La temperatura della zona dell’arco elettrico può raggiungere i 15000 °C. La fonte di questa figura è Wikimedia Commons.

La fiamma di una candela, invece, raggiunge temperature massime dell’ordine di 1000–1500 °C (Figura 2).

Figura 2. Rappresentazione di quanto avviene durante la combustione di un legnetto come un fiammifero. La fiamma raggiunge il massimo di temperatura verso la zona centrale. Questa figura è presa da Conte et al. Agronomy 2021, 11(4), 615; https://doi.org/10.3390/agronomy11040615

Sono temperature più che sufficienti per la combustione, ma troppo basse per generare una ionizzazione significativa.

Certo, nella fiamma troviamo radicali e qualche ione fugace (H⁺, O⁻, CHO·, ecc.), prodotti naturali della combustione: ma la loro concentrazione è minima, del tutto insufficiente per parlare di plasma.

In altre parole: niente plasma, almeno non nel senso fisico-scientifico del termine.

Ma allora perché la fiamma non fa ombra?

Per capire il motivo reale, basta ricordare che un oggetto proietta ombra solo se:

  1. assorbe la luce;
  2. la riflette;
  3. oppure la diffonde in modo significativo.

Una fiamma è invece costituita da:

  • gas caldi a bassa densità (CO₂, vapore acqueo, N₂, CO…);
  • minuscole particelle incandescenti (che generano il caratteristico giallo, ma in quantità minime);
  • forti gradienti di temperatura, che modificano l’indice di rifrazione.

Ora, questi gas non assorbono la luce visibile in modo apprezzabile.

E il fatto che siano caldi significa che la loro densità è ancora più bassa rispetto all’aria circostante.

La maggior parte dei fotoni, quindi, li attraversa senza essere bloccata, esattamente come la luce attraversa l’aria: e l’aria non fa ombra.

Ecco perché una fiamma non proietta un’ombra netta.

L’unico effetto reale: la distorsione

Se illuminate una candela con una luce molto intensa e osservate con uno sfondo uniforme, noterete non un’ombra, ma una distorsione dei contorni.

La fiamma, infatti, ha un indice di rifrazione diverso da quello dell’aria circostante, perché è più calda.

La luce viene quindi deviata leggermente.

È lo stesso effetto che si osserva sopra l’asfalto bollente d’estate: non un’ombra, ma un miraggio.

È dunque la rifrazione a rendere visibile la fiamma in certe condizioni, non l’assorbimento.

Ma allora i plasmi fanno ombra? Certo che sì.

L’altra affermazione problematicissima del video è che un plasma “lascia passare la luce senza bloccarla”.

Falso anche questo.

Dipende dal plasma.

Un plasma può assorbire luce, può diffonderla, può rifletterla.

La ionosfera terrestre, composta da plasma tenuissimo, è in grado di riflettere le onde radio: un comportamento ben più deciso del semplice “lasciare passare la luce”.

Quindi non esiste nessuna regola del tipo:

“Un plasma non fa ombra”

Semplificazione fuorviante.

Riassumendo tutto in una frase

La fiamma di una candela non fa ombra non perché è un plasma, ma perché è una miscela di gas caldi a bassa densità che non assorbe luce visibile: i fotoni la attraversano quasi indisturbati.

Molto più semplice, molto più elegante, molto più corretto.

Conclusione

La divulgazione scientifica è un’arte difficile. Bisogna trovare un equilibrio tra precisione e accessibilità.

Questa volta – mi dispiace dirlo – il pendolo della semplicità è stato spinto un po’ troppo in là.

Eppure, la vera spiegazione non solo è più corretta, ma è anche più affascinante: ci ricorda che la luce e la materia interagiscono in modi sottili, e che basta un po’ di fisica ben raccontata per scoprire meraviglie dove di solito non guardiamo.

La fiamma non fa ombra… e non ha certo bisogno di essere un plasma per farlo.

Il silenzio di Watson e la memoria imperfetta della scienza

Il palco di Stoccolma

L’11 dicembre 1962, James D. Watson tenne al Karolinska Institutet la sua Nobel Lecture, The involvement of RNA in the synthesis of proteins. Accanto a lui, Francis Crick e Maurice Wilkins: i tre scienziati che pochi mesi prima avevano condiviso il Premio Nobel per la Medicina per la scoperta della struttura a doppia elica del DNA..
Watson aveva trentatré anni, la brillantezza impetuosa di chi si sente al centro del mondo e la convinzione, non infondata, di aver partecipato a uno dei momenti più rivoluzionari della biologia moderna. Parlò per poco più di mezz’ora, illustrando i meccanismi di trascrizione dell’informazione genetica e il ruolo dell’RNA nella sintesi proteica. Parlò di geni, di codici, di ribosomi.
Nel suo intervento non menzionò Rosalind Franklin.

In quella sala gremita, la scienziata che aveva fornito le immagini chiave per decifrare la struttura del DNA era già scomparsa da quattro anni. Morta di cancro a 37 anni, nel 1958, non avrebbe potuto comunque ricevere il Nobel, poiché il premio non viene assegnato postumo. Ma l’assenza del suo nome — in una lezione che celebrava la vittoria della conoscenza — resta una delle omissioni più eloquenti della storia della scienza del Novecento.

La donna che guardò dentro la doppia elica

Rosalind Franklin non era un’eroina romantica né una vittima inconsapevole. Era, piuttosto, una ricercatrice di precisione chirurgica, formata tra Cambridge e Parigi, esperta di cristallografia a raggi X. Quando nel 1951 entrò al King’s College di Londra, portava con sé un bagaglio tecnico che pochi colleghi possedevano: la capacità di ottenere e interpretare immagini di strutture cristalline con un livello di dettaglio straordinario.
Fu lei a produrre la famosa “foto 51”, un’immagine di diffrazione del DNA che mostrava con chiarezza la sua struttura elicoidale. Lavorava con rigore quasi ascetico, in un ambiente accademico tutt’altro che accogliente per le donne. A quel tempo, al King’s College l’accesso agli spazi accademici era ancora fortemente segregato per genere, a riprova del clima culturale dell’epoca.

Mentre Franklin perfezionava le sue analisi, Watson e Crick — allora a Cambridge — cercavano di costruire un modello teorico della molecola. Non avevano accesso diretto ai dati sperimentali di Franklin, ma tramite Maurice Wilkins, suo collega (e, in un certo senso, suo antagonista), Watson poté vedere la famosa foto. In quella trama di macchie nere e grigie, egli riconobbe il segno inconfondibile di una doppia elica.
Da lì, la corsa si fece rapidissima. Nel numero del 25 aprile 1953 di Nature furono pubblicati tre articoli consecutivi. Il primo, firmato da Watson e Crick, presentava il modello; il secondo, da Wilkins, Stokes e Wilson lo confermava; il terzo, da Franklin e Gosling, mostrava i dati sperimentali su cui tutto poggiava. La sequenza delle pubblicazioni lasciava intendere una collaborazione armoniosa. In realtà, la comunicazione era stata minima e la tensione, altissima.

L’oblio nella Nobel Lecture

Dieci anni dopo, durante la sua Nobel Lecture, Watson non fece alcun riferimento a quella fase cruciale. Né Franklin, né la sua foto, né il suo contributo alla comprensione della struttura del DNA comparvero nel discorso.
Non fu una semplice dimenticanza. In parte, la lecture era centrata su altri temi — l’RNA e la sintesi proteica — ma la rimozione di Franklin rifletteva qualcosa di più profondo: il modo in cui la scienza istituzionale del tempo selezionava ciò che meritava memoria.

Negli anni ’50 e ’60, il merito scientifico era ancora filtrato attraverso un paradigma fortemente gerarchico e maschile. Le donne nella ricerca erano spesso viste come assistenti, non come protagoniste; la loro presenza, quando c’era, era percepita come eccezionale o marginale. In quel contesto, il nome di Franklin non fu cancellato per complotto, ma per inerzia culturale: perché era più semplice, più lineare, raccontare la scoperta come il frutto dell’intuizione di due giovani geni di Cambridge.

La riscrittura di una storia

Nel 1968, sei anni dopo la Nobel Lecture, James Watson pubblicò The Double Helix. Il libro, presentato come un “racconto personale della scoperta del DNA”, fu un successo editoriale immediato — ma anche una tempesta.
Watson vi raccontava la vicenda come una corsa intellettuale punteggiata da intuizioni, errori e colpi di fortuna. Il tono era brillante, ironico, spesso spregiudicato. Ma il ritratto di Rosalind Franklin appariva distorto: la chiamava “Rosy”, un nomignolo che lei non usava; la descriveva come “poco femminile”, “irascibile”, “ostinata”.
Solo nelle ultime pagine, quasi di sfuggita, Watson riconosceva che i suoi dati erano stati “cruciali” per la costruzione del modello della doppia elica.

Il libro provocò una reazione immediata. Anne Sayre, amica e collega di Franklin, pubblicò nel 1975 Rosalind Franklin and DNA, un testo scritto per “restituire equilibrio” a una storia che era stata piegata al punto di vista maschile e competitivo di Watson. In seguito, biografi come Horace Freeland Judson e Brenda Maddox avrebbero contribuito a una rilettura più accurata e documentata del ruolo di Franklin.
Da allora, la sua figura è uscita dall’ombra per entrare nel pantheon — non come martire della scienza, ma come simbolo della precisione, della pazienza e dell’intelligenza metodica che completano l’intuizione geniale.

Watson dopo Watson

Col passare degli anni, Watson rilesse più volte il proprio operato. In interviste successive, Watson ha più volte riconosciuto l’importanza decisiva dei dati di Franklin.

In altre occasioni definì The Double Helix un resoconto personale, non pensato come ricostruzione storica. In pratica, un racconto soggettivo di un giovane scienziato più attento alla competizione che alla sensibilità.

Tuttavia, la sua figura pubblica continuò a essere controversa. Le sue dichiarazioni successive su razza, intelligenza e genetica provocarono dure critiche, fino alla revoca di onorificenze e incarichi. È ironico — e forse istruttivo — che l’uomo che aiutò a svelare la struttura molecolare della vita sia diventato, nella memoria collettiva, un esempio di quanto la conoscenza possa coesistere con il pregiudizio.

Il contesto: scienza, società e invisibilità

Per comprendere davvero il “silenzio” di Watson, bisogna tornare al mondo della scienza degli anni ’50.
Il dopoguerra aveva accelerato la trasformazione dei laboratori in istituzioni competitive, legate ai finanziamenti pubblici e all’industria. Il linguaggio scientifico si era fatto più aggressivo, quasi darwiniano: vincere significava pubblicare per primi, ottenere riconoscimento, attrarre risorse.
In questo clima, le dinamiche di genere erano una componente implicita ma potente. Le donne rappresentavano una minoranza esigua nei dipartimenti scientifici; raramente avevano posizioni indipendenti, e spesso il loro lavoro veniva attribuito ai supervisori maschi.

Rosalind Franklin non fu un’eccezione: fu una scienziata che osò comportarsi da pari in un mondo che la voleva subordinata. La sua intransigenza, spesso percepita come freddezza, era una forma di autodifesa in un ambiente che tollerava la competenza femminile solo se accompagnata da deferenza.
Eppure, quella stessa intransigenza è ciò che le permise di ottenere risultati di una precisione senza precedenti. In un certo senso, la sua vicenda mostra il paradosso della scienza moderna: un sistema che premia la razionalità ma è plasmato da pregiudizi irrazionali.

Il tempo della memoria

Oggi, la storia di Rosalind Franklin è raccontata nei musei, nei documentari, nelle aule universitarie. È diventata una figura di riferimento per le donne nella scienza, ma anche un simbolo più ampio: quello della necessità di una memoria scientifica capace di riconoscere i contributi oltre i miti.
La sua immagine — austera, concentrata, quasi imperscrutabile — contrasta con il tono leggero e competitivo con cui Watson e Crick raccontarono la loro impresa. Ma proprio in quella differenza risiede la lezione più profonda: la scienza non è solo un gioco di intuizioni geniali, è anche una costruzione lenta, fatta di rigore, di dubbi, di dedizione quotidiana.

Se oggi conosciamo la struttura del DNA, lo dobbiamo a entrambe le forze: all’immaginazione teorica e alla precisione sperimentale. La storia della doppia elica non è il trionfo di due uomini o la rivincita di una donna: è un intreccio di caratteri, talenti e tempi, come le due spirali del DNA stesso.

Scienza e imperfezione umana

C’è però un altro piano, più sottile, che questa vicenda invita a considerare: il rapporto tra grandezza scientifica e imperfezione umana.
Watson, con le sue omissioni e i suoi pregiudizi, non smette per questo di essere uno dei protagonisti della biologia del Novecento. E la stessa cosa vale, su altri piani, per figure come Fritz Haber, Albert Einstein o Erwin Schrödinger: uomini di ingegno straordinario ma di condotta spesso discutibile.

Haber sviluppò la reazione che porta il suo nome, permettendo la produzione di ammoniaca e, di conseguenza, la rivoluzione dei fertilizzanti sintetici. Ma fu anche l’uomo che coordinò l’uso dei gas tossici nella Prima guerra mondiale.
Einstein lasciò la prima moglie in condizioni economiche precarie e mostrò poca sensibilità nelle relazioni familiari, ma la sua teoria della relatività cambiò per sempre il nostro modo di concepire lo spazio e il tempo.
Schrödinger, genio della meccanica quantistica, visse relazioni extraconiugali palesi che scandalizzarono i suoi contemporanei.

Tutti e tre — come Watson stesso — incarnano una verità scomoda ma necessaria: la scienza non redime l’uomo, e l’uomo non deve redimere la scienza. Il valore di una scoperta non dipende dalla moralità del suo autore, così come la condotta personale non può cancellare un risultato scientifico.
Ciò che invece possiamo — e dobbiamo — chiedere è una memoria onesta, che riconosca la complessità senza mitizzare né demonizzare.

Parallelismi contemporanei

Nel mondo della ricerca di oggi, le dinamiche di potere e visibilità non sono scomparse: si sono trasformate.
Le barriere di genere si sono ridotte ma non dissolte; la competizione per la pubblicazione e il finanziamento è ancora feroce; l’autorialità collettiva rende più difficile distinguere i contributi individuali.
Le “Rosalind Franklin” contemporanee sono spesso giovani ricercatrici o ricercatori precari, che lavorano dietro le quinte di grandi progetti, i cui nomi scompaiono nelle appendici delle supplementary materials.

Eppure, qualcosa è cambiato: oggi la comunità scientifica è più consapevole del valore della diversità e della necessità di riconoscere i meriti in modo più equo. La storia di Franklin è diventata un monito e un modello, ricordando che la scienza è tanto più solida quanto più ampie sono le voci che la costruiscono.

Conclusione – La doppia elica della memoria

Il silenzio di Watson, nella Nobel Lecture del 1962, non è solo un fatto storico: è una metafora della memoria selettiva con cui la scienza, come ogni impresa umana, racconta se stessa.
Ma la memoria, come il DNA, può essere riscritta. Negli anni, le spirali dell’oblio e del riconoscimento si sono avvolte e sciolte più volte, fino a ricomporre un quadro più giusto.
Oggi ricordiamo Rosalind Franklin non per la sua marginalizzazione, ma per il suo rigore, la sua lucidità, la sua capacità di vedere ciò che altri non seppero guardare.

E forse è questa la vera eredità della sua storia: riconoscere che la scienza vive della tensione fra verità e umanità, fra il desiderio di conoscere e le debolezze di chi conosce.
Watson, Crick, Franklin, Wilkins: quattro nomi intrecciati come le due catene della doppia elica. Nessuno di loro perfetto, ma tutti parte di una stessa sequenza di scoperte, errori, intuizioni e silenzi.
La scienza — come la vita — non è mai lineare. È una spirale che, pur nascendo dall’imperfezione, continua a replicarsi nel tempo.

Riferimenti e fonti principali

  1. Cobb, M. (2015). Sexism in science: did Watson and Crick really steal Rosalind Franklin’s data? The Guardian
  2. Cobb, M., Comfort, N. (2023). What Rosalind Franklin truly contributed to the discovery of DNA’s structure. Nature, 616: 657-660
  3. Franklin, R.E., Gosling, R.G. (1953). Molecular Configuration in Sodium Thymonucleate. Nature, 171: 740–741.
  4. Judson, H.F. (1979). The Eighth Day of Creation: Makers of the Revolution in Biology. Simon & Schuster.
  5. Maddox, B. (2002). Rosalind Franklin: The Dark Lady of DNA. HarperCollins.
  6. Sayre, A. (1975). Rosalind Franklin and DNA. W.W. Norton.
  7. Watson, J.D. (1962). The involvement of RNA in the synthesis of proteins. Nobel Lecture. NobelPrize.org
  8. Watson, J.D. (1968). The Double Helix: A Personal Account of the Discovery of the Structure of DNA. Atheneum.
  9. Watson, J.D. (with Andrew Berry) (2003). DNA. The secret of life. Alfred A. Knopf, NY
  10. Wilkins, M.H.F., Stokes, A.R., Wilson, H.R. (1953). Molecular Structure of Deoxypentose Nucleic Acids. Nature, 171: 738–740.

Corni rossi in laboratorio: mito e metodo, scaramanzia e superstizione

Una delle prime cose che insegno, all’inizio dell’anno accademico nei miei corsi triennale e magistrale, è il metodo scientifico: guardi, ti fai un’idea, provi a smentirla.

Pulito, lineare: tutto misurabile, tutto spiegabile in modo oggettivo e razionale.

Eppure…

C’è stato un tempo in cui avevo la maglia fortunata. Non sostenevo esami senza indossarla. Era la mia coperta di Linus. A nulla valeva ricordarmi che superare un esame dipendesse da me: da quanto avessi studiato e da quanto avessi capito quella disciplina. No: senza il talismano non andavo da nessuna parte. E se venivo bocciato? La risposta era unica e certa: non indossavo il mio “dispositivo apotropaico” perché proprio quel giorno mia madre l’aveva messo a lavare per togliere le puzze.

Dopo cinque anni e una trentina di esami, quella maglia sembrava un gatto spelacchiato sopravvissuto a una centrifuga da 2000 giri al minuto.

Vi sembra stupido, vero? Lo è. Ma sono in buona compagnia. Oggi vi parlo delle abitudini strambe – e poco razionali – di alcuni dei più grandi scienziati passati sulla Terra.

Isaac Newton e la pietra filosofale

Isaac Newton, simbolo della ragione e dell’ordine matematico, passò anni chinato su testi di alchimia, annotando in latino formule e segni cifrati, vicino alla fornace. Non era un passatempo: era un’ossessione. Cercava la pietra filosofale, il segreto capace di trasmutare i metalli e, in fondo, di svelare il vocabolario nascosto della materia.

Col senno di poi parleremmo di errore concettuale. Eppure quell’alchimia “superstiziosa” conteneva anche i semi della chimica moderna: tecniche di purificazione (sublimazione, calcinazione, distillazione), un’idea operativa di trasformazione, un metodo di laboratorio fatto di prove, fallimenti, registri. Newton non separava nettamente scienza e mistero: cercava leggi nella natura e, insieme, significati nascosti. Forse per questo – scrisse Keynes  –  “non fu il primo dell’età della ragione, ma l’ultimo dei maghi.”

Dietro la reputazione di glaciale geometra c’era un uomo che alimentava il fuoco del crogiolo di notte, che copiava e commentava pagine e pagine di autori alchemici (tra cui l’enigmatico Eirenaeus Philalethes), che inseguiva il “mercurio filosofico” come chi sospetta l’esistenza di una chiave sola per molte serrature. La sua mano era la stessa che, con pazienza feroce, scomponeva la luce nel prisma: dall’ottica alla gravità, fino alla trasmutazione dei metalli, Newton cercava un principio unificante, un ordine segreto capace di tenere insieme mondi lontani.

C’era anche segretezza: i quaderni alchemici circolavano poco, spesso in codice. Parte per prudenza (il confine con l’eterodossia religiosa era sottile), parte per vanità intellettuale, parte per timore del ridicolo. Ma quelle pagine, così diverse dai Principia, rivelano la stessa postura: occhi sul dettaglio, mani nel laboratorio, mente ostinatamente monoteistica nella sua idea di ordine – un universo costruito con pochi mattoni e poche regole, tutte da decifrare.

È facile sorridere del mago nel matematico. Più difficile è riconoscere che senza quella tenacia quasi rituale, senza notti passate a distillare e fallire, la sua idea di legge naturale non avrebbe avuto la stessa densità. L’alchimia non fu la sua verità scientifica; fu però il suo lessico di apprendistato, il luogo in cui imparò che la materia non si concede a slogan ma a procedimenti. E in questo scarto tra talismano e metodo – tra crogiolo e calcolo – sta il fascino di Newton: un uomo che portò la ragione lontanissimo, senza smettere di ascoltare il richiamo, antico e umano, di un ordine nascosto.

Fermi e la fortuna calcolata

Enrico Fermi, l’uomo che stimava l’energia di un’esplosione nucleare lasciando cadere pezzetti di carta per misurare la distanza d’urto dell’onda, non credeva nella sorte cieca. La misurava. A Los Alamos, nelle pause lunghe come notti, si racconta che facesse conti mentali sulle probabilità di vincere a carte con colleghi altrettanto brillanti: non per denaro, ma per vedere quanto della “fortuna” si potesse spogliare di mistero con un calcolo rapido, un’approssimazione ragionevole, un ordine di grandezza.

La sua erano superstizioni con la matita in mano. Fermi rispettava un principio quasi liturgico: non cambiare un assetto sperimentale che aveva funzionato; ripetere la sequenza di passaggi nello stesso modo, con la stessa cura, quasi con lo stesso ritmo. Non era magia: era metrologia affettiva – l’idea che la regolarità delle cose meriti un cerimoniale minimo perché il rumore non divori il segnale. Nei suoi taccuini la scaramanzia si riduceva a un algoritmo pratico: tieni ferma la procedura, lascia variare una sola cosa alla volta, abbi rispetto per gli strumenti e per i loro capricci.

C’era in lui una fiducia spietata nelle buone stime. I famosi “problemi di Fermi” nascevano da qui: la convinzione che, se scomponi l’ignoto in fattori semplici e plausibili, la realtà si lascia avvicinare. La superstizione, in questo schema, diventa la sorella educata della statistica: non un talismano, ma un set di abitudini che tolgono peso all’ansia e lo spostano sulla ripetibilità. Nel laboratorio come al tavolo da gioco, Fermi domava il caso non negandolo, ma mettendolo al lavoro.

Anche attorno a lui, a Los Alamos, i rituali pullulavano: lavagne ripulite solo a fine turno, gessetti “fortunati”, tazze sempre nello stesso posto. Fermi partecipava con un sopracciglio alzato e un cronometro in tasca. Della fortuna accettava il residuo: quel tanto che resta quando hai contato tutto il contabile. Il resto lo affidava a ciò che sapeva fare meglio – ridurre il mondo a numeri onesti, abbastanza robusti da non crollare alla prima raffica di vento.

È forse qui la sua “scaramanzia”: un rispetto laico per l’ordine. Se qualcosa aveva funzionato ieri, non la si toccava oggi. Non per paura, ma per gratitudine alla regolarità. In quell’interstizio – tra l’onda d’urto misurata con un foglietto e il mazzo di carte ridotto a probabilità – la fortuna smette la maschera e diventa varianza; e Fermi, con calma quasi scaramantica, continua a prenderne le misure.

Niels Bohr e il ferro di cavallo

Niels Bohr, premio Nobel e padre della fisica quantistica, teneva appeso un ferro di cavallo alla porta di casa. Si racconta che, quando un amico gli chiese: “Ma davvero credi che porti fortuna?”, Bohr sorridesse: “No, ma mi hanno detto che funziona anche se non ci credi.” Una battuta che sembra un vezzo, e invece è una piccola lezione di epistemologia domestica.

Bohr viveva nella regione di confine tra ciò che possiamo dire e ciò che possiamo solo prevedere. La sua “complementarità” chiedeva di accettare verità parziali che non possono valere insieme nello stesso esperimento, ma che insieme descrivono il mondo meglio di qualunque assolutismo: onda o particella, a seconda di come guardi. Il ferro di cavallo appeso alla porta diventa allora un’immagine perfetta: una “teoria” pratica che non pretende fede, ma chiede ospitalità. Non serve crederci: basta ammettere che il reale è più scaltro dei nostri schemi e che, nel dubbio, un piccolo rito può convivere con una grande teoria.

C’era ironia in quella risposta, ma non leggerezza. Bohr sapeva che la scienza non elimina l’incertezza: la addomestica. Anche la meccanica quantistica – la più predittiva delle teorie – mette il caso al centro. Niente traiettorie segrete, niente consolazioni classiche: probabilità ben educata, sì; certezza, no. Di fronte a questo, un ferro di cavallo non è un talismano contro la ragione: è una metafora di modestia. Ricorda allo scienziato che i modelli funzionano finché funzionano, e che il mondo non ha il dovere di rientrare nella griglia che abbiamo preparato per lui.

Bohr non chiedeva di credere al ferro, ma di tollerare il paradosso: si può non credere e, tuttavia, lasciare uno spazio all’ignoto, come quando accetti che la luce “sia” onda e particella a seconda della domanda che poni. È il suo stile: una lucidità che non ha paura di tenere in tasca un sorriso. In quell’oggetto appeso alla porta c’è il suo invito più serio: restare intelligenti senza diventare arroganti, custodire i riti minimi che ci aiutano a vivere l’alea, e continuare, nonostante tutto, a misurare, a fare esperimenti, a scegliere bene le domande. Perché la fortuna – qualunque cosa sia – magari non esiste; ma il modo in cui ci disponiamo ad accoglierla può fare tutta la differenza.

Marie Skłodowska Curie e la luce nel buio

Marie Skłodowska Curie portava con sé la sua luce. Non un corno, non un ferro: una piccola fiala di sali di radio che al buio emanava un bagliore azzurrognolo. Più che un portafortuna, era un gesto pratico e insieme poetico: la materia che le aveva cambiato la vita, resa visibile. Le piaceva spegnere le lampade e guardare quel chiarore minimo, come se il mondo le concedesse, per un attimo, di vedere ciò che di solito resta nascosto.

Non era superstizione: era vicinanza alla scoperta. Nei baracconi gelidi dell’Institut du Radium, tra cariole di pechblenda rimescolata per mesi, Marie coltivava una liturgia povera: grembiule, provette, registri fitti, e poi quell’istante notturno in cui controllare se il campione “respirava” luce. Il radio diventava il suo segnaposto nel buio, un promemoria tangibile che la materia parla anche quando tacciamo. Non chiedeva protezione; chiedeva attenzione.

C’era dolcezza e durezza insieme in questo rito. Dolcezza nello stupore – la bellezza di un azzurro che fiorisce da una sostanza nera, quasi un fiat di laboratorio. Durezza nella determinazione: la pazienza feroce di chi riduce, filtra, calcina, misura, annota. Quel filo di luce era la prova che il metodo non è arido: è un modo di stare nelle cose, di non separarsi da ciò che si studia. E, sì, anche un modo di non separarsi da Pierre, perché in quel chiarore c’era la memoria condivisa di un lavoro fatto insieme, quando le notti finivano con le mani stanche e gli occhi pieni di scintille.

Guardiamo oggi a quei gesti con una consapevolezza diversa: taccuini e strumenti di Marie sono ancora radioattivi, custoditi in contenitori piombati. La sua “luce” aveva un prezzo. Ma proprio qui, nel contrasto tra incanto e rischio, il suo rito si fa simbolo: un amuleto laico che non promette fortuna, ma ricorda responsabilità. Tenere una fiala che brilla non per scaramanzia, bensì per fedeltà alla realtà: per dirci che la scienza, quando è grande, non smette di cercare la verità – e di riconoscerne, senza paura, il bagliore.

Richard Feynman e i bonghi quantistici

Richard Feynman, premio Nobel e spirito irrequieto, aveva un rito semplice e scandalosamente terrestre: suonare i bonghi. Prima di una conferenza, la sera di un’idea nuova, perfino tra un calcolo e l’altro: due mani, una pelle tesa, un ritmo che mette ordine. Diceva, senza enfasi, che lo aiutava a entrare nello stato giusto: non tanto la “fortuna”, quanto la frequenza su cui far vibrare attenzione e curiosità.

La sua scienza era una danza tra regole e improvvisazione. Nei diagrammi tracciati col gesso c’era la disciplina di un formalismo elegante; nei bonghi, l’altra metà: la sincope che scioglie l’ansia e fa spazio all’intuizione. Feynman conosceva bene la trappola del controllo assoluto: quando il cervello stringe troppo, l’idea scivola via. Il ritmo serviva a spalancare una finestra, a ricordare al corpo che pensare è anche respirare, che la mente ragiona meglio quando il resto di noi non è in apnea.

Non era una superstizione in cerca di indulgenza, ma una igiene dell’attenzione. Come il disegno (le modelle, i quaderni pieni di linee) o il samba imparato in Brasile, i bonghi facevano parte di una palestra sensoriale con cui Feynman teneva vivo il piacere di scoprire. Un piacere fisico, quasi infantile, che non ha paura di battere le mani su un tamburo prima di battere i denti su un integrale. Il laboratorio, per lui, restava un posto serio; ma la serietà non era seriosità: si poteva arrivare alla verità ridendo, purché si restasse onesti con i dati.

C’era poi una lezione morale, che in Feynman non mancava mai: il rito va bene finché non sostituisce la prova. Nei suoi discorsi contro la “cargo cult science” c’è l’avvertimento netto: i gesti possono aiutare a disporci alla verità, ma non la producono. I bonghi, allora, sono il contrario di un talismano: non promettono risultati, promettono presenza. Ti ricordano che il mondo non si piega alla scaramanzia; si lascia capire, a volte, se entri con il passo giusto.

È facile immaginarlo dietro il sipario: camicia arrotolata, qualche colpo secco, poi un sorriso di bambino colto sul fatto. Il pubblico sente ancora l’eco del tamburo quando Feynman comincia a parlare di particelle come se fossero personaggi su un palcoscenico: entrano, escono, si scambiano segnali. Il ritmo, ormai interno, batte sotto le parole. E quando l’argomento si fa sottile, resta quella musica appena percettibile a tenere insieme rigore e gioia – la vera, inconfondibile firma di Feynman.

Quando la superstizione aiuta la scienza

In realtà, la superstizione – o meglio, il rito – non è l’opposto della scienza. È una scorciatoia mentale che ci fa sentire più stabili davanti all’incertezza. Gli esperimenti falliscono, i risultati tardano, la variabilità domina. A volte un piccolo gesto serve solo a ricordarci che non controlliamo tutto, ma possiamo almeno disporre bene noi stessi.

La psicologia la chiama illusione di controllo: l’idea di poter influenzare un esito incerto attraverso comportamenti ripetitivi. Detto così sembra un difetto; in micro-dose è una risorsa. Il rito abbassa l’ansia basale, ancora l’attenzione e mette il corpo in assetto. È un pre-fallimento controllato: una sequenza che conosciamo a memoria e che ci restituisce padronanza quando il resto è imprevedibile. Il chirurgo che allinea gli strumenti, il violinista che accorda nello stesso ordine, la ricercatrice che riempie la scheda come prima cosa: non è magia, è frizione cognitiva ridotta.

C’è poi un altro effetto, più sottile: il rito sposta il fuoco dall’esito al processo. Per qualche minuto non contano il p-value o il referee n. 2; conta il gesto giusto fatto al momento giusto. Questo disinnesca la ruminazione, che è la vera nemica della performance intellettuale. È come dire alla mente: “riparti da qui, dal concreto”. Da lì tornano il metodo, la misura, la pazienza.

Naturalmente il confine è chiaro: il rito è utile finché resta strumento. Quando pretende di sostituire l’evidenza, diventa superstizione nel senso deteriore: cargo cult. La scienza chiede prove, non propiziazioni. Per questo i rituali buoni sono brevi, economici, falsificabili: se disturbano il dato, si cambiano; se aiutano, restano. Nessun dramma, nessun dogma.

Se volessimo distillare una guida pratica per tenere i riti dalla parte della ragione, potremmo scrivere che essi devono essere:

  • Piccoli e ripetibili: un minuto, sempre uguale.
  • Non intrusivi: non devono alterare protocollo e misure.
  • Orientati al processo: preparano la mente, non “chiamano” l’esito.
  • Sostituibili: se non servono più, si lasciano andare senza nostalgia.

Così il rito smette di essere una scialuppa contro il caso e diventa un metronomo: batte il tempo mentre facciamo ciò che davvero conta – osservare, ipotizzare, verificare. E quando, finalmente, il risultato arriva, non diremo “ha funzionato il portafortuna”, ma qualcosa di più adulto e più bello: ho lavorato bene, nel modo giusto.

Superstizioni d’alta quota

Anche oggi, tra scienziati e astronauti, i riti non mancano. Non chiedono fede: aiutano a respirare quando l’alea è alta.

  • Baikonur, la sosta più famosa. Da Gagarin in poi, i cosmonauti russi si fermano ancora accanto alla ruota posteriore del bus che li porta alla rampa. I maschi… urinano; alcune colleghe versano poche gocce da una fialetta, per tradizione. È un gesto semplice e spiazzante, nato dal bisogno e diventato rito: un modo per dire “si parte, ma restiamo umani”.
  • Cape Canaveral, liturgie di routine. In ambiente NASA abbondano abitudini “portaserenità”: la colazione di steak & eggs nel giorno di lancio, una mano di carte finché il comandante perde, e persino le noccioline “della fortuna” al JPL, nate con Ranger 7. Piccoli gesti che non spostano i numeri, ma allineano le teste.
  • Amuleti a gravità zero. Quasi ogni equipaggio porta a bordo un peluche: è simpatico, certo, ma soprattutto è un indicatore innocuo di microgravità — quando inizia a fluttuare, sai che sei in orbita. Una superstizione con funzione strumentale.
  • CERN, ironia ad alta energia. Nei corridoi del laboratorio circolano tazze, meme e particelle di peluche: l’autoironia come rito collettivo durante le fasi delicate dell’LHC. Non “propiziazioni”, ma talismani laici che ricordano che dietro al Bosone di Higgs ci sono persone. (Curiosità: esistono intere collezioni di plush del Modello Standard; persino Peter Higgs teneva il suo come fermacarte.)

La logica è sempre la stessa: abbassare il rumore interno. Che tu stia entrando in una Soyuz o accendendo un acceleratore, un rito minuscolo può trasformare l’ansia in gesto, e il gesto in attenzione operativa. Non cambia la fisica; cambia chi la maneggia. E, a quelle altitudini – letterali o metaforiche – è già tantissimo.

L’ultima mossa della ragione

La superstizione, vista da vicino, è spesso una regola empirica ante litteram: “ogni volta che faccio così, va meglio”. Una scorciatoia nata dall’esperienza. La domanda giusta non è crederci o no, ma perché sembra funzionare – e se funziona davvero. Qui la ragione fa la sua mossa: prende il rito, lo mette alla prova, lo tiene se aiuta il processo, lo lascia se inganna.

Newton cercava oro, e trovò leggi. Fermi mescolava carte, e scoprì il caso come alleato, non come nemico. Bohr appese un ferro di cavallo e ci ricordò che l’ironia può essere una forma di pensiero. Marie Skłodowska Curie guardò una fiala che brillava e trasformò l’incanto in misura. Feynman batteva i bonghi e convertiva l’ansia in attenzione.

Il punto è questo: i riti sono trampolini, non arrivi. Ti danno lo slancio per saltare, ma a metà aria devi affidarti alle prove. Quando la superstizione accetta questo patto – restare piccola, utile, rivedibile – smette di essere un alibi e diventa l’ultima cortesia che facciamo alla mente prima di chiedere alla realtà la sua risposta.

Epilogo

E se qualcuno mi chiedesse se credo nella fortuna, risponderei come Bohr: «No, ma mi hanno detto che funziona anche se non ci credi».

Poi, in silenzio, ripiegherei la mia vecchia maglia: i riti passano, il metodo resta.

Note e riferimenti

Gli scacchi della natura

Seconda metà degli anni Ottanta. Auletta di chimica in via Mezzocannone 4, allora Dipartimento di Chimica della Federico II di Napoli. Tra un esercizio di stechiometria, un ripasso di termodinamica, una chiacchiera e un panino veloce, si giocava a scacchi su una scacchiera malconcia dai pezzi spaiati. Qualche volta vincevo, più spesso perdevo. Poi sono passato alla ricerca e, piano piano, ho abbandonato la scacchiera. Errore: quel gioco non solo aiuta a staccare la testa, ma allena all’ipotesi, al controfattuale, al “se… allora” che è il respiro stesso del metodo scientifico. A ben guardare, gli scacchi sono una metafora sorprendentemente precisa della natura: mosse e contromosse, vincoli e possibilità. Dopo oltre trent’anni di distacco dal gioco, ho ripreso. Sono sempre una schiappa – anzi, pure peggio – ma la metafora scacchi–natura continua a intrigarmi.

La grammatica degli scacchi (in tre atti)

Una partita di scacchi è articolata in tre momenti, esattamente come in un esperimento ben impostato.

Apertura. I pezzi escono dai loro posti: cavalli e alfieri per primi. Si prende il centro, si mette al sicuro il re con l’arrocco. Non c’è fretta, ma c’è ordine: partire bene conta.

Mediogioco. La posizione si accende. Minacce che nascono, colonne che si aprono, case deboli da presidiare. Tattica e strategia si alternano come prove e controprove: una mossa chiama una risposta, l’equilibrio cambia di continuo.

Finale. Pochi pezzi, nessun rumore di fondo. Il re diventa un pezzo d’attacco, accompagna un pedone verso la promozione. Qui la precisione è tutto.

Due parole da tenere a portata di mano: scacco, quando il re è sotto attacco e va difeso subito; scacco matto, quando non esiste più alcuna mossa legale per salvarlo: fine della partita. Esiste anche la patta — stallo, ripetizione della posizione e altre vie di mezzo — ma resta un esito raro.

Quanto alle combinazioni possibili, sono vertiginose: l’ordine di grandezza del numero possibile di partite diverse è circa 10120, abbastanza da far sembrare la scacchiera un piccolo universo.

Le aperture della natura

In natura, come sulla scacchiera, l’apertura è decisiva. All’inizio non c’è un piano vero e proprio: si prova ciò che funziona. L’obiettivo è sempre lo stesso: trovare energia (luce, cibo), occupare spazio (nicchie), mettersi al sicuro (rifugi).

Il camaleonte si mimetizza: è un pedone coperto, avanza senza farsi notare.

Il falco pattuglia il cielo: è una regina, domina righe e diagonali e costringe gli altri pezzi a rispettarne il raggio d’azione.

Le zebre, in gruppo, creano un effetto “abbaglio”: centinaia di corpi striati che si sovrappongono e si muovono insieme confondono il predatore, che fatica a scegliere un bersaglio e a stimarne direzione e velocità.

I pesci palla e molte farfalle tossiche fanno il contrario: avvisano con colori accesi (aposematismo) – una sorta di gambetto: “mi vedi? Bene, lasciami stare”.

Come nelle buone aperture, valgono tre principi: sviluppo, centro, sicurezza del re. In ecologia diventano: attivare in fretta le funzioni utili (enzimi, sensi, comportamenti), occupare il cuore della nicchia (dove risorse e opportunità si incrociano), proteggere il “re” – la continuità del lignaggio – con rifugi, cure parentali, simbiosi. Le micorrize delle piante sono un arrocco riuscito: scambio zuccheri contro nutrienti minerali per stabilità e difesa.

E, come in ogni apertura, arriva subito la contromossa. Al veleno della pianta, alcuni insetti evolvono enzimi di detossificazione. Al mimetismo della preda, i predatori affinano il riconoscimento dei contorni e del movimento o cambiano tattica (più olfatto, più agguati). È già mediogioco che bussa alla porta: nell’evoluzione non vince chi “fa il punto” oggi, ma chi arriva alla prossima mossa.

Il mediogioco: mosse e contromosse

Nel mediogioco si costruiscono piani, si creano minacce, si occupano colonne aperte. In natura è lo stesso: strategie che si intrecciano, alleanze e conflitti che cambiano la posizione a ogni mossa.

Una pianta alza il livello di difesa con tossine o tessuti più duri: scacco. Alcuni insetti, selezionati nel tempo, sviluppano enzimi di detossificazione o cambiano dieta: controscacco.

L’essere umano introduce antibiotici: scacco ai batteri. I batteri rispondono con resistenze (bersagli modificati, pompe che espellono il farmaco): controscacco.

Predatore e preda si rincorrono: il ghepardo guadagna velocità, la gazzella investe in agilità e zig-zag. Ognuno cerca l’iniziativa, mai senza costo.

Nel mediogioco, infatti, ogni vantaggio ha un compromesso. Più difesa può voler dire meno crescita o un costo energetico aggiuntivo; i colori d’allarme proteggono da alcuni nemici, ma ti rendono più visibile ad altri. È una bilancia che oscilla, non un trofeo da mettere in bacheca.

Non c’è solo conflitto: ci sono cooperazioni vincenti. Piante e impollinatori si accordano su forme, tempi, profumi – come aprire linee per i propri pezzi e chiuderle all’avversario. Le comunità microbiche formano biofilm: sommando forze diventano più resistenti alle intemperie dell’ambiente, come una batteria di pezzi coordinati.

Il mediogioco della natura è questo: scacco, controscacco, riposizionamento. Un vantaggio di oggi può diventare vulnerabilità domani, se il contesto cambia o l’avversario trova la mossa giusta. L’obiettivo non è “vincere per sempre”, ma mantenere l’iniziativa – arrivare, ancora una volta, alla prossima mossa.

Il re: la sopravvivenza

Negli scacchi, tutto ruota attorno al re. In natura, il “re” non è un singolo individuo, ma la continuità della specie.

Ogni tratto utile si muove per questo obiettivo. La velocità della gazzella, le spine del cactus, il veleno del serpente: pezzi diversi che tengono lontano lo scacco. Le cure parentali, i semi in dormienza, la diapausa negli insetti sono difese posizionali: guadagnano tempo e protezione, come interporre un pezzo tra l’attacco e il re. Anche le strategie riproduttive cambiano l’assetto in campo: pochi figli molto curati oppure molti con poche risorse – piani diversi per tenere il re al riparo.

Quando la posizione peggiora, arriva lo scacco al re: habitat che svaniscono, nuovi predatori, malattie emergenti. Le popolazioni si assottigliano, la variabilità genetica cala: è un collo di bottiglia. Meno varianti significa meno mosse utili sulla scacchiera del futuro. Se la minaccia persiste e non c’è contromossa, lo scacco diventa matto: estinzione.

Proteggere il re, in natura, vuol dire mantenere opzioni: diversità genetica, plasticità comportamentale, reti di cooperazione (simbiosi, mutualismi), corridoi ecologici che permettono spostamenti. È lo scudo di pedoni davanti al re e l’arrocco fatto in tempo. Non per vincere una volta per tutte, ma per restare in partita – e arrivare alla prossima mossa.

Il finale: non esiste la patta

C’è solo una piccola differenza, non esattamente insignificante, tra scacchi e natura. Sulla scacchiera il pareggio è possibile. In natura no: la partita non si ferma mai. Finita una posizione, ne inizia un’altra – generazione dopo generazione – con pezzi, regole del campo ecologico e avversari che cambiano di continuo.

Nel finale degli scacchi contano poche risorse e molta precisione. In natura accade qualcosa di simile: quando le condizioni si fanno strette – habitat ridotti, risorse scarse, climi che oscillano – ogni mossa pesa di più. Piccole differenze di comportamento, dieta, tempismo riproduttivo diventano decisive come un pedone in promozione.

Non esiste un vero stallo: ciò che oggi sembra equilibrio domani si rompe. Una siccità prolungata, un nuovo patogeno, una barriera che cade: il quadro si rimescola e la posizione “patta” svanisce. A volte è zugzwang – non muovere è impossibile, ma qualunque mossa ha un costo. Alcune linee si spengono, altre si differenziano in nuove specie, qualcuna migra e riapre il gioco altrove.

Le estinzioni sono scacchi matti locali; le ricolonizzazioni e le nuove nicchie sono aperture che ripartono da zero. Ma non c’è “game over” universale: è un torneo senza tregua in cui i pezzi non si rimettono mai al loro posto. L’unico obiettivo resta quello di tutta la partita: arrivare alla prossima mossa.

Epilogo: un sorriso dal bordo della scacchiera

La prossima volta che perderò a scacchi non me la prenderò: dirò che stavo testando la resilienza del mio “lignaggio scacchistico”. Se poi dovesse arrivare uno scacco matto in dieci mosse, pazienza: avrò contribuito alla biodiversità delle aperture sbagliate.

Quando sbaglio un tatticismo lo chiamo mimetismo difettoso; quando mi dimentico l’arrocco, è fallimento simbiotico (niente micorrize oggi). Se mi inchiodano in zugzwang, brindo alla scienza: esperimento riuscito – qualunque mossa ha un costo, quindi scelgo quella che fa ridere di più.

E se qualcuno mi chiede perché continuo a giocare, rispondo che sto facendo citizen science: raccolgo dati su come NON si vince. In fondo, la natura non premia chi fa il punto una volta, ma chi arriva alla mossa successiva. E io, perdente seriale ma curioso, ci arrivo sempre… magari con l’eleganza di un pedone coperto e l’ottimismo di chi sogna la promozione. Poi, certo, di solito promuovo… a regina avversaria. Ma questa è un’altra storia.

Il marketing del “senza”: l’olio di palma

Viaggio nei ricordi, tra scaffali ed etichette moderne

Quante volte andiamo al supermercato nel quotidiano?
Tra i venticinque e i trent’anni fa – e anche oltre – quando vivevo ad Avella, un piccolo paese in provincia di Avellino dove sono cresciuto, andare al supermercato era quasi una festa. Non ce n’erano molti in giro. Il più grande era a Nola, a circa venti minuti di auto da Avella, e lì si faceva la cosiddetta “spesa grande” una volta alla settimana. Per le urgenze quotidiane si ricorreva al negozietto sotto casa: non era fornitissimo, ma garantiva la sopravvivenza.

Poi, per motivi di lavoro, mi sono trasferito a Palermo. Oggi, nel raggio di pochi isolati da casa, ho almeno sette supermercati: tre Conad, un Todis, una COOP, un Sisa e un Prezzemolo & Vitale. Per quanto ne so, Todis e P&V sono catene siciliane: il primo è un discount, il secondo un supermercato da gourmet, frequentato da chi può permettersi di spendere.

Insomma, qui si trova di tutto, a prezzi estremamente variabili e per tutte le tasche. Ma una cosa li accomuna tutti: il marketing del “senza”. Scaffali pieni di prodotti “senza zucchero”, “senza zuccheri aggiunti”, “senza glutine”, “senza lattosio”, “senza olio di palma” e chi più ne ha più ne metta. Qualche volta mi è persino capitato di leggere “senza chimica”… che se ci pensate è davvero paradossale.

Comincia così un reportage sul marketing del “senza”. Nei limiti del tempo che ho – perché in questi giorni ricomincio le lezioni – proveremo a capire insieme cosa significhi davvero un alimento “senza”: è un vantaggio? uno svantaggio? o soltanto una questione di marketing e soldi?

In questa prima puntata analizzeremo il caso dell’olio di palma, cercando di capire quanto sia fondato il claim “senza olio di palma”, intrecciando le promesse delle etichette con i dati scientifici.

Come è nato il “senza olio di palma”

Le immagini che hanno fatto il giro del mondo

Tutto cominciò una decina di anni fa – anno più, anno meno – quando sui media iniziarono a circolare immagini drammatiche: foreste abbattute in Indonesia e Malesia, oranghi privati del loro habitat naturale, ettari di biodiversità sacrificati in nome delle grandi piantagioni di palma da olio.

Dalla foresta all’etichetta

Non era tanto la composizione chimica di questo grasso vegetale a spaventare, quanto il suo contesto produttivo. L’olio di palma divenne così il simbolo di un’agricoltura intensiva e predatoria, accusata di deforestazione, perdita di specie e sfruttamento del suolo. La pressione esercitata da ONG, associazioni ambientaliste e una crescente sensibilità dei consumatori verso la salute creò un terreno fertile: da quel momento, l’olio di palma iniziò a essere guardato con sospetto.

L’analfabetismo funzionale: un alleato insospettabile

A mio avviso su questa diffidenza ha influito anche un fenomeno ben noto in Italia: l’analfabetismo funzionale. Secondo l’indagine internazionale OCSE-PIAAC, oltre un terzo degli adulti italiani non possiede competenze sufficienti di lettura, comprensione numerica o problem solving per orientarsi in testi complessi o interpretare correttamente claim ambigui. In un simile contesto, slogan semplici e rassicuranti come “senza olio di palma” o addirittura “senza chimica” hanno trovato terreno fertile: funzionano perché non richiedono spiegazioni, non pongono domande, non obbligano ad affrontare complessità. Il consumatore si sente al sicuro, perché “senza” equivale a “meglio”.

Food literacy: la chiave mancante

Questa dinamica non è solo un’impressione. Studi sulla cosiddetta food literacy – la capacità di reperire, comprendere e valutare criticamente le informazioni legate all’alimentazione – hanno mostrato che tali competenze variano molto nella popolazione e non sono affatto scontate. In Italia, ricerche su gruppi vulnerabili (anziani, persone con basso livello di istruzione, famiglie in difficoltà economica) hanno evidenziato livelli di food literacy particolarmente scarsi. In pratica, ciò significa che questi consumatori sono più inclini ad accettare claim semplici come “senza olio di palma” senza porsi domande su quali alternative siano state usate o se davvero il prodotto sia più salutare.

Non solo un problema italiano

E il fenomeno non si limita al nostro Paese. Studi condotti in altri contesti europei, come nei Paesi Bassi, hanno rilevato difficoltà analoghe: molti consumatori dichiarano di avere competenze alimentari adeguate, ma quando si passa dalla percezione alle prove pratiche emergono limiti evidenti. Etichette, dati nutrizionali e claim vengono interpretati superficialmente e le diciture rassicuranti finiscono per agire come scorciatoie cognitive. Indagini più ampie a livello internazionale hanno confermato che la bassa food literacy non riguarda soltanto chi ha minori mezzi culturali o economici, ma può toccare anche fasce di popolazione ben istruite: non per mancanza di accesso all’informazione, bensì per scarsa abitudine a metterla in discussione. In questo scenario, i claim del tipo “senza X” risultano particolarmente efficaci perché facili da leggere, da ricordare e immediatamente comprensibili: trasmettono un’idea di purezza e di sicurezza che parla più alle emozioni che alla ragione.

Le aziende colgono il vento

Le aziende, dal canto loro, colsero subito il vento che stava cambiando. I grandi colossi dell’alimentare cominciarono a riformulare biscotti, merendine, creme spalmabili, sostituendo l’olio di palma con miscele di altri grassi vegetali. Una scelta tutt’altro che indolore: comportava costi di produzione più elevati, difficoltà tecnologiche, problemi di stabilità, modifiche al gusto e alla consistenza dei prodotti, oltre a una diversa durata sugli scaffali. Ma la pressione del mercato e la necessità di mantenere la fiducia del consumatore spinsero le aziende in questa direzione.

La nascita dell’etichetta magica

Fu in quel contesto che nacque l’etichetta magica: “senza olio di palma”. Una formula breve, accattivante, stampata a caratteri cubitali sulle confezioni. Non c’era bisogno di spiegazioni tecniche: bastava quella scritta perché il prodotto venisse percepito come più sano, più naturale, persino più etico. Nel giro di pochi anni, il “senza” si trasformò da scelta tecnica a vero e proprio marchio di purezza, un vantaggio competitivo su cui molte aziende costruirono intere campagne di marketing.

Dentro la goccia: la chimica dell’olio di palma

La tavolozza dei grassi

Per capire se il “senza olio di palma” è davvero un vantaggio, bisogna prima guardare dentro quella goccia arancione. L’olio di palma non è una sostanza semplice, ma una miscela di trigliceridi con un profilo ben preciso. Circa la metà è formata da acido palmitico, un grasso saturo; quasi il 40% è acido oleico, un monoinsaturo che troviamo anche nell’olio d’oliva; il resto è soprattutto acido linoleico, un polinsaturo; infine, piccole percentuali di altri acidi grassi.

Un colore che parla di carotenoidi

Questa combinazione gli conferisce proprietà particolari. A temperatura ambiente, l’olio di palma non si presenta come un liquido chiaro e fluido, ma come una massa semi-solida che può variare dal giallo al rosso vivo, soprattutto se poco raffinato. A dargli quel colore intenso sono i carotenoidi, tra cui il β-carotene – si trova, per esempio, anche nelle carote – accompagnati da vitamina E – presente anche in spinaci e broccoli – e altri antiossidanti naturali. Sono molecole che in parte si perdono con la raffinazione, ma che rendono l’olio grezzo sorprendentemente ricco.

La forza dell’industria

Dal punto di vista tecnologico, questa composizione è una manna per l’industria alimentare. L’olio di palma fonde alla temperatura giusta alla produzione di certi particolari alimenti – vi dice nulla la Nutella? – dà struttura agli impasti, allunga la conservazione e resiste abbastanza bene al calore. È per questo che biscotti, creme spalmabili e snack lo hanno adottato per anni: era pratico, economico e stabile.

Il rovescio della medaglia

C’è però l’altro lato della medaglia. L’elevata quota di grassi saturi è collegata scientificamente a un aumento del rischio cardiovascolare se consumati in eccesso. Non è una peculiarità esclusiva dell’olio di palma: lo stesso vale per burro, strutto e altri grassi solidi. Ma certo, un prodotto che contiene circa il 50% di acidi grassi saturi non può essere definito del tutto innocuo.

È la dose che fa il veleno

Infine, va ricordato un rischio meno noto: quello dei contaminanti da processo. Quando gli oli vegetali vengono trattati ad alte temperature per essere raffinati e stabilizzati, si possono formare composti indesiderati – prodotti di ossidazione e degradazione – che destano preoccupazione per la salute. È un problema che riguarda in generale tutti gli oli industrialmente trattati, non solo la palma, ma che contribuisce ad alimentare il sospetto verso questo ingrediente.

Eppure, come ammoniva Paracelso già nel Cinquecento, “è la dose che fa il veleno”. Se consumiamo alimenti con olio di palma in modo moderato, senza farne un ingrediente quotidiano e abbondante, e al tempo stesso seguiamo una dieta equilibrata ricca di frutta e verdura, il rischio legato al suo consumo diventa davvero minimo.

Dal claim alla ricetta: cosa cambia davvero

Tolto un ingrediente, ne arriva un altro

Qui entriamo nella parte più delicata della storia. Perché non basta dire “senza olio di palma”: bisogna chiedersi cosa c’è al suo posto. Quando le aziende hanno tolto la palma, hanno dovuto sostituirla con qualcos’altro: olio di girasole, di colza, di soia, di cocco, oppure burro e altri grassi animali.

Il mito del più salutare

E qui arriva la sorpresa. Non è affatto detto che la sostituzione abbia reso i prodotti automaticamente più salutari. Alcune formulazioni hanno finito per usare altri grassi saturi, mantenendo alto il contenuto complessivo di tali sistemi chimici. In certi casi, per non perdere cremosità o gusto, sono stati aggiunti più zuccheri, conservanti o aromi. Insomma, il “senza olio di palma” non sempre coincide con il “meglio per la salute”: dipende da come è stato ribilanciato l’insieme della ricetta.

La giungla dietro il campo di girasoli

Anche sul fronte ambientale le cose non sono così nette. La palma da olio viene giustamente criticata per la deforestazione e la perdita di habitat, ma è anche la pianta con la resa più alta in assoluto: da un ettaro di terreno produce molto più olio rispetto a soia, girasole o colza. Eliminare la palma può voler dire coltivare superfici maggiori, consumare più acqua o fertilizzanti, e spostare il problema altrove. In pratica, non sempre sostituire significa ridurre l’impatto: a volte lo si moltiplica, solo che succede lontano dai riflettori.

Un’etichetta rassicurante, una realtà complessa

In definitiva, il “senza olio di palma” va preso per quello che è: un claim semplice e rassicurante, che però nasconde una realtà più complessa. Dietro la scritta in grassetto sull’etichetta, quello che conta davvero è l’equilibrio della dieta e l’attenzione al sistema produttivo complessivo.

Le magie del marketing

La forza di una parola breve

Il bello del marketing è che sa parlare alle emozioni prima ancora che alla ragione. Nel momento in cui sui pacchi di biscotti è comparsa la scritta “senza olio di palma”, molti consumatori hanno percepito quel prodotto come più sano, più pulito, persino più etico. Non servivano dati, né spiegazioni: bastava il “senza” per evocare un miglioramento generale, anche quando, a guardare bene l’etichetta, non era affatto scontato.

La comunicazione a senso unico

La comunicazione, del resto, funziona così: mette in luce solo la parte che conviene. Sul cartone c’è scritto cosa è stato tolto, raramente cosa è stato messo al suo posto. Il risultato è che la complessità sparisce, e il messaggio si riduce a una formula semplice, facilmente assimilabile.

Gli slogan che abbiamo già sentito

Vi ricordano qualcosa questi meccanismi? Somigliano molto agli slogan dei partiti politici: brevi, accattivanti, costruiti per acchiappare i gonzi. Piacciono a chi non ha voglia di pensare, e dall’alto di una presunta superiorità etica o cognitiva crede di poter risolvere problemi complessi con semplici parole.

Il prezzo nascosto del senza

Dietro questa apparente semplicità, però, ci sono i costi nascosti. Per i produttori: materie prime più care, nuove difficoltà tecniche, ricette da bilanciare di nuovo. Per i consumatori: possibili differenze nel gusto, nella consistenza, nella durata dei prodotti, a volte anche un prezzo più alto. Tutto questo rimane dietro le quinte, invisibile rispetto alla promessa rassicurante del “senza”.

La battaglia delle contro-narrazioni

E infine c’è il gioco delle contro-narrazioni. Non tutte le aziende hanno scelto di eliminare l’olio di palma: alcune hanno puntato sulla certificazione di filiera sostenibile (come lo standard internazionale RSPO), rivendicando un uso responsabile invece di una cancellazione totale. In questo scenario, i claim rischiano di diventare un campo di battaglia comunicativo: da un lato chi sfrutta il “senza” come bandiera di purezza, dall’altro chi difende la palma sostenibile e accusa gli avversari di greenwashing.

Conclusione: non tutto è bianco o nero

Il “senza olio di palma” si è trasformato in pochi anni da scelta tecnica a potente strumento di marketing. Ha fatto leva su paure, convinzioni salutistiche e preoccupazioni ambientali, condensando tutto in una scritta breve e rassicurante.

Eppure, se guardiamo con gli occhi della chimica, il quadro è meno netto. L’olio di palma ha i suoi lati oscuri: un alto contenuto di grassi saturi che, se consumati in eccesso, aumentano il rischio cardiovascolare. Ma non è nemmeno il peggiore dei grassi: porta con sé carotenoidi, vitamina E e una stabilità chimica che altri oli non hanno.

Toglierlo non è di per sé garanzia di miglioramento. Dipende da cosa lo sostituisce, da come viene riformulato il prodotto, da quanto “senza” significhi davvero “meglio”. A volte si guadagna, altre volte si perde: in gusto, in salute, in sostenibilità.

Per noi consumatori, la lezione è semplice ma non banale: non fermarsi allo slogan. Vale la pena leggere le etichette, controllare le tabelle nutrizionali, chiedersi da dove viene un ingrediente e come è stato prodotto. Solo così il “senza” smette di essere una parola magica e torna a essere quello che dovrebbe: un’informazione utile, da interpretare con spirito critico.

Per quanto mi riguarda, quando nei supermercati leggo “senza olio di palma” passo oltre e scelgo altri prodotti.

Riferimenti & Approfondimenti

A cura della Ferrero Olio di palma: 7 luoghi comuni da sfatare. Disponibile online

A cura dell’Unione Olio di palma sostenibile I consumi “senza”: tra false credenze e paure degli italiani. il caso dell’olio di palma. Disponibile online

A cura della Redazione di Romagna a Tavola L’inganno delle etichette “senza olio di palma”: verità e marketing. Disponibile online

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Giancarlo Navach & Francesca Landini (2017) Insight: Che Nutella sarebbe senza olio di palma? Ferrero passa al contrattacco. Reuters. Disponibile online

Giovanni Giorgi (2019) “Senza olio di palma”: l’inganno del claim, confronto alla mano. Dissapore. Disponibile online

Hanne C. S. Sponselee & al. (2021) Food and health promotion literacy among employees with a low and medium level of education in the Netherlands. BMC Public Health. 21: 1273 https://doi.org/10.1186/s12889-021-11322-6

Hyelim Yoo & al. (2023) Who has a high level of food literacy, and who does not?: a qualitative study of college students in South Korea. Nutr Res Pract. 2023 Aug 3;17(6):1155–1169. DOI: 10.4162/nrp.2023.17.6.1155

Luca Zorloni (2016) In Italia dilaga il “senza olio di palma”, ma questo non è un bene. Wired. Disponibile online

Paula Silva & al. (2023) Nutrition and Food Literacy: Framing the Challenges to Health Communication. Nutrients. 15(22): 4708. https://doi.org/10.3390/nu15224708

Rocco Palumbo & al. (2019) Unravelling the food literacy puzzle: Evidence from Italy. Food Policy. 83: 104-115. https://doi.org/10.1016/j.foodpol.2018.12.004

Sky TG24 (2024) Analfabetismo funzionale in Italia per un terzo degli adulti: il rapporto Ocse. Disponibile online

Quando la mano fa scienza: gli scimpanzé e i fichi verdi

Il mercato della foresta

C’è un mercato nella foresta dove i venditori non urlano i prezzi e i clienti non pagano con monete ma con attenzione. I prodotti sono piccole sfere verdi appese ai rami: i fichi. Per un osservatore distratto molti di questi frutti sembrano uguali – verdi, anonimi, tutti lì a mezz’aria – eppure, per uno scimpanzé affamato, scegliere il fico giusto è questione di vita quotidiana. Non importa tanto il colore: è la mano che decide.

Un esperimento naturale

In uno studio molto elegante, Dominy e collaboratori hanno seguito gli scimpanzé di Kibale (Uganda) mentre esaminavano, palpavano e a volte incidevano con morsi i fichi della specie Ficus sansibarica. I ricercatori hanno misurato colore, elasticità, resistenza alla frattura e contenuto di zuccheri dei frutti, e hanno poi messo insieme comportamento e fisica con un semplice ma potente ragionamento statistico: ogni test sensoriale riduce l’incertezza su quanto dolce sia il frutto. In pratica, gli scimpanzé fanno Bayes con le dita.

Perché è interessante?

Per tre motivi.

  1. Il segnale visivo è debole. Molti fichi rimangono verdi anche quando sono maturi: il colore non tradisce la dolcezza. Per un animale che si affida alla vista, questo è un problema. Ma gli scimpanzé non rimangono fermi a guardare: si arrampicano, afferrano, premono. La palpazione dura una frazione di secondo – in media circa 1,4 s – e fornisce un’informazione meccanica che si correla molto meglio con il contenuto di fruttosio del frutto. In altre parole: il dito è più informativo dell’occhio.
  2. La sequenza sensoriale è modulare e razionale. Gli scimpanzé prima osservano (valutano dimensione e qualche indicazione cromatica), poi palpano – la mano misura elasticità – e infine, se serve, mordono per valutare la resistenza all’incisione (KIC, una misura meccanica della facilità con cui il tessuto si rompe). Ogni sensazione è un pezzo di informazione che, sommato agli altri, rende la decisione più affidabile.
  3. La ricerca suggerisce una lettura evolutiva intrigante: la mano come strumento di misura. Spesso colleghiamo la precisione della mano umana all’uso di utensili; questo lavoro propone invece che, almeno in parte, la selezione per mani sensibili e destre possa essere stata guidata anche da esigenze quotidiane di raccolta e valutazione del cibo — vale a dire: la mano non è nata solo per costruire strumenti, ma anche per saggiare il mondo.

Un piccolo laboratorio sensoriale

Questa visione sposta il centro dell’attenzione: non è solo l’innovazione tecnologica che plasma l’evoluzione della mano, ma anche la routine del foraggiamento. Pensalo come un piccolo laboratorio sensoriale: lo scimpanzé solleva un fico, lo preme con il polpastrello, percepisce la “cedibilità”, stima se dentro ci sono zuccheri a sufficienza e poi decide. Un segnale visivo vago (verde) viene corretto da informazioni meccaniche precise. Il risultato è una strategia efficiente: meno errori nella scelta di frutti importanti (i fichi sono una risorsa alimentare di riserva nelle stagioni difficili) e quindi un vantaggio per la sopravvivenza e la riproduzione.

La mano come utensile per conoscere

Per milioni di anni, fichi e altri frutti “criptici” hanno messo alla prova la capacità dei primati di distinguere il commestibile dal deludente. La pressione selettiva non ha riguardato soltanto occhi e cervello, ma anche la mano. La destrezza manuale, che oggi colleghiamo soprattutto all’uso degli strumenti, potrebbe avere radici ben più antiche: la necessità di valutare il cibo. La mano, prima di diventare utensile per costruire, è stata utensile per conoscere.

Un fotogramma della nostra storia

Il gesto dello scimpanzé che palpa un fico non è solo un dettaglio curioso di comportamento, ma un fotogramma della nostra stessa storia evolutiva. La precisione del pollice opponibile, la ricchezza sensoriale del polpastrello, la capacità di coordinare occhio e mano: tutto ciò che oggi ci permette di scrivere, scolpire, dipingere o operare, è nato anche da azioni semplici come scegliere il frutto giusto su un ramo.

Dalla foresta al mercato

Così, la foresta diventa laboratorio, la mano un sensore, il frutto una sfida evolutiva. E se ci pensiamo, la linea che ci separa dagli scimpanzé non è poi così netta: anche noi, al mercato, prima di comprare una pesca o un avocado, li osserviamo, li tocchiamo, li premiamo leggermente con le dita. In fondo, facciamo la stessa cosa: riduciamo l’incertezza con la complessità della mano.

Conclusione

La prossima volta che vedrai uno scimpanzé contemplare un frutto, immaginalo come un piccolo scienziato improvvisato: non sta solo mangiando, sta raccogliendo dati. Con il polpastrello riduce l’incertezza, proprio come noi davanti a una confezione con etichetta sbiadita.

E allora si capisce: la mano è nata per conoscere, prima ancora che per costruire. È questa complessità – fatta di tatto, intelligenza e memoria – che ha guidato la nostra evoluzione.

Dal fico della foresta alla penna, allo scalpello, al bisturi: ogni gesto umano porta ancora impressa quella prima funzione. La mano che oggi crea, cura, scrive e dipinge è la stessa che, milioni di anni fa, imparava a saggiare un frutto. In fondo, la nostra evoluzione è cominciata con un dito sul frutto.

La Sindone e la scienza: dal Medioevo alla risonanza magnetica

Ormai lo sanno anche le pietre: mi occupo di risonanza magnetica nucleare su matrici ambientali. Tradotto per i non addetti: uso la stessa tecnica che in medicina serve a vedere dentro il corpo umano, ma applicata a tutt’altro – suoli, sostanza organica naturale, piante e materiali inerti. Ripeto: non corpi umani né animali, ma sistemi ambientali.

C’è un dettaglio curioso. I medici hanno tolto l’aggettivo “nucleare” dal nome, per non spaventare i pazienti. Peccato che, senza quell’aggettivo, l’espressione “risonanza magnetica” non significhi nulla: risonanza di cosa? elettronica, fotonica, nucleare? Io, che non ho pazienti da rassicurare, preferisco chiamare le cose con il loro nome: risonanza magnetica nucleare, perché studio la materia osservando come i nuclei atomici interagiscono con la radiazione elettromagnetica a radiofrequenza.

Non voglio dilungarmi: non è questa la sede per i dettagli tecnici. Per chi fosse curioso, rimando al mio volume The Environment in a Magnet edito dalla Royal Society of Chemistry.

Tutto questo per dire che in fatto di risonanza magnetica nucleare non sono proprio uno sprovveduto. Me ne occupo dal 1992, subito dopo la laurea in Chimica con indirizzo Organico-Biologico. All’epoca iniziai a lavorare al CNR, che aveva una sede ad Arcofelice, vicino Pozzuoli, in provincia di Napoli. È lì che cominciai a usare l’NMR per studiare la relazione struttura-attività dei metaboliti vegetali: un banco di prova perfetto per capire quanto questa tecnica potesse rivelare.

Successivamente passai all’Università degli Studi di Napoli Federico II, dove estesi l’uso della risonanza magnetica nucleare non solo alla fase liquida, ma anche a quella solida e semisolida. Non più soltanto metaboliti vegetali, dunque, ma matrici molto più complesse dal punto di vista chimico: il suolo e la sostanza organica ivi contenuta.

Con il mio trasferimento all’Università di Palermo ho potuto ampliare ulteriormente le competenze in NMR: dall’uso di strumenti a campo magnetico fisso sono passato allo studio delle stesse matrici naturali con spettrometri a campo variabile. Un passo avanti che mi ha permesso di guardare i sistemi ambientali con ancora più profondità e sfumature.

Ed eccomi qui, dopo più di trent’anni di esperienza, a spiegare perché chi immagina di usare la risonanza magnetica nucleare sulla Sindone di Torino forse ha una visione un po’… fantasiosa della tecnica.

Andiamo con ordine.

La Sindone di Torino: simbolo religioso e falso storico

La Sindone

La Sindone di Torino è un lenzuolo di lino lungo circa quattro metri che reca impressa l’immagine frontale e dorsale di un uomo crocifisso. Per il mondo cattolico rappresenta una delle reliquie più importanti: secondo la tradizione, sarebbe il sudario che avvolse il corpo di Cristo dopo la crocifissione. Attorno ad essa si è sviluppato un culto popolare immenso, fatto di pellegrinaggi e ostensioni pubbliche che ne hanno consacrato il valore spirituale.

Ma che cosa ci dice la scienza su questo straordinario manufatto?

La datazione al radiocarbonio

Il dato più solido arriva dalla datazione con il radiocarbonio. Nel 1988 tre laboratori indipendenti – Oxford, Zurigo e Tucson – pubblicarono sulla rivista Nature i risultati delle loro analisi: il lino della Sindone risale a un periodo compreso fra il 1260 e il 1390 d.C., cioè in piena epoca medievale (Damon et al., 1989). La conclusione degli autori fu inequivocabile: “evidence that the linen of the Shroud is mediaeval”.

Riproduzioni sperimentali

A rafforzare questa interpretazione è intervenuto anche il lavoro del chimico Luigi Garlaschelli, che ha realizzato una riproduzione della Sindone utilizzando tecniche compatibili con l’arte medievale: applicazione di pigmenti su un rilievo, trattamenti acidi per simulare l’invecchiamento, lavaggi parziali per attenuare il colore. Il risultato, esposto in varie conferenze e mostre, mostra come un artigiano del Trecento avrebbe potuto ottenere un’immagine con molte delle caratteristiche dell’originale (Garlaschelli, 2009).

Le conferme della storia

Anche le fonti storiche convergono. Un documento recentemente portato alla luce (datato 1370) mostra che già all’epoca un vescovo locale denunciava il telo come un artefatto, fabbricato per alimentare un culto redditizio (RaiNews, 2025). Questo si aggiunge al più noto documento del 1389, in cui il vescovo di Troyes, Pierre d’Arcis, scriveva a papa Clemente VII denunciando la falsità della reliquia.

Le contro-argomentazioni sindonologiche

Naturalmente, chi sostiene l’autenticità della Sindone non è rimasto in silenzio. Le principali obiezioni riguardano:

  1. Il campione del 1988 – secondo alcuni, la zona prelevata sarebbe stata contaminata da un rammendo medievale, o comunque non rappresentativa dell’intero telo (Karapanagiotis, 2025).
  2. L’eterogeneità dei dati – alcuni statistici hanno osservato che i tre laboratori non ottennero risultati perfettamente omogenei, segnalando possibili anomalie (Karapanagiotis, 2025).
  3. Eventi successivi – l’incendio di Chambéry del 1532, o la formazione di patine microbiche, avrebbero potuto alterare la concentrazione di carbonio-14, facendo sembrare il tessuto più giovane (Karapanagiotis, 2025).

Sono ipotesi discusse ma che non hanno mai trovato prove decisive: nessuna spiegazione è riuscita a giustificare in modo convincente come un tessuto del I secolo potesse apparire medievale a tre laboratori indipendenti.

Le nuove analisi ai raggi X

Negli ultimi anni si è parlato di nuove tecniche di datazione basate sulla diffusione di raggi X ad ampio angolo (WAXS). L’idea è di valutare il grado di cristallinità della cellulosa del lino: più il tessuto è antico, maggiore è la degradazione della sua struttura cristallina. Applicata a un singolo filo della Sindone, questa metodologia ha suggerito un’età più antica di quella medievale (De Caro et al., 2022).

Tuttavia, i limiti sono evidenti: si è analizzato un solo filo, e la cristallinità della cellulosa dipende non solo dal tempo, ma anche da condizioni ambientali come umidità, calore o contatto con sostanze chimiche. Inoltre, il metodo è recente e richiede ulteriori validazioni indipendenti. In sintesi: interessante come indicatore di degrado, ma non ancora un’alternativa solida al radiocarbonio.

Una nuova frontiera? L’NMR

Accanto a tutto ciò è emersa anche la proposta di applicare la risonanza magnetica nucleare (NMR) alla Sindone (Fanti & Winkler, 1998). Alcuni autori suggeriscono che questa tecnica possa rivelare “concentrazioni atomiche” di idrogeno, carbonio o azoto nel telo, o addirittura produrre mappe tomografiche.

Nel prossimo paragrafo entrerò nel dettaglio di questa prospettiva “NMR”, analizzando perché, alla luce dell’esperienza maturata in oltre trent’anni di lavoro su queste tecniche, considero queste proposte non solo irrealistiche, ma anche profondamente fuorvianti.

I limiti della prospettiva NMR

Tra le tante proposte avanzate negli anni, c’è anche quella di usare la risonanza magnetica nucleare per studiare la Sindone. Nel lavoro di Giulio Fanti e Ulf Winkler si ipotizza di applicare tecniche NMR per “vedere” la distribuzione di atomi come idrogeno, carbonio e persino azoto sul telo, o addirittura per ottenere mappe tomografiche simili a quelle della risonanza magnetica medica. Sulla carta può sembrare affascinante, ma nella pratica questa prospettiva presenta numerosi limiti.

Nel caso dei protoni (1H), ad esempio, gran parte del segnale in un lino asciutto deriva dall’acqua residua o da componenti volatili: un parametro che può variare fino all’80% semplicemente cambiando le condizioni ambientali. Inoltre, in un solido come il lino della Sindone, l’analisi 1H-NMR non offre risoluzione: lo spettro mostra soltanto due contributi sovrapposti, un picco stretto e intenso dovuto alle zone cristalline della cellulosa e una larga campana sottostante, tipica delle frazioni amorfe. È chiaro, quindi, che non solo è arduo quantificare i protoni, ma è del tutto irrealistico pensare di usarli per una datazione del tessuto.

Per quanto riguarda l’analisi al carbonio-13 (13C), ci sono diversi punti da sottolineare. La tecnica più usata è la CPMAS 13C-NMR: in questo caso una piccola quantità di campione, dell’ordine dei milligrammi, viene inserita in un porta-campioni invisibile all’NMR, posto nel campo magnetico secondo una geometria precisa, e il carbonio viene “visto” sfruttando l’abbondanza dei protoni. Si tratta però di una tecnica qualitativa: non consente una vera quantificazione del nucleo osservato. Inoltre, richiede tempi di misura molto lunghi, con costi elevati e il rischio concreto di non ottenere informazioni davvero utili.

L’alternativa sarebbe la DPMAS 13C-NMR. Qui, a differenza della CPMAS, non ci si appoggia ai protoni e quindi bisogna fare affidamento solo sull’abbondanza naturale del 13C, circa l’1%: troppo bassa. Di conseguenza i tempi macchina si allungano ulteriormente, con dispendio sia di tempo sia economico. E in più la tecnica è priva di risoluzione: i segnali dei diversi nuclei si sovrappongono in un unico inviluppo indistinguibile, rendendo impossibile perfino la stima del rapporto fra cellulosa cristallina e amorfa.

Quanto all’azoto-14 (14N), il nucleo è quadrupolare e produce linee larghissime e difficilmente interpretabili: in pratica, misure affidabili non sono realistiche.

Nel lavoro di Fanti e Winkler, ci sono poi anche problemi di coerenza interna. Nel testo, ad esempio, si ipotizzano tempi di rilassamento e acquisizione non compatibili con i valori sperimentali reali, e si propongono scenari come la “tomografia NMR dell’intero telo” che, per un materiale rigido e povero di mobilità come il lino secco, sono semplicemente impraticabili: i tempi di decadimento del segnale sono troppo brevi perché si possa ricostruire un’immagine come in risonanza magnetica medica.

Infine, il lavoro suggerisce di estendere le misure addirittura a mappature di radioattività con contatori Geiger o a esperimenti di irraggiamento con neutroni, ipotizzando collegamenti con la formazione dell’immagine. Si tratta di congetture prive di fondamento sperimentale, più vicine a un esercizio di fantasia che a un protocollo scientifico realistico.

In sintesi, Fanti e Winkler hanno portato il linguaggio della NMR nel dibattito sulla Sindone, ma le applicazioni che propongono si scontrano con limiti tecnici insormontabili e interpretazioni sbagliate.

L’NMR è uno strumento potentissimo per lo studio di suoli, sostanza organica e sistemi complessi, ma applicarlo alla Sindone nei termini proposti non ha basi scientifiche solide: rischia anzi di trasformare una tecnica seria in un’arma retorica al servizio di ipotesi precostituite.

Conclusioni

Alla fine dei conti, la Sindone di Torino resta ciò che la scienza ha già dimostrato da tempo: un manufatto medievale. Lo dice la datazione al radiocarbonio pubblicata su Nature; lo confermano le riproduzioni sperimentali di Luigi Garlaschelli e i documenti storici del Trecento che la denunciavano come artefatto devozionale; lo ribadiscono i limiti delle nuove tecniche “alternative” che, per quanto presentate come rivoluzionarie, non hanno mai scalfito la solidità del verdetto del 1988. Le contro-argomentazioni dei sindonologi — campioni non rappresentativi, rammendi invisibili, incendi o contaminazioni miracolose — sono ipotesi suggestive, ma prive di prove concrete e incapaci di spiegare perché tre laboratori indipendenti abbiano ottenuto lo stesso responso: Medioevo. Le proposte più recenti, come l’uso dei raggi X o addirittura della risonanza magnetica nucleare, non fanno che spostare il problema, avanzando idee tecnicamente fragili e spesso concettualmente errate.

La Sindone rimane dunque un oggetto straordinario, ma non perché testimoni la resurrezione di Cristo: straordinaria è la sua forza simbolica, straordinaria è la devozione che suscita, straordinaria è la capacità che ha avuto per secoli di alimentare fede, immaginazione e perfino business. Ma sul piano scientifico la questione è chiusa. Continuare a spacciarla per “mistero insoluto” significa ignorare le evidenze e trasformare la ricerca in propaganda. E questo, più che un atto di fede, è un insulto all’intelligenza.

Dal Voltaren al vaccino: perché temiamo ciò che ci salva e ignoriamo ciò che ci nuoce

Uno dei cavalli di battaglia degli antivaccinisti, soprattutto durante la pandemia di Covid, è stato: Non sappiamo cosa ci iniettano. Una frase che sembra prudente, ma che in realtà nasconde il vuoto più assoluto. In rete, e purtroppo anche in certi palchi mediatici, si sono lette e ascoltate fandonie indegne: vaccini pieni di grafene, di materiale “fetale”, di microchip. Panzane. Bufale. Balle cosmiche spacciate per verità scomode.

Il punto è che la percezione del rischio, quando si parla di vaccini, viene distorta fino al ridicolo. Gli stessi che si indignano davanti a una fiala di vaccino non si fanno problemi ad abusare di Voltaren per un mal di schiena, di Tachipirina per un raffreddore o di Aspirina a stomaco vuoto. Farmaci che, se presi male o in dosi eccessive, hanno effetti collaterali ben documentati e tutt’altro che lievi. Ma nessuno apre gruppi Telegram per denunciare il “complotto della Tachipirina”.

E allora torniamo alle basi. La differenza tra pericolo e rischio.
Il pericolo è una proprietà intrinseca di una sostanza: la candeggina, per esempio, è pericolosa. Ma il rischio dipende dall’uso: se non la bevi, se non la respiri, la candeggina non ti ammazza. Lo stesso vale per i farmaci. Aspirina e Tachipirina hanno pericoli reali, ma li consideriamo a basso rischio perché li usiamo con buon senso.

Con i vaccini si è creata la tempesta perfetta: un farmaco nuovo, un’emergenza sanitaria mondiale e un esercito di disinformatori pronti a manipolare la paura. Eppure, i dati clinici erano chiari già nel 2021: i vaccini anti-Covid erano molto più sicuri di tanti farmaci da banco. I rischi di complicazioni gravi erano rarissimi, infinitamente inferiori rispetto a quelli legati alla malattia. Ma invece di guardare i numeri, ci si è lasciati spaventare dai fantasmi.

C’è chi liquida la pandemia come una “farsa”, chi parla di “censura” e di “virostar” in televisione. È il classico copione: invece di discutere sui dati, si attacca chi li porta. Roberto Burioni e altri virologi sono stati accusati di essere “ospiti fissi” senza contraddittorio. Ma davvero serve un contraddittorio tra chi studia i virus da decenni e chi diffonde complotti sui microchip nei vaccini? Sarebbe come chiedere di contrapporre un astrologo a un astronomo quando si parla di orbite planetarie.

La realtà è che i dati c’erano, e chiunque poteva consultarli: studi clinici, report di farmacovigilanza, pubblicazioni scientifiche. Non erano nascosti – erano ignorati. La vera censura è quella che gli antivaccinisti applicano a se stessi e ai loro seguaci: censura dei numeri, censura dei fatti, censura del pensiero critico.

Il risultato? Una percezione capovolta: farmaci familiari diventano “innocui per definizione”, mentre vaccini che hanno salvato milioni di vite vengono descritti come “veleni sperimentali”. Non è prudenza, è ignoranza travestita da saggezza.

Chiariamo una volta per tutte: i vaccini non sono perfetti, ma nessun farmaco lo è. La differenza è che i vaccini non curano soltanto: prevengono, riducono i contagi, salvano intere comunità. Attaccarli con menzogne non è opinione, è irresponsabilità sociale.

In fondo, la chimica e la farmacologia ci dicono una cosa semplice: nessuna sostanza è innocua, nemmeno l’acqua. È il contesto, la dose, l’uso che fanno la differenza. Non capirlo – o, peggio, fingere di non capirlo per ideologia – significa giocare con la salute propria e quella altrui.

Il vero pericolo, oggi, non sono i vaccini. Sono gli antivaccinisti.

Alochimica o Chelichimica? La scienza quotidiana dietro gli aloni delle magliette

Cari lettori vicini e lontani,

vi siete mai chiesti perché si formano gli aloni gialli sotto le ascelle delle maglie chiare? È tutta questione di chimica.

Oltre alla normale igiene personale – uso di acqua e sapone – facciamo molto ricorso a quelli che chiamiamo deodoranti ascellari. In realtà, molti di essi sono deodoranti nel senso che contengono profumi che servono a coprire i cattivi odori che produciamo dopo una giornata intensa. Tuttavia, la maggior parte dei prodotti in commercio contiene anche sostanze chimiche in grado di ridurre la produzione di sudore. In altre parole, sono veri e propri antitraspiranti.

I miei amici biologi e medici mi perdonino se uso un linguaggio un po’ semplificato: il mio obiettivo qui non è fare un trattato, ma spiegare in modo chiaro ciò che accade sotto le nostre ascelle.

Il sudore: un condizionatore naturale

Innanzitutto. diciamo che il sudore ha un ruolo fisiologico molto importante. Per capire meglio, proviamo con un esempio semplice: avete mai bagnato le mani con alcol etilico in estate? Ricorderete la sensazione di fresco che si avverte subito dopo. Perché succede?

L’evaporazione di un liquido – cioè, il passaggio dalla fase liquida a quella gassosa – è un processo che richiede energia. In termini fisici, il sistema assorbe calore dall’ambiente circostante, ovvero la pelle su cui abbiamo messo l’alcol etilico: ecco perché, dopo applicazione di alcol, abbiamo una sensazione di freschezza.

Il sudore funziona allo stesso modo. È composto principalmente da acqua, che evaporando sulla nostra pelle porta via calore e ci aiuta a regolare la temperatura corporea. A questo si aggiungono sali (soprattutto cloruro di sodio), piccole quantità di proteine, lipidi e altre molecole prodotte dal metabolismo.

Da solo, il sudore non ha un odore particolarmente sgradevole. Quell’odore tipico che associamo alle “ascelle sudate” nasce in realtà dall’azione dei batteri che vivono normalmente sulla nostra pelle: essi degradano alcune delle sostanze organiche contenute nel sudore, producendo composti maleodoranti.

Il ruolo dei deodoranti e degli antitraspiranti

Ed eccoci ai deodoranti e agli antitraspiranti. Molti prodotti contengono sali di alluminio (come il cloruro o il cloridrato di alluminio), che riducono la traspirazione formando una sorta di tappo temporaneo nei dotti sudoripari. In questo modo restiamo “asciutti” più a lungo, ma si innescano anche conseguenze meno gradite per i nostri vestiti. Gli aloni gialli, infatti, non derivano semplicemente dal sudore, bensì da una vera e propria orchestra di reazioni chimiche che coinvolgono diversi attori: i sali di alluminio presenti negli antitraspiranti interagiscono con le proteine e i metaboliti azotati del sudore, generando complessi stabili dalle sfumature giallo-brune che si fissano nelle fibre del cotone. Una parte dell’ingiallimento ricorda, in scala ridotta, le reazioni di Maillard, le stesse che fanno dorare pane e biscotti: qui entrano in gioco gli amminoacidi del sudore e i carboidrati della cellulosa del tessuto, catalizzati dal calore corporeo e dalla presenza di metalli. Anche i lipidi e gli acidi grassi secreti dalle ghiandole apocrine danno il loro contributo, andando incontro a processi di ossidazione che producono composti colorati, simili a quelli che rendono irrancidito un olio da cucina. Infine, i residui organici dei deodoranti stessi – fragranze, tensioattivi, polimeri – possono degradarsi e ossidarsi, consolidando l’alone. È, in definitiva, una piccola “reazione chimica da guardaroba”, in cui si intrecciano almeno quattro sistemi: complessi metallo-proteici, reazioni zuccheri-proteine, ossidazioni lipidiche e trasformazioni dei composti organici residui.

Dall’alone al buco: la lenta agonia del cotone

C’è poi un’altra conseguenza meno evidente ma altrettanto fastidiosa: con il tempo le fibre di cellulosa del tessuto, sottoposte a sudore e residui di deodorante, tendono a irrigidirsi e a diventare fragili. Anche qui la chimica ha un ruolo chiave. I sali di alluminio si comportano come veri e propri agenti reticolanti: creano legami incrociati tra le catene della cellulosa, irrigidendo la trama del tessuto. A questo si aggiunge l’effetto dei prodotti di ossidazione del sudore e dei lipidi, che modificano la struttura superficiale delle fibre, rendendole meno elastiche e più inclini a rompersi sotto stress meccanico. È per questo che, oltre agli aloni gialli, le magliette “storiche” finiscono spesso per bucarsi proprio nella zona delle ascelle: le fibre non cedono più in modo elastico, ma si spezzano come se fossero diventate fragili.

Alochimica o chelichimica?

Traendo spunto dall’intervista impossibile a Herr Goethe, potremmo battezzare questo intreccio di reazioni quotidiane con un nome nuovo: Alochimica, la chimica degli aloni, che ci accompagna tanto nel cielo quanto nell’armadio. Il termine deriva dal greco ἅλως, “alone luminoso”, riferito agli astri. In realtà, a voler essere più precisi, dovremmo guardare a κηλίς, che significa “macchia”: da qui il possibile neologismo Chelichimica. In italiano, però, Alochimica suona più evocativo e musicale, mentre Chelichimica è forse più corretto dal punto di vista etimologico sebbene meno immediato. A voi la scelta: quale vi piace di più?

Come prevenire gli aloni (o almeno ridurli)

Alcuni semplici accorgimenti possono limitare il problema:

Conclusione

Dietro un alone giallo c’è molta più chimica di quanto immaginiamo. È la stessa chimica che ci permette di sudare e sopravvivere al caldo, che regola l’equilibrio del nostro corpo e ci difende dallo stress termico. Ma è anche quella che, una volta trasferita sui tessuti insieme ai deodoranti, avvia una catena di reazioni che finisce per lasciare un segno visibile e, a volte, indelebile. Così una semplice maglietta bianca diventa una piccola lavagna su cui si scrivono storie di evaporazione, ossidazione, complessi metallici e fibre irrigidite.

Ecco allora che possiamo parlare, con un pizzico di ironia, di una vera e propria chimica degli aloni domestica: qualcuno la chiamerebbe Alochimica, dal greco ἅλως, “alone luminoso”; altri preferirebbero Chelichimica, da κηλίς, “macchia”. Due nomi diversi per lo stesso intreccio di reazioni quotidiane, che non si manifesta solo nel cielo quando guardiamo il sole o la luna, ma anche nel nostro armadio, tra i vestiti di tutti i giorni. Una scienza silenziosa che ci accompagna ovunque e che, a saperla leggere, trasforma persino un alone giallo sotto l’ascella in un piccolo racconto di meraviglia chimica.

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