Nomine e cortocircuiti: quando l’antiscienza entra nei comitati scientifici

È di queste ore la notizia che il ministro della salute, Orazio Schillaci, ha nominato nel Gruppo Tecnico Consultivo Nazionale sulle Vaccinazioni (NITAG) due tecnici, Paolo Bellavite ed Eugenio Serravalle, dalle posizioni, in più occasioni espresse pubblicamente, in contrasto con quanto riportato nella letteratura scientifica più accreditata (quest’ultima può essere rappresentata dagli articoli riportati qui, qui, qui e qui).

Che cos’è il NITAG?

Dal sito del Ministero della Salute apprendiamo che: Il NITAG è un Organo indipendente col compito di supportare, dietro specifica richiesta e su problematiche specifiche, il Ministero della Salute nella formulazione di raccomandazioni “evidence-based” sulle questioni relative alle vaccinazioni e alle politiche vaccinali, raccogliendo, analizzando e valutando prove scientifiche.

In altre parole, si tratta di un comitato scientifico che, sulla base di prove scientifiche inoppugnabili, consente al Ministero della Salute e, quindi, al Governo di prendere decisioni importantissime in merito a problematiche relative alla salute pubblica.

Chi è Paolo Bellavite

Bellavite è un medico che fino a qualche anno fa ha ricoperto il ruolo di Professore Associato in Patologia Generale presso l’Università di Verona. Le sue posizioni in merito ai vaccini sono riportate sia in interviste che nei libri che ha scritto e pubblicato. In particolare, egli dice di non essere contrario ai vaccini in quanto tali, ma critica duramente quella che definisce una “ideologia vaccinista”. A suo avviso, la narrazione dominante che presenta i vaccini come soluzione unica e infallibile si configura come un dogma che soffoca il dibattito scientifico e il pensiero critico. “Non ha nulla a che fare con la scienza”, ha affermato in un’intervista, parlando di un clima in cui “l’odio vaccinale è la tomba della medicina”.

Autore del libro “Vaccini sì, obblighi no”, Bellavite contesta soprattutto l’obbligatorietà della vaccinazione, sostenendo che il consenso informato debba restare alla base di ogni trattamento sanitario. Il professore ha anche espresso dubbi sull’efficacia a lungo termine dei vaccini anti-Covid e sulla loro capacità di limitare la diffusione del virus, ricordando che “i vaccinati possono infettarsi e trasmettere il virus, a volte anche più dei non vaccinati”.

Dal punto di vista immunologico, Bellavite mette in guardia contro le possibili conseguenze di una stimolazione eccessiva del sistema immunitario attraverso dosi ripetute. E sull’aspetto etico sottolinea: “Siamo ancora nella fase sperimentale. Ha ragione chi ha paura”.

Naturalmente, egli è anche un forte sostenitore della pratica omeopatica. Infatti, Paolo Bellavite sostiene che l’omeopatia non sia una moda passeggera, ma l’espressione di un profondo cambiamento culturale e scientifico che mette in discussione i limiti dell’attuale paradigma medico meccanicistico e molecolare. Questo approccio tradizionale, pur avendo ottenuto importanti risultati, non ha saputo affrontare efficacemente la complessità biologica e clinica, spesso riducendo la medicina a una frammentazione iperspecialistica. L’omeopatia, al contrario, propone una visione sistemica del paziente, centrata sull’individualità, sulla totalità dei sintomi e sulla stimolazione dei processi endogeni di guarigione, concetti che si allineano con la scienza della complessità. Bellavite rivendica per l’omeopatia una dignità scientifica, sostenendo che essa possa essere studiata con metodi sperimentali avanzati e integrata razionalmente nella medicina moderna. Si oppone con forza a ciò che definisce una campagna denigratoria nei confronti dell’omeopatia da parte dei media e di alcuni esponenti del mondo accademico, accusandoli di diffondere affermazioni false senza consentire un contraddittorio serio e competente. Pur riconoscendo il valore di farmaci convenzionali e vaccini in determinate circostanze, Bellavite li considera soluzioni alternative da adottare solo dopo aver tentato approcci più naturali e fisiologici, come omeopatia, fitoterapia, agopuntura, corretta alimentazione e igiene. In questa visione, l’omeopatia non è solo una medicina possibile, ma una medicina vera e prioritaria, da contrapporre a un uso troppo disinvolto e sintomatico della farmacologia convenzionale.

Chi è Eugenio Serravalle

Serravalle è laureato in Medicina e Chirurgia e specializzato in Pediatria Preventiva, Puericultura e Patologia Neonatale. Egli ha più volte preso posizione contro la vaccinazione di massa dei bambini, soprattutto in relazione al Covid-19. Secondo lui, l’infezione da SARS-CoV-2 non rappresenta un’emergenza sanitaria tra i più piccoli e i potenziali rischi della vaccinazione superano i benefici. “Tutti gli studi scientifici affermano che non vi è alcuna emergenza Covid tra i bambini”, ha dichiarato in un’intervista.

Serravalle contesta anche l’efficacia dei vaccini nel prevenire il contagio, soprattutto con l’avvento delle varianti come Omicron. Secondo la sua analisi, in alcuni casi i vaccinati si infettano più dei non vaccinati e l’immunità acquisita naturalmente sarebbe più duratura. Per questo, a suo dire, non sussistono i presupposti per raggiungere l’immunità di gregge né per giustificare obblighi o pressioni vaccinali.

Oltre ad essere un medico, Eugenio Serravalle risulta diplomato in Omeopatia Classica presso la Scuola Omeopatica di Livorno e svolge attività didattica come professore presso l’Accademia di Omeopatia Classica Hahnemanniana di Firenze.

Come Bellavite, quindi, anche Serravalle è un forte sostenitore dell’omeopatia.

In un articolo intitolato “Il Dr. Eugenio Serravalle risponde a Maurizio Crozza sull’Omeopatia”, Serravalle replica alle battute ironiche del comico Crozza sostenendo con fermezza l’efficacia e la correttezza della pratica omeopatica. Scrive:

“Abbiamo una regolare laurea in medicina… e se abbiamo adottato la terapia omeopatica è perché, evidentemente, ne abbiamo sperimentato l’efficacia.”

“Non si può essere venditori di fumo quando si curano pazienti… e tra questi pazienti sono numerosi i bambini e gli animali che non sono influenzabili dall’effetto placebo.”

Con questa risposta, Serravalle rigetta la critica secondo cui l’omeopatia sarebbe solo “fumo” o priva di efficacia, affermando invece di aver osservato personalmente risultati tangibili, anche in soggetti difficilmente influenzabili da placebo.

Quando i conti non tornano

A leggere le dichiarazioni dei due nominati, si potrebbe pensare di essere davanti a voci “fuori dal coro” che invitano alla cautela. Ma basta andare oltre la superficie per capire che non si tratta di sano scetticismo scientifico: siamo, piuttosto, di fronte a posizioni che, alla luce delle evidenze scientifiche disponibili, risultano in contrasto con il consenso della comunità scientifica. Ed è qui che inizia il vero problema.

Il punto centrale è che un organismo tecnico chiamato a esprimere pareri qualificati in materia di salute pubblica deve basarsi su conoscenze aggiornate e scientificamente inoppugnabili. Non può diventare il ricettacolo di discussioni inutili fatte in nome di una presunta “pluralità di opinioni”. Il concetto di democrazia politica è completamente diverso  – e molto lontano – da quello di democrazia scientifica. In una democrazia politica è legittimo avere opinioni diverse su come affrontare un problema di gestione della res publica. In ambito tecnico-scientifico, invece, un’opinione non qualificata non ha lo stesso peso di quella di chi possiede competenze specifiche e fondate sull’evidenza.

Ecco perché, per esempio, ci fu la levata di scudi del mondo accademico agrario quando si paventò l’ingresso di esponenti della biodinamica in tavoli tecnici per l’assegnazione di fondi all’agricoltura.

A mio avviso, il Ministro ha preso decisioni discutibili, in nome di una pluralità di opinioni che, in ambito scientifico, non ha alcun senso. Sta ora tentando di mettere delle pezze a questa scelta, dimenticando che anche lui è un medico e ha responsabilità che vanno ben oltre la sua funzione politica.

Se mai un responsabile istituzionale si trovasse nella condizione di dover cedere a compromessi, la scelta più coerente con la difesa della scienza sarebbe quella di rassegnare le dimissioni. Servirebbe, come nel caso della biodinamica, una sollevazione compatta del mondo scientifico e medico. Nel frattempo, nel mio piccolo, continuo a far sentire la mia voce e auspico che tutti gli organismi professionali – dagli ordini alle società scientifiche – facciano sentire la loro, in difesa della medicina basata sulle prove e della salute pubblica.

Il cortocircuito dell’antiscienza

Le posizioni di Paolo Bellavite ed Eugenio Serravalle non sono semplicemente “opinioni alternative” in un dibattito tra pari. Non si tratta di ricercatori che presentano dati nuovi, pronti a essere vagliati e discussi dalla comunità scientifica: qui non c’è nessun dato nuovo. C’è, piuttosto, un riciclo di tesi contestate e smentite dalla letteratura scientifica, che riaffiorano come vecchie erbacce tra le crepe del discorso pubblico.

Con l’omeopatia il copione lo conosciamo bene: una pratica nata oltre due secoli fa, costruita su concetti come “similia similibus curentur” e “dinamizzazione”, mai dimostrati in modo riproducibile. Nei miei articoli – dalla presunta memoria dell’acqua (link) alle più recenti fantasie agronomiche (link) – ho mostrato come la letteratura scientifica di qualità non abbia mai trovato un effetto dell’omeopatia superiore al placebo. Chi la difende, spesso, non lo fa su basi sperimentali, ma su convinzioni personali, esperienze aneddotiche o richiami a un presunto “cambiamento di paradigma” che non trova riscontro in alcun dato.

Sul fronte dei vaccini, il meccanismo è simile: si selezionano singoli studi, si estrapolano dati fuori contesto, si enfatizzano le incertezze inevitabili di ogni processo scientifico per far passare l’idea che “non sappiamo abbastanza” o che “i rischi superano i benefici”. Nei miei pezzi – da antivaccinisti ed immunità di gregge a vaccini e corretta informazione scientifica – ho spiegato come l’evidenza accumulata su milioni di dosi mostri una riduzione netta di ospedalizzazioni e decessi.

Quando Bellavite parla di “fase sperimentale” per i vaccini anti-Covid, non sta facendo un’osservazione prudente: formula un’affermazione che non trova riscontro nei dati scientifici, perché quei vaccini hanno completato tutte le fasi di sperimentazione necessarie per l’autorizzazione. Quando Serravalle afferma che “i vaccinati si infettano più dei non vaccinati”, non menziona i dati che mostrano come, pur con una protezione dall’infezione che diminuisce nel tempo, la vaccinazione resti una barriera fondamentale contro le forme patologiche gravi e le loro complicanze.

La contraddizione diventa lampante quando entrambi propongono l’omeopatia come alternativa o complemento “prioritario” alla farmacologia. Il mandato del NITAG è basato sull’evidence-based medicine, e l’omeopatia non rientra in alcuna linea guida internazionale sul trattamento o la prevenzione di malattie infettive. È paragonabile, per incoerenza, a nominare un negazionista del cambiamento climatico in un comitato per la transizione ecologica: il risultato è solo quello di minare la credibilità dell’organo stesso.

Il problema, però, non è solo tecnico. È culturale. Dare spazio istituzionale a posizioni non supportate da dati scientifici significa legittimare un messaggio pericoloso: che le evidenze scientifiche siano opinioni e che la sanità pubblica possa essere guidata da convinzioni personali. È il cortocircuito dell’antiscienza: quando la politica apre la porta a teorie già confutate, la fiducia nelle istituzioni si sgretola e i cittadini restano più esposti a bufale e disinformazione. Come ho scritto altrove  – qui e qui – quando la pseudoscienza entra dalla porta principale, la salute pubblica rischia di uscire dalla finestra.

Clima e pseudoscienza: anatomia di una discussione

Qualche giorno fa ho pubblicato il terzo e, speravo, ultimo articolo di un reportage sui cambiamenti climatici. In questo articolo, intitolato I cambiamenti climatici? Sì, siamo noi i responsabili, ho discusso delle prove oggettive – corredate da riferimenti puntuali – che hanno portato l’intera comunità scientifica alla conclusione che i responsabili di quanto sta accadendo attualmente sulla superficie terrestre, ovvero l’aumento delle temperature globali e la conseguente alterazione degli ecosistemi, siamo noi esseri umani.

In quel testo ho cercato di mostrare, in modo accessibile ma rigoroso, perché la tesi dell’origine antropica dell’attuale riscaldamento globale non sia più un’ipotesi, ma una conclusione supportata da una mole imponente di dati.

Ho parlato del ruolo dei gas serra, in particolare della CO₂ prodotta dalla combustione di combustibili fossili, la cui impronta isotopica è ben riconoscibile in atmosfera. Ho discusso anche delle fonti indipendenti che confermano il trend in atto – dalle carote glaciali agli anelli degli alberi, dai sedimenti oceanici alle misurazioni satellitari – e delle ragioni per cui né l’attività solare né le eruzioni vulcaniche possono spiegare ciò che osserviamo oggi.

Infine, ho evidenziato come la rapidità del riscaldamento attuale – oltre un grado in appena un secolo – sia senza precedenti nella storia recente del pianeta, e come l’intero corpo scientifico internazionale, sintetizzato nei report dell’IPCC, abbia ormai raggiunto un consenso solido e ben documentato su questo punto.

Non è necessario riproporre qui tutti i riferimenti bibliografici: si trovano nell’articolo appena riassunto (qui il link).

Eppure, eccomi di nuovo a scrivere sull’apporto antropico all’effetto serra. Non per aggiungere nuove evidenze, ma per riflettere sul modo estremamente fallace – e sempre più diffuso – di ragionare dei negazionisti del cambiamento climatico. Non si tratta, in questo caso, di negazionisti tout court: anche loro, ormai, devono riconoscere l’evidenza dell’aumento delle temperature globali. Si tratta piuttosto dei negazionisti dell’origine antropica, coloro che rifiutano di accettare che la causa principale del riscaldamento sia l’attività umana.

In un gruppo Facebook che aiuto a gestire – Bufale e dintorni gruppo – sono comparsi i primi commenti al mio post con cui pubblicizzavo l’articolo (potete farvene un’idea a questo link).
Poiché si tratta di un gruppo privato – quindi i post non sono visibili pubblicamente – e considerando che non tutti hanno un account Facebook attivo, riporto di seguito gli screenshot della discussione.

La Figura 1 riporta la condivisione dalla mia pagina Facebook “Rino Conte”.

Figura 1. Screenshot relativo alla condivisione del mio articolo sull’effetto antropico nei cambiamenti climatici. Questo thread ha dato la stura a una discussione con un negazionista di tale effetto.

La Figura 2 riporta (spero in modo leggibile, altrimenti è necessario da parte dei volenterosi scaricare l’immagine ed effettuarne uno zoom) la discussione in corso tra me ed il negazionista dell’effetto antropico sul clima.

Figura 2. Discussione in corso tra me ed il negazionista dell’effetto antropico sul clima.

E proprio mentre sto scrivendo questo articolo la discussione continua (Figura 3).

Figura 3. Proseguimento della discussione mentre scrivo questo articolo.

Come si evince dagli screenshot, il tutto ha inizio dall’inserimento di un link a un articolo giornalistico in cui si riporta un filmato che mostra il comportamento di certi ghiacciai negli ultimi 800 000 anni. Questo filmato è tratto da un lavoro scientifico dal titolo “Modelling last glacial cycle ice dynamics in the Alps” pubblicato nel 2018 sulla rivista The Cryosphere della European Geoscience Union, associazione per la quale anche io ho organizzato in passato dei miniconvegni nell’ambito delle attività congressuali più generali che si fanno ogni anno a Vienna in Austria (per esempio, uno è qui).

Chi ha condiviso questo studio nella discussione lo ha fatto con l’intento – più o meno esplicito – di suggerire che, dal momento che i ghiacciai alpini si sono espansi e ritirati ciclicamente nel passato, il cambiamento climatico attuale potrebbe essere semplicemente parte di una lunga variabilità naturale. È un’inferenza del tutto errata, che nasce da un fraintendimento delle finalità e dei contenuti del lavoro scientifico citato.

Infatti, lo studio in questione (Seguinot et al., 2018) non parla di cambiamenti climatici attuali né tantomeno ne discute le cause. Si tratta di un lavoro di modellizzazione numerica della dinamica glaciale delle Alpi durante l’ultimo ciclo glaciale (da 120.000 a 0 anni fa), che ha lo scopo di testare la coerenza tra ricostruzioni geologiche e simulazioni del comportamento dei ghiacciai su scala millenaria. Non c’è nel testo alcuna analisi delle cause del riscaldamento moderno, né alcun confronto con l’evoluzione recente del clima terrestre.

Quello che il mio interlocutore ha fatto è un tipico esempio di bias di conferma: ha estrapolato da un articolo tecnico una conclusione che non c’è, perché questa coincide con la propria convinzione preesistente. È un meccanismo comune tra i cosiddetti “negazionisti soft” – persone che, pur riconoscendo che il clima sta cambiando, rifiutano l’idea che l’essere umano ne sia il principale responsabile.

La dinamica della discussione su Facebook lo conferma: ogni volta che si porta un dato, una misura, una ricostruzione paleoclimatica, l’interlocutore non contesta la validità della fonte, ma sposta il piano, relativizza, introduce “dubbi” storici o filosofici. E infine si rifugia nel mito del “Galileo solitario”, come se ogni minoranza fosse destinata a diventare verità solo perché è minoranza. Ma Galileo non aveva ragione perché era solo: aveva ragione perché aveva i dati e un metodo.

Ecco il punto: il problema non è tanto avere un’opinione diversa, quanto non saper distinguere tra opinione personale e conoscenza scientifica. E non è un caso che questo tipo di retorica si ritrovi spesso in altri ambiti della disinformazione scientifica: chi si sente “eretico” rispetto al sapere ufficiale tende a sopravvalutare le proprie intuizioni e a sottovalutare il lavoro, faticoso e rigoroso, di chi fa scienza sul serio.

Discutere con chi rifiuta le conclusioni della scienza può essere faticoso, ma è anche necessario. Non per convincere chi ha già deciso di non ascoltare, ma per fornire strumenti a chi legge in silenzio, a chi cerca chiarezza in mezzo al rumore. La scienza non ha bisogno di essere difesa come un dogma: si difende da sé, con i dati, con la trasparenza dei metodi, con la disponibilità al confronto critico. Ma proprio per questo va protetta dalle distorsioni, dalle semplificazioni, e soprattutto dal relativismo delle opinioni travestite da verità.
Il cambiamento climatico attuale è un fenomeno reale, misurabile e in larga parte causato dalle attività umane. Continuare a negarlo non è esercizio di pensiero critico, ma una forma di resistenza ideologica che rischia di ritardare l’unica cosa che oggi dovremmo fare: affrontare il problema con serietà, competenza e senso di responsabilità.

EDIT

Mentre mi accingevo a pubblicare questo articolo, il mio interlocutore ha pubblicato un’ultima risposta che ho deciso di riportare integralmente per completezza. Qui sotto trovate anche la mia replica con cui ho deciso di concludere la discussione pubblica.

Interlocutore:

Pellegrino

  1. Lei stesso parla di “stime solide”; che sono appunto stime, non misurazioni dirette.
  2. “Sappiamo perché”, è un’altra forzatura. In realtà abbiamo delle interpretazioni plausibili per molte di esse, ma ciò non equivale a una certezza assoluta. Anche nelle osservazioni attuali, ci si imbatte in anomalie impreviste, tipo l’impatto dello scioglimento del permafrost, temperature previste che poi non si sono verificate… E parliamo di osservazioni dirette; figuriamoci sulle “stime” di fenomeni non osservati direttamente. Per non parlare dell’infinito dibattito su quanto influiscano o meno le macchie solari…

Stesso discorso sul fatto che le oscillazioni in passato non avvenissero in decenni, trascurando che non possiamo sapere se gli strumenti che abbiamo a disposizione siano davvero affidabili con tale precisione. Mancando l’osservazione diretta, non possiamo verificarlo.

Dire che “potrebbero esserci state” significa semplicemente dire che il modello generale è ancora soddisfatto; per dimostrare l’anomalia bisogna dimostrare che davvero non ci siano precedenti. È un discorso di presunzione d’innocenza: per dare la colpa all’uomo bisogna dimostrarla; il “ragionevole dubbio” è a favore dell’imputato. Foss’anche solo per mancanza di prove.

  1. Il moto dei pianeti era noto da sempre (“planities” significa appunto “errante”), ma lui (anzi, Copernico) fornì solo un modello di calcolo semplificato. Infatti, a dirla tutta, il sole non è affatto al centro dell’universo ma si muove pure lui… In questo ha ragione l’insegnante del prof. Barbero che diceva che il card. Bellarmino era più moderno di Galileo.
  2. A “negazionista” si potrebbe contrapporre “fideista”, ovvero uno che sposa senz’altro ciò che dice la maggioranza stigmatizzando il dubbio. Ma io continio a ricordare che la stessa comunità scientifica oggi certa del riscaldamento globale appena quarant’anni fa era ugualmente certa dell’imminenza di un’era glaciale. Un cambio di rotta di 180 gradi in meno di mezzo secolo, e si dovrebbe prendere per oro colato anche l’attribuzione di responsabilità? Anche a fronte di numerose previsioni rivelatesi poi errate?
  3. Su un punto, concordo senz’altro: sulla separazione netta tra dissertazione scientifica e azione concreta (e non potrei dire diversamente, dato che come ho già detto opero nella Protezione Civile).

Il punto certo è che vi sia in atto un cambiamento climatico che attualmente va verso un aumento delle temperature, che il problema è serio e che la cosa va affrontata. Ridurre il più possibile (e possibilmente azzerare) l’impatto antropico non ha controindicazioni, e quindi va benissimo farlo; e infatti ne sono da sempre un convinto sostenitore.

A mio modesto parere, non servirà a granché, perché se Madre Natura ha deciso che è tempo di un nuovo Eocene, Eocene sarà; che ci piaccia o no.

Quindi, oltre ad azzerare le emissioni, miglioriamo l’efficienza dei condizionatori, perché ne avremo comunque bisogno. Tutto qui.

Io:
grazie per aver chiarito ulteriormente il suo punto di vista. Le rispondo un’ultima volta, per chi ci legge e non per la soddisfazione di “avere l’ultima parola”, che non mi interessa.

Sì, le proxy sono stime, ma sono stime calibrate, validate e incrociate da molte fonti indipendenti. Nessun climatologo confonde una proxy con una misura diretta, ma la scienza lavora ogni giorno per rendere sempre più affidabili quelle stime. E il fatto che convergano tutte sul medesimo trend dà forza alla ricostruzione. Questo è il normale funzionamento della scienza, non una debolezza.

Nessuno pretende certezze assolute, né le scienze naturali le promettono. Lei invece sembra richiedere una prova “oltre ogni dubbio”, come se fossimo in un’aula di tribunale. Ma la scienza si basa sulla probabilità, sul peso delle evidenze, sulla capacità predittiva dei modelli. Oggi, la quantità di prove che puntano all’origine antropica del riscaldamento è così ampia da rendere l’ipotesi alternativa – quella esclusivamente naturale – altamente improbabile. Ed è su questo che si fondano le politiche, non sull’attesa della perfezione epistemologica.

Il paragone con Galileo e Bellarmino è affascinante ma fuori luogo. Galileo non aveva solo un modello “più semplice”: aveva anche l’evidenza delle fasi di Venere e delle lune di Giove. Il suo valore non sta nel ribellarsi alla maggioranza, ma nell’aver offerto dati e osservazioni migliori. Lei invece continua a proporre “dubbi” senza portare nessun dato nuovo, solo generalizzazioni.

La comunità scientifica non era “certa” dell’era glaciale negli anni ’70. Questa è una leggenda urbana, smentita dai dati storici: all’epoca la maggior parte degli articoli già indicava un riscaldamento, non un raffreddamento. Se guarda i paper dell’epoca, lo vede chiaramente.

Quanto agli errori previsionali: il fatto che un modello venga corretto o raffinato è normale in ogni scienza. Non è un fallimento, è progresso. Non confondiamo fallibilità con inattendibilità.

Mi fa piacere leggere che riconosce l’urgenza del problema e sostiene l’azione per ridurre le emissioni. Su questo ci troviamo d’accordo. Tuttavia, dire “tanto non servirà a nulla” è una rinuncia mascherata da fatalismo. La scienza climatica non dice che siamo condannati, ma che abbiamo una finestra temporale per ridurre gli impatti futuri. La differenza tra +1,5 °C e +4 °C non è affatto irrilevante. E anche se non possiamo evitare ogni effetto, possiamo evitare quelli peggiori. Questa è responsabilità, non fideismo.

Chiudo qui il mio intervento, perché i fatti, i dati e il consenso scientifico sono pubblici e verificabili. Il resto è opinione personale – legittima – ma non equiparabile alla conoscenza prodotta dalla scienza.

Nota finale: ho riportato per esteso questo scambio non per dare visibilità a una posizione pseudoscientifica, ma per mostrare, in modo documentato, come ragiona chi nega l’origine antropica del cambiamento climatico, e perché queste argomentazioni non reggano al vaglio della scienza.

Senza logica mal si cogita: intervista

Non sono sparito dal panorama della rete. Ho solo diradato i miei interventi e mi limito a considerazioni sulle cose più curiose e strane che mi possono capitare per le mani.

Qualche tempo fa Michele Totta, autore di un bellissimo libro sull’intreccio tra scienza e filosofia (qui) e gestore di un ottimo canale YouTube dal titolo “Senza logica mal si cogita” (qui), mi chiese la disponibilità per una breve intervista sulla scienza e sulle mie attività. Inutile dire che mi sono sentito onorato per una tale richiesta ed ho accettato con enorme piacere. L’unico problema è che se mettete un microfono in mano a un professore universitario, il concetto di “breve” è relativo. Ed infatti l’intervista è durata un po’ più di un’ora. Devo dire che non me ne sono accorto, ovviamente, e mi sono divertito parecchio. Abbiamo parlato di un bel po’ di cose, finendo anche sull’idea che ho io di scienza e sui motivi che mi hanno spinto a fare il chimico. Se avete voglia di passare un’oretta circa della vostra vita con Michele e me, basta cliccare qui sotto:

 

 

Pensieri in libertà su suolo, agricoltura e altre facezie

Mi scuseranno i miei lettori se pubblico un articolo un po’ noioso. Gli argomenti di cui tratto qui sono un riassunto delle ultime paio di lezioni del mio corso di Chimica dei suoli forestali. Approfitto del mio blog come fonte di dispense di studio.

Cosa è un suolo

Il suolo è un sistema complesso che per definizione è la risultante delle interazioni tra idrosfera, litosfera, atmosfera e biosfera. Questa definizione di carattere generale implica che il suolo non è soltanto composto da sistemi inorganici (tra cui i minerali argillosi giocano un ruolo fondamentale), ma anche da una componente aerea (l’aria tellurica), una componente liquida (la cosiddetta soluzione circolante) ed infine una componente organica che comprende anche gli esseri viventi che, morfologicamente parlando, vanno da una scala micro ad una scala macro.

L’impoverimento del suolo

La produzione alimentare e quella dei tessuti si basa proprio sulla complessa interazione tra le componenti anzidette. Questo vuol dire che quando una pianta viene raccolta per produrre cibo o fibre tessili, il suolo si impoverisce sia delle componenti inorganiche che di quelle organiche utilizzate dalla pianta per passare dallo stadio di seme a quello adulto.

Il depauperamento del suolo, per effetto della riduzione del contenuto di componenti inorganiche facilmente disponibili per le piante e del contenuto di sostanza organica,  implica una riduzione della fertilità intesa come capacità di sostenere la vita. La riduzione della fertilità comporta anche la riduzione della produttività agricola con conseguenze negative sia di tipo economico che di tipo alimentare. In altre parole, a parità di superficie coltivata si riduce la quantità di alimenti e fibre tessili disponibile per soddisfare il fabbisogno di una popolazione in costante crescita.

Quando negli anni del boom economico l’industria chimica scoprì che l’uso di sali inorganici facilmente solubili nella soluzione circolante consentiva il miglioramento della produzione agricola, si pensò di aver trovato la panacea di ogni male. In parole povere, si pensò che l’uso massivo di concimazioni inorganiche potesse consentire guadagni progressivamente crescenti sia in termini economici che in termini di produzione alimentare (necessaria a soddisfare la crescente domanda di cibo da parte della popolazione mondiale) su superfici di suolo sempre più piccole.

Fu dimenticato il ruolo fondamentale ricoperto dalla sostanza organica, sensu lato, nel migliorare le qualità del suolo quali pH, tessitura, struttura, porosità e capacità assorbenti tra cui la ben nota capacità di scambio ionico. L’impoverimento del suolo si associava a fenomeni erosivi che sfociavano in quella che oggi è nota come desertificazione (Fonte). La conseguenza di tutto ciò fu la progressiva contaminazione ambientale.

L’agricoltura sostenibile

Quando ci si rese conto del ruolo che tutte le componenti del suolo, nessuna esclusa, avevano nello sviluppo della cosiddetta fertilità, si cominciarono a mettere in atto tutte quelle pratiche che nel 1992, nella conferenza mondiale sull’ambiente tenutasi a Rio de Janeiro, furono codificate con l’aggettivo “sostenibile” (qui la Dichiarazione di Rio sull’Ambiente e lo Sviluppo). La sostenibilità agricola consiste, quindi, nella possibilità di usare il suolo per la produzione alimentare e tessile mentre si preservano tutte quelle caratteristiche che sono necessarie alla conservazione della fertilità per le generazioni future.

Attualmente le pratiche agricole sostenibili sono confluite in quella che si chiama agricoltura integrata. Questa tipologia di agricoltura fa largo uso di tutto il sapere scientifico e tecnologico che è in continuo divenire. Per esempio, nella pratica viti-vinicola, e non solo, si fa uso dei droni e delle osservazioni satellitari che consentono interventi mirati, direi di tipo chirurgico, con notevole riduzione dell’impatto ambientale (Fonte).

Lo sviluppo scientifico e tecnologico ha portato anche all’ottenimento di piante resistenti a molte patologie prima estremamente impattanti. Mi riferisco alla tanto demonizzata tecnologia degli organismi geneticamente modificati che consente non solo la riduzione quantitativa degli agrofarmaci potenzialmente tossici per gli esseri viventi, essere umano incluso, ma anche l’ottenimento di cibo arricchito di nutrienti essenziali per la lotta alle conseguenze fisiche della povertà alimentare (mi riferisco, per esempio, al tanto demonizzato Golden rise®). Sugli OGM ho scritto già un articolo qualche tempo fa:

Gli OGM per le biodiversità

Sulla terminologia scientifica e sull’uguaglianza naturale=buono

Da scienziati dobbiamo avere la sensibilità di usare i termini nel modo giusto e secondo le accezioni che vengono date in ambito scientifico. Se per primi noi stessi non facciamo questo esercizio, non possiamo, poi, pretendere che le persone che non hanno la medesima formazione culturale utilizzino le parole per il significato che esse hanno realmente.

Mi riferisco, in modo particolare, alle locuzioni “prodotti chimici”, “concimazione chimica”, “fertilizzanti chimici”, etc. che vengono riproposte ogni qual volta si parla di agricoltura.

L’aggettivo “chimico” è ridondante quando è associato a termini come “prodotti”, “concimazione” e “fertilizzanti”. La predetta ridondanza, che rientra, purtroppo, nel linguaggio comune, dà adito alla dilagante chemofobia secondo la quale tutto ciò che è chimico è “cattivo”, tutto ciò che è naturale è buono. Come ho scritto nel mio libro “Frammenti di Chimica”, l’uguaglianza naturale=buono non tiene conto del fatto che i veleni più devastanti sono proprio di origine naturale. Alcuni esempi sono le piretrine – insetticidi ed antiparassitari – presenti in alcune specie di crisantemi (Fonte),  il curaro – dall’attività neurotossica – fatto da principi attivi prevalentemente di origine vegetale (Fonte),  le bufotossine prodotte da certe specie di rospi (Fonte) e potrei continuare. Le succitate sostanze, però, se usate nelle dosi opportune hanno attività farmacologica consentendo di curare alcune patologie anche mortali per l’essere umano.

Come per l’uguaglianza naturale=buono, il medesimo discorso si applica a quella chimico=cattivo, dove per “chimico”, nell’accezione “popolana”, si intende la chimica di sintesi, quella, cioè, deputata alla sintesi di composti aventi proprietà chimico-fisiche-biologiche di interesse per tutti gli esseri viventi. Alcuni esempi? La nitroglicerina è il composto di sintesi usato per fabbricare la dinamite (Fonte). Si tratta di un potente esplosivo che diede inizio all’industria degli esplosivi usati ancora oggi in tante battaglie e guerre. Ebbene, l’attività esplosiva di questa molecola è dovuta alla presenza di tre gruppi nitro (-NO3) che conferiscono una certa instabilità chimica al prodotto. Quando la molecola è sottoposta a forte agitazione o a variazioni termiche dà luogo a una reazione che può essere descritta dalla seguente equazione:

3C3H5N3O9  → 12CO2 + 6N2 + O2 + 10H2O + ΔH (-1.5 MJ mol-1)

Si sviluppano gas e una quantità enorme di energia termica che sono responsabili della deflagrazione quando la molecola è inserita in un contenitore chiuso.

Quando la nitroglicerina viene assunta per via orale – in concentrazioni farmacologiche, il processo di degradazione segue altre vie dando luogo alla formazione di monossido di azoto (NO) che è un potente vasodilatatore. Si tratta del vasodilatatore che è in grado di rimediare ai dolori dell’angina pectoris (Fonte). Altri esempi di prodotti di sintesi che vengono usati nella comune pratica medica sono l’insulina – prodotta in laboratorio grazie all’azione di microrganismi geneticamente modificati, l’aspirina – che si ottiene per acetilazione dell’acido salicilico, l’ibuprofene – che si può ottenere sia mediante il processo Hoechts che il processo Boot, etc. etc.

Da questi pochi esempi si capisce come non tutto quello che è naturale faccia bene alla salute e non tutto ciò che è prodotto in laboratorio sia nocivo. In definitiva le uguaglianze naturale=buono e chimico=cattivo sono solo delle trovate pubblicitarie per super-semplificare problemi complessi a persone che non sono abituate al ragionamento controintuitivo (io le chiamo “menti semplici”).

Sul consumo dei suoli

Fatta questa osservazione che mi consente di dire di essere in costante disaccordo con chiunque usi in modo ridondante o sbagliato termini che appartengono alla disciplina chimica, bisogna avere dati alla mano per capire come venga praticata l’agricoltura nei diversi territori del nostro Paese e di come il suolo venga sfruttato. I dati ci sono forniti dall’ISPRA (Fonte).

 

Regione Suolo consumato 2020 [%] Suolo consumato 2020 [ettari] Incremento 2019-2020 [consumo di suolo annuale netto in ettari]
Lombardia 12.1 288504 765
Veneto 11.9 217744 682
Campania 10.4 141343 211
Emilia-Romagna 8.9 200404 425
Puglia 8.1 157718 493
Lazio 8.1 139508 431
Friuli-Venezia Giulia 8.0 63267 65
Liguria 7.2 39260 33
Marche 6.9 64887 145
Piemonte 6.7 169393 439
Sicilia 6.5 166920 400
Toscana 6.2 141722 214
Umbria 5.3 44427 48
Calabria 5.0 76116 86
Abruzzo 5.0 53768 247
Molise 3.9 17317 64
Sardegna 3.3 79545 251
Basilicata 3.2 31600 83
Trentino-Alto Adige 3.1 42772 76
Valle d’Aosta 2.1 6993 14
Italia 7.1 2143209 5175

Fonte della tabella

Dalla tabella si evince come le diverse regioni Italiane si comportino diversamente nei confronti della risorsa non rinnovabile “suolo”. Le Regioni meno virtuose nel 2020 sono state Lombardia, Veneto e Campania con un consumo di suolo maggiore del 10%. Questo numero significa che fatta 100 la superficie delle regioni, nel 2020 le tre Regioni hanno perduto più del 10% della loro superficie rispetto all’anno precedente. Perdere una superficie vuol dire che essa viene sottratta alla produzione alimentare e delle fibre tessili per esigenze di tipo insediativo (Fonte).

Sugli effetti del consumo di suolo sull’attività agricola e l’uso dei fitofarmaci

Usando la logica comune ne viene che se una parte della superficie di un Paese viene sottratta alla produzione alimentare, ciò che ne rimane deve subire uno stress maggiore per soddisfare le esigenze nutritive di una popolazione in costante aumento. Come conseguenza, sembrerebbe chiara la veridicità del sentire comune secondo il quale la pratica agricola fa sempre più largo uso di fitofarmaci contribuendo alla progressiva contaminazione ambientale.

Ancora una volta bisogna ribadire che affermazioni straordinarie richiedono prove straordinarie. Le nostre prove vengono sempre dall’ISPRA e, in particolare, dall’ultimo rapporto pubblicato nel 2019 e relativo alla “Distribuzione per uso agricolo dei prodotti fitosanitari (erbicidi, fungicidi, insetticidi, acaricidi e vari)”. In tale rapporto si riporta chiaramente che:

Nel 2016 sono stati immessi in commercio circa 124 mila t di prodotti fitosanitari (p.f.), con una diminuzione dell’ 8,8% rispetto al 2015 (Tabella 1). Di questi il 49,2% è costituito da fungicidi, il 17,6% da insetticidi e acaricidi, il 18,2 % da erbicidi e il 15% dai vari. Per quanto riguarda il contenuto in principi attivi (p.a.) si registra un calo complessivo del 4,8 %, pari a 3.063 t. Il 60,6% del totale di p.a. è costituito dai fungicidi, seguono, nell’ordine, i vari (16,7%), gli erbicidi (12,4%), gli insetticidi e gli acaricidi (9,6%) e i biologici (0,7%). Nel periodo 2006–2016, la distribuzione dei p.f. presenta una contrazione del 16,7% (24.884 t). Cala il quantitativo di tutte le categorie: fungicidi (-19,6%), insetticidi e acaricidi (-19,2%), erbicidi (- 14,7%) e dei vari (-3%). Anche nel 2016, in linea con le due annate precedenti, i consumi di p.a. biologici aumentano (+15,5 % rispetto al 2015), confermando un’inversione di tendenza. La distribuzione delle trappole, anch’essa associata a criteri di difesa innovativi e a minor impatto sull’ambiente, subisce un crollo passando da poco più di 583 mila a poco più di 191 mila unità. Considerando anche le classi di tossicità previste prima della definitiva entrata in vigore del nuovo sistema di classificazione introdotto dal Regolamento (CE) n.1272/2008, nel 2016 i p.f. molto tossici e tossici rappresentano il 3,9% del totale, i nocivi il 25,7% e i non classificabili il restante 70,3%. Rispetto al 2015 si rileva una decisa riduzione in tutte le categorie: molto tossici e tossici (-29,7%), nocivi (-10,4%), non classificabili (-6,6%). Nel lungo periodo (2006-2016) i molto tossici e tossici registrano una riduzione del 41,9%. I nocivi, che alternano aumenti e diminuzioni, presentano invece un sostanziale aumento (+38%). La distribuzione dei p.f. non classificabili, anch’essa con andamenti fluttuanti, risulta decisamente minore (-25,7%). Nel periodo 2006–2016 si assiste, nel complesso, a un’accentuata contrazione dei consumi in p.a. (-26%), con dinamiche diverse e talora irregolari per le varie categorie. Diminuiscono notevolmente i p.a. di tutte le categorie (insetticidi e acaricidi -47,3%, fungicidi – 28,1 %, erbicidi – 16,1%, vari -5,9%) ad esclusione dei biologici, che continuano ad aumentare (+252%). In valore assoluto essi si attestano, nel 2016, intorno alle 409 t, superiore rispetto a tutti gli anni precedenti. Tutti i p.a. dimostrano un andamento complessivamente in diminuzione, ma fluttuante. Ciò si verifica in modo più evidente per i fungicidi. Tale andamento rispecchia in modo particolare scelte e necessità di natura tecnica ed agronomica (andamento climatico), ma non si possono escludere anche strategie commerciali delle industrie produttrici”.

Andando al 2020, invece, l’ISPRA ha pubblicato il “Rapporto nazionale pesticidi nelle acque” relativo al biennio 2018-2019 dal quale si evince che:

dove il monitoraggio viene eseguito in modo più capillare, tanto più vengono riscontrate presenze di agrofarmaci nelle acque. Tuttavia, questo aumento dei punti che presentano tracce di agrofarmaci non dovrebbe essere confuso con un peggioramento generale della gestione degli agrofarmaci. In ogni caso dal rapporto appare anche che il monitoraggio delle acque superficiali e delle acque profonde, mostra segni di miglioramento rispetto al rapporto precedente. Difatti, per le acque superficiali il 79% dei campioni ha presentato concentrazioni di agrofarmaci inferiori agli SQA (Standard di Qualità Ambientale, nel 2016 erano il 76,1%), mentre per le acque sotterranee i punti di monitoraggio al di sotto degli SQA sono stati quasi il 95% (nel 2016 erano il 91,7%). Anche la vendita di prodotti fitosanitari, come visto, sta mostrando da tempo dei trend in diminuzione sia in termini di quantità assolute che di quantità per ettaro di SAU: i prodotti fitosanitari sono diminuiti del 22,4%, mentre i principi attivi del 27%” (Fonte).

In altre parole, le opinioni personali, le sensazioni soggettive, l’idea che “quando eravamo piccoli si stava meglio” oppure i casi particolari limitati a pochi ettari di suolo (rispetto alla superficie nazionale) in cui gli agricoltori si comportano come criminali, non contano ai fini di una demonizzazione di una agricoltura che sta assumendo sempre più un aspetto sostenibile e, di conseguenza, rispettoso dell’unico pianeta sul quale, per il momento, siamo in grado di vivere.

Sull’agricoltura biologica

Ritorniamo per un momento all’uguaglianza naturale=buono di cui si argomentava più su. Questa associazione del tutto arbitraria e fuorviante viene, in realtà, diffusa – per semplicità argomentativa e per la facilità con cui riesce a penetrare le menti già predisposte a credere che tutto ciò che è presente in natura sia buono e salutare – dagli organismi istituzionali che governano le nostre società. L’esempio si trova in un sito web della Comunità Europea (qui) in cui si riporta:

L’agricoltura biologica è un metodo agricolo volto a produrre alimenti con sostanze e processi naturali”.

A questa affermazione che non definisce in modo puntuale il significato di “naturale” e di cosa siano le sostanze ed i processi naturali – sebbene esista tutta una branca della chimica che prenda il nome di Chimica delle sostanze naturali e che si occupa del comportamento chimico, fisico e biologico dei metaboliti secondari di origine vegetale – si aggiunge anche:

incoraggia a:

  • usare l’energia e le risorse naturali in modo responsabile
  • mantenere la biodiversità
  • conservare gli equilibri ecologici regionali
  • migliorare la fertilità del suolo
  • mantenere la qualità delle acque”.

che, tutto sommato, non è altro che un decalogo della pratica agricola sostenibile che va sotto il nome di agricoltura integrata di cui ho già parlato in precedenza. In altre parole, l’agricoltura biologica è una tipologia di agricoltura integrata che in più offre una certificazione che documenta – o dovrebbe farlo – il basso impatto ambientale dell’attività che viene svolta sotto il cappello del termine “biologico”.

La certificazione “biologica” impone anche l’uso di prodotti fitosanitari opportunamente elencati in liste di prodotti consentiti. Una di queste liste aggiornate al 2020 è presente sul sito del Ministero della Salute (qui), un’altra, meno recente, su quello della Feder-Bio (qui). Per chi è abituato a leggere numeri e tabelle salta subito all’occhio che tra i prodotti fitosanitari ammessi in agricoltura biologica sono presenti numerosi composti a base di rame (Cu). Il rame tutto è tranne che “naturale” e, inoltre, ha una forte attività tossica per tanti organismi viventi, tra cui l’uomo (Fonte). Ma questa è solo una delle tante contraddizioni dell’agricoltura biologica. Un’altra, meno evidente, è legata alla bassa produttività di questa pratica agricola (Fonte). Questo vuol dire che per produrre quanto pratiche agricole non biologiche c’è bisogno di superfici molto estese, ovvero è necessario disboscare con conseguente incremento di gas serra (in particolare anidride carbonica) e tutto ciò che segue in termini di cambiamenti climatici. Di agricoltura biologica dei suoi limiti e vantaggi si parla anche sulla pagina del SeTA (Scienze e Tecnologie per l’Agricoltura) a questo Link.

Sull’illusione dei residui dei fitofarmaci

Molto spesso i no-tutto (di cui ho accennato in una intervista qui) hanno paura anche dell’aria che respirano e si impressionano solo a leggere nomi IUPAC (International Union of Pure and Applied Chemistry) di composti che non sono per nulla pericolosi. Conoscete la beffa del monossido di diidrogeno? No? Bene, la potete leggere qui.

La chemofobia si alimenta anche grazie alle notizie allarmistiche sulla presenza di residui di fitofarmaci che attenterebbero alla salute pubblica. Non molto tempo fa è stata data ampia diffusione a delle analisi fatte da una associazione di produttori su spaghetti di brand piuttosto famosi (qui).

La tabella qui sotto riporta nella prima colonna le aziende prese in considerazione; nella seconda il contenuto di glifosate trovato, espresso come milligrammi (mg) di principio attivo per chilogrammo (kg) di pasta; nella terza la percentuale di glifosato rispetto al limite di legge di 10 mg/kg; nella quarta la quantità di pasta in chilogrammi che contiene la dose di 10 mg/kg indicata come limite massimo di residuo. Infine, nella quinta colonna si riporta la quantità di pasta in chilogrammi che un individuo di 80 kg dovrebbe assumere in un solo giorno per raggiungere il limite di 0.3 mg/kg/d previsto dalla Comunità Europea (ne ho già parlato qui).

È facile capire che le quantità di residui individuati non solo sono ben al di sotto dei limiti di legge, ma sono anche molto al di sotto dei limiti che potrebbero portarci a problemi di salute. Nel XXI secolo è ancora valido il principio stabilito da Paracelso nel XVI secolo in base al quale è la dose che fa il veleno. In altre parole, la presenza di un sistema chimico tossico non vuol dire che esso lo sia veramente perché ciò che importa è quanto di quel sistema è presente in un dato alimento.

Marca degli spaghetti Contenuto in glifosate (mg/kg) Percentuale rispetto al limite di legge (10 mg/kg) Quantità di pasta necessaria per raggiungere il limite di legge (kg) Quantità di pasta che un individuo di 80 kg deve assumere per raggiungere il limite di 0.3 mg/kg/d previsto dalla EU
Riscossa 0.146 1.46 68 164
Divella 0.068 0.68 147 353
Garofalo 0.03 0.3 333 800
De Cecco 0.017 0.17 588 1412
Rummo 0.016 0.16 625 1500
Barilla 0.013 0.13 769 1846

Fonte dell’immagine di copertina (This image is licensed under the Creative Commons Attribution-Share Alike 4.0 International license)

Parliamo di agricoltura biodinamica

“Parliamo ancora di agricoltura biodinamica?”, chiederete voi. “Ma non ti stanchi mai?”, aggiungerete. Il fatto è che se non si alza la voce, maghi e fattucchiere hanno la meglio sulla ragione e la logica.

Purtroppo è di queste ore la notizia che il Senato della Repubblica ha approvato un disegno di legge sull’agricoltura biologica (qui). Fin qui niente di strano, potrete dire. Il problema è che gli appassionati di esoterismo, che evidentemente non mancano tra quelli che siedono nei banchi del Senato, hanno approvato una legge in cui l’agricoltura biodinamica viene equiparata in tutto e per tutto all’agricoltura biologica. Quali sono le conseguenze di tutto ciò? Una tra tutte è che pagheremo con le nostre tasse gli incentivi all’agricoltura biodinamica esattamente come paghiamo quelli all’agricoltura biologica che, però, ha fondamenta scientifiche che la prima non ha.

Di questo e di altro parleremo in diretta streaming su YouTube e Twich e il 25 Maggio alle ore 20:30 assieme a Daniel Puente, che gestisce un interessantissimo canale YouTube (qui), e Valentino Riva.

Per la diretta YouTube basta cliccare qui: https://youtu.be/L26PJauNcfs

Per la diretta Twich basta cliccare qui: https://www.twitch.tv/biologic_twitch

Vi aspettiamo!

Efficienza omeopatica e Covid-19

E’ la prima volta che intervengo in merito all’esplosione della pandemia da SARS-Cov2 se escludiamo quei pochi articoli che ho scritto in merito all’efficienza delle mascherine per la protezione dal predetto virus (qui, qui, qui qui e qui). In questo caso non voglio discutere più di mascherine. Ormai è stato detto tutto il possibile. Se c’è qualcuno che ha un callo al posto del cervello e non riesce a capire che l’uso delle mascherine protegge tutti noi dalla diffusione di questa terribile patologia (che NON è una banale influenza), non ci posso fare nulla.  Con questo articolo voglio soltanto evidenziare l’effetto che questa patologia sta avendo in India. Di tanto in tanto scorro le notizie on line e quello che vedo è veramente tragico. Non so che altro aggettivo usare. Addirittura si parla di decine se non centinaia di migliaia di morti al giorno.

click sulla foto per l’articolo originale

Ed ancora più impressionante è vedere le foto delle pire funebri che servono per cremare i corpi di tutti quegli sventurati.

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Qui sotto riporto delle agenzie internazionali. Nella prima foto si vede che sono state installate delle postazioni per la somministrazione di ossigeno e farmaci fuori dagli ospedali ormai al collasso.

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Nella foto seguente, invece, è l’immagine di operatori sanitari che ricoverano un paziente colpito da SARS-Cov2 nell’ospedale di Ahmedabad. L’articolo da cui la foto è presa spiega i motivi del fallimento delle politiche anti-COVID-19 in India.

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L’India sembra anche essere il paese in cui le pseudo scienze sono istituzionalizzate. Non sapevo, lo ho appreso scrivendo questo articolo, che esiste anche un Ministero AYUSH, ovvero un ministero che si occupa di “Traditional & Non-Conventional Systems of Health Care and Healing” che includono Ayurveda, Yoga, Naturopathy, Unani, Siddha, Sowa-Rigpa e Homoeopathy (dal sito del Ministero AYUSH) la cui efficacia per contrastare patologie come quella da SARS-Cov2 è del tutto nulla. Questo ministero ha addirittura elaborato delle linee guida per l’uso dell’omeopatia nel controllo del COVID-19.

click sulla foto per aprire il documento in pdf

Non posso non notare che l’anno scorso, qui in Italia, i soliti omeopati esultavano per le scelte del Ministero AYUSH quando furono emanate le linee guida appena citate. E’ stato un profluvio di articoli a dir poco entusiasti. Ne volete qualche esempio? Basta guardare le immagini qui sotto. Non metto link per non regalare visibilità a questi siti web.

ed ancora

Ed ora? Dove sono gli omeopati nostrani di fronte alla strage che sta avvenendo in India? Cosa hanno da dire? Sono sempre in grado di sostenere l’efficacia dell’omeopatia? Come mai si ode questo assordante silenzio?

Sono sicuro che l’intellighenzia omeopata prima o poi sarà in grado di dare qualche fantasiosa spiegazione. Mi sembra già di sentire le unghie che graffiano gli specchi. Probabilmente verranno riesumate robe come la memoria dell’acqua, le sue avveniristiche proprietà rice-trasmittenti e chi più ne ha, più ne metta.  Nel frattempo posso solo dire che non ho parole.

Fonte dell’immagine di copertina

Un esperimento sulla validità delle mascherine

Chi mi segue sa che ho già pubblicato un paio di articoli sulla validità delle mascherine che stiamo utilizzando per proteggerci dalla diffusione del Sars-Cov2.

Il primo di essi era una lettera aperta ad Enrico Montesano che, tempo fa, affermò in pubblico che le mascherine ci fanno respirare la nostra anidride carbonica e, quindi, sono pericolose. La mia lettera aperta è qui sotto:

Lettera aperta ad Enrico Montesano

Scrissi, poi, un secondo articolo per ribadire ancora una volta che le mascherine non sono in grado di trattenere l’anidride carbonica. Questo articolo fu scritto per rispondere a quelli che affermavano che la barriera posta davanti alla bocca non era in grado di far passare i miliardi di molecole di CO2 che espiriamo in ogni istante della nostra vita. Se siete curiosi, qui sotto c’è il link all’articolo:

Ancora su anidride carbonica e mascherine

Tuttavia, come sapete, le prove sperimentali regnano sovrane nel mondo scientifico. Qualche settimana fa, Daniel Puente ha pubblicato un interessantissimo video in cui ha provato che il livello di saturazione di ossigeno nel sangue non cambia quando si usa la mascherina (sia chirurgica che FFP2) in diverse condizioni fisiche: camminata normale e veloce. Qui sotto il filmato di una decina di minuti che vi consiglio di vedere.

https://www.youtube.com/watch?v=2xiiTNNXwfg

Fonte dell’immagine di copertina

Su agricoltura biodinamica: riflessioni scientifiche

Circa un mese fa è comparsa una mia intervista su www.VinOsa.it in merito all’agricoltura biodinamica.

[…] È una pratica agricola che non ha nulla di scientifico, ma si basa su riti e superstizioni inventati da Rudolph Steiner all’inizio del ’900. Steiner era un visionario, ma non nel senso positivo del termine. Non va accomunato con gente del calibro di Newton, Galileo Galilei, Giordano Bruno – solo per mantenerci nel passato, citando persone a cui gli pseudo scienziati tendono sempre a confrontarsi – o Einstein, Planck, Dirac, Pauling – per andare a persone a noi più vicine nel tempo – che erano scienziati nel senso compiuto del termine. Il modo di essere visionari delle persone appena citate ha permesso lo sviluppo verticale della scienza, ovvero del corpo di conoscenze che oggi ci consente di usare i social network, di andare sulla Luna, su Marte o di aver superato le colonne d’Ercole del nostro sistema solare. Le visioni di Steiner sono quelle tipiche di una persona che non ha alcuna idea di come si possa fare scienza e basa le sue conoscenze sulla superstizione e sull’esoterismo […]

Se non avete ancora letto l’intervista ed avete voglia di divertirvi con delle valutazioni scientifiche su questa pratica agricola potete cliccare sull’immagine qui sotto. Quello sono io, stanco per le continue battaglie contro la pseudoscienza, mentre mi riposo per riprendere la lotta.

Grazie e buona lettura

Fonte dell’immagine di copertina

Sugli insetti e sui parabrezza

Avete mai sentito parlare del widescreen phenomenon? No? Eppure, tra gli ecologisti della domenica va per la maggiore. Si tratta della constatazione che il numero di insetti stia diminuendo perché i parabrezza delle auto non sono più così sporchi di insetti spiaccicati come quando eravamo piccoli.

Sono le classiche elucubrazioni di gente che di scienza non capisce niente e capisce ancor meno di come si realizza un disegno sperimentale per trovare una risposta alla domanda “la popolazione di insetti su scala globale sta veramente diminuendo?” oppure “esiste una relazione tra l’uso di agrofarmaci e numerosità della popolazione di insetti?”, e potrei continuare, naturalmente. È la stessa tipologia di approccio pseudoscientifico che viene usato dai fantastici fautori di quella robaccia che si chiama omeopatia e che si riassume con “su di me funziona” (ne ho già scritto qui).

La cosa bella è che queste elucubrazioni vengono diffuse da siti molto seguiti (per esempio qui e qui) che contribuiscono alla cosiddetta disinformazione o cattiva divulgazione scientifica.

Vediamo perché la relazione tra parabrezza, numero di insetti spiaccicati e popolosità degli stessi sia una bufala.

Innanzitutto, dobbiamo cominciare col dire che uno studio su scala globale relativo alla perdita di biodiversità (non solo, ma limitiamoci alla biodiversità) va disegnato in modo tale da ottenere risultati non solo replicabili, ma anche riproducibili[1]. Alla luce di quanto scritto, è possibile pensare che il numero di volte in cui puliamo il parabrezza delle nostre automobili sia un dato attendibile? La risposta è no. Il motivo è abbastanza semplice: percorriamo sempre la stessa strada? Sempre alla stessa velocità? Sempre nelle stesse condizioni climatiche? Sempre con la stessa auto?

Esistono strade di tantissime forme, dimensioni e condizioni, tutti fattori che vengono sempre ignorati quando il windscreen phenomen è usato come indice per misurare la popolazione degli insetti. Non dimentichiamoci, inoltre, che le strade generano i cosiddetti bordi nel paesaggio. Come sanno tutti quelli che si interessano di indagini analitiche di ogni tipo, gli effetti dei bordi sono sempre difficili da misurare e generalizzare.

E come facciamo il campionamento? Guidiamo verso i bordi della carreggiata? Allora ci dobbiamo aspettare di campionare una popolazione di insetti di corporatura più massiccia di quelli che potremmo rilevare sul parabrezza se guidassimo esattamente al centro della strada. E a che ora pensiamo di fare il campionamento? Persino io che non sono un entomologo so che la tipologia di insetti che vivono negli ambienti intorno alle strade differisce a seconda del periodo della giornata in cui ci muoviamo. E cosa andiamo a misurare? Il numero di resti presenti sul parabrezza? La loro densità? La forza che usiamo per staccare i poveri resti degli insetti spiaccicati?

Ma non basta. Se io guido sempre nella stessa microzona del pianeta, mi posso permettere di estrapolare le mie pseudo-osservazioni ad altre zone del pianeta? Ovviamente no, perché le mie pseudo-osservazioni sono valide solo per la strada che percorro abitualmente, non per le altre. Chi mi assicura che gli insetti non si siano evoluti in modo tale da andare a popolare le zone limitrofe a quelle che io frequento abitualmente con la mia auto, solo perché hanno imparato che la zona che frequento è quella più pericolosa del sistema in cui essi vivono?

Eh, sì. Tutte quelle elencate, ed anche di più, sono le domande a cui dobbiamo rispondere per rendere un dato attendibile. Sfido tutti gli pseudo-ambientalisti che usano il windscreen phenomenon a rispondere in modo coerente a tutte le domande sopra elencate.

Letture aggiuntive e note

The windscreen phenomenon: anecdata is not scientific evidence

More than 75 percent decline over 27 years in total flying insect biomass in protected areas

Declining abundance of beetles, moths and caddisflies in the Netherlands

Parallel declines in abundance of insects and insectivorous birds in Denmark over 22 years

[1] Replicabilità e riproducibilità non hanno lo stesso significato. La prima si riferisce alla capacità del medesimo ricercatore (o gruppo di ricerca) di ottenere i medesimi risultati nello stesso laboratorio in tempi differenti. La seconda si riferisce alla capacità di ricercatori differenti in laboratori differenti e fisicamente lontani tra loro, di ottenere i medesimi risultati di una data ricerca scientifica.

Fonte dell’immagine di copertina

Ancora su anidride carbonica e mascherine

Vi ricordate la lettera aperta che all’inizio di ottobre ho scritto ad Enrico Montesano? No!? Eccola nel link qui sotto:

Lettera aperta ad Enrico Montesano

In questa lettera facevo notare al mai dimenticato Rugantino che quanto asseriva in merito alla pericolosità delle mascherine erano tutte sciocchezze. Lo facevo con la solita metodica scientifica, ovvero considerando gli aspetti quantitativi relativi alla dimensione delle molecole di anidride carbonica e quella dei pori delle mascherine attraverso cui il gas passa.

Per darvi una idea grafica delle conclusioni in merito al rapporto dimensionale tra la molecola di anidride carbonica e un poro di una mascherina chirurgica, potete far riferimento alla Figura 1.

Figura 1. Il puntino a sinistra è la rappresentazione di una molecola di anidride carbonica. Il cerchio a sinistra è la rappresentazione di un poro di una mascherina chirurgica.

In questa figura, considerando unitaria la dimensione della molecola di CO2 (il puntino a sinistra), un poro di una mascherina chirurgica risulta circa 800 volte più grande della molecola di anidride carbonica (cerchio a sinistra in Figura 1).

Nei giorni successivi alla pubblicazione della lettera aperta c’è stato un delirio di interventi (tra messaggi nel blog e lettere ai miei indirizzi e-mail) tutti a carattere monotematico. Ad eccezione di tre/quattro persone che si sono complimentate per aver finalmente evidenziato, numeri alla mano, l’incongruenza di quanto detto da Montensano e i figuri a cui egli si ispira, c’è stata gente che, per lo più in un italiano stentato e dimostrando di aver saltato tutte le lezioni sulle equivalenze fatte alle scuole elementari, pretendeva di mettere in dubbio i numeri riportati nella mia lettera aperta. Le argomentazioni andavano dall’aver usato concetti di chimica troppo complicati (SIC!), alla matematica troppo difficile (SIC!), al fatto che io non uso la mascherina in modo continuativo e non so cosa vuol dire stare tutto il giorno con questo dispositivo di protezione individuale, al fatto che non soffro di patologie che mi impediscono di indossare la mascherina. E potrei continuare.

Nel marasma di commenti tutti sulla falsariga di quanto appena riportato, ci sono stati alcuni interventi che meritano la mia attenzione. In sintesi, si tratta di commenti che evidenziano come le mie argomentazioni siano corrette considerando una singola molecola di CO2 ed un singolo poro di una mascherina chirurgica. Tuttavia, avrei dovuto considerare che noi espiriamo milioni di miliardi di molecole di anidride carbonica. I pori della mascherina rappresentano, quindi, un “collo di bottiglia” attraverso cui tutte quelle molecole non riescono a fuoriuscire tra un respiro e l’altro, con la conseguenza che reimmettiamo nel nostro organismo la CO2 che abbiamo appena espirato.

Purtroppo, la logica che ci ha consentito di sopravvivere alle belve feroci per arrivare fino ad oggi, non si può applicare in ambito scientifico dove i modelli che vengono sviluppati sono tutti, ma proprio tutti, controintuitivi. Inoltre, fare  affermazioni senza il supporto di dati numerici non è esattamente corretto sotto il profilo scientifico. Infatti, tutti i commenti in merito all’azione “collo di bottiglia” esercitata dalle mascherine erano di tipo aneddotico. Nessuno, ma proprio nessuno, si è mai peritato di fornire un modello matematico per spiegare i propri ragionamenti.

Vediamo perché l’idea del “collo di bottiglia” che non permette il passaggio della CO2 che espiriamo è completamente sbagliata.

Basta una banale ricerca in rete per trovare che la permeabilità (intesa come il flusso di gas che passa attraverso le mascherine per unità di superficie) è di circa 10 litri al minuto (L min-1) per le mascherine chirurgiche e di circa 5 L min-1 per le mascherine tipo FFP2 (qui). Volete sapere cosa significano questi numeri? Semplicemente che per ogni centimetro quadrato di mascherina, passano 10 L min-1 e 5 L min-1 (a seconda della tipologia di mascherina) di aria. Questi numeri sono stati misurati usando una pressione di esercizio di circa 20 mbar, ovvero la pressione esercitata dall’apparato respiratorio a riposo (qui). In ogni caso, più alta è la pressione esercitata contro le mascherine, maggiore è la loro permeabilità (qui). Considerando che il flusso di aria che espiriamo mediamente è di circa 6 L min-1 (qui), ne viene che di anidride carbonica tra la mascherina ed il viso non rimane nulla. In altre parole, non c’è alcun rischio di respirare la propria anidride carbonica.

Da dove viene, allora, la convinzione che le mascherine consentirebbero di respirare la propria “aria usata”?

Si tratta solo di fattori psicologici che nulla hanno a che fare con la reale capacità di una qualsiasi mascherina di impedire il passaggio dell’aria che fuoriesce dai nostri polmoni (qui e qui). In pratica, chi afferma che non riesce a respirare è solo vittima delle proprie impressioni personali che non hanno niente a che vedere con la realtà chimico-fisica delle mascherine il cui uso è fortemente consigliato (assieme alle distanze di sicurezza e ad elementari norme igieniche) per ridurre la dffusione del contagio da SARS-COV-2.

Note

Alcuni lettori del blog mi hanno chiesto come mai le mascherine chirurgiche vanno indossate in un ben preciso verso, ovvero con la parte colorata rivolta verso l’esterno. La risposta è stata data qualche tempo fa in questo link. In sintesi, la parte colorata di una mascherina chirurgica è fatta da materiale idrorepellente. Questo riduce la possibilità che le eventuali goccioline di saliva espirate da persone con cui, per esempio, stiamo parlando, possano penetrare attraverso lo strato colorato e raggiungere gli strati interni con possibilità di contaminarci.

Altri lettori mi hanno chiesto come mai gli occhiali si appannano quando indossiamo la mascherina. L’appannamento è dovuto al fatto che l’aria che espiriamo è calda. Quando le molecole di acqua calda che espiriamo entrano a contatto con la superficie fredda dei nostri occhiali, condensano dando luogo al fenomeno dell’appannamento (qui).

Letture e riferimenti

Characterization of face masks

An overview of filtration efficiency through the masks: Mechanisms of the aerosols penetration

Air permeability and pore characterization of surgical mask and gowns

On respiratory droplets and face masks

Characteristics of Respirators and Medical Masks

FONTE DELL’IMMAGINE DI COPERTINA
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