Avete presente la classica robetta sul mettere il sale prima o dopo che l’acqua ha cominciato a bollire? Questa cosa mi ha sempre lasciato perplesso perché ho sempre pensato che chiunque abbia frequentato con profitto le scuole superiori conosca le proprietà colligative e sa cosa significa innalzamento ebullioscopico. Traduco per i meno esperti: l’innalzamento ebullioscopico è l’innalzamento della temperatura di ebollizione di un solvente quando in esso vengano aggiunti dei soluti. Nel caso specifico, il solvente è l’acqua mentre il soluto è il cloruro di sodio (NaCl), popolarmente conosciuto come sale da cucina.
L’innalzamento ebullioscopico si calcola usando la formuletta:
ΔT=keb · m · i (1)
dove ΔT è la variazione della temperatura di ebollizione tra il solvente che contiene il soluto e quella del solvente puro; keb è una costante che si chiama costante ebullioscopica. Essa è tabulata per ogni solvente. Per l’acqua, la keb assume il valore di 0.512 °C kg mol-1. Infine, m è la cosiddetta molalità, ovvero la concentrazione di soluto espressa in mol kg-1, dove il peso si riferisce al solvente usato, mentre i è il cosiddetto coefficiente di Vant’Hoff.
Adesso possiamo applicare la formuletta (1) per calcolare quale quantità di cloruro di sodio permette di alzare la temperatura di ebollizione dell’acqua di quantità note. Quelle che che ho preso in considerazione sono le seguenti:
Dal grafico riportato nella figura qui sotto, ne viene che per aumentare di un solo grado centigrado la temperatura di ebollizione di un litro di acqua occorrono circa 114 g di NaCl. In realtà, noi non aggiungiamo mai oltre 100 g di sale nell’acqua che mettiamo a bollire per la pasta. Tutt’al più ne usiamo un decimo, ovvero circa una decina di grammi. Dallo stesso grafico si evince come l’aggiunta di una decina di grammi di NaCl ad un litro di acqua innalza il punto di ebollizione nell’intervallo 0.075 – 0.1 °C. In altre parole, la temperatura di ebollizione passa da 100 °C all’intervallo di temperature compreso tra 100.08 e 100.1 °C.
Ancora pensate, voi adulti, che chiedere se aggiungere il sale prima o dopo l’ebollizione sia una domanda seria?
Edit: nel calcolo dell’innalzamento ebullioscopico non ho tenuto conto del coefficiente di Vant’Hoff che, per il cloruro di sodio, è pari a 2. Questo vuol dire che, introducendo questo fattore di correzione, l’aumento di temperatura dell’acqua a cui si aggiungono grosso modo una decina di grammi di NaCl è intorno a 0.1-0.2 °C. Insomma, da 100 °C si passa a 100.1-100.2 °C. Rimane sempre valida la domanda: ancora pensate, voi adulti, che chiedere se aggiungere il sale prima o dopo l’ebollizione sia una domanda seria?
Non sono sparito dal panorama della rete. Ho solo diradato i miei interventi e mi limito a considerazioni sulle cose più curiose e strane che mi possono capitare per le mani.
Qualche tempo fa Michele Totta, autore di un bellissimo libro sull’intreccio tra scienza e filosofia (qui) e gestore di un ottimo canale YouTube dal titolo “Senza logica mal si cogita” (qui), mi chiese la disponibilità per una breve intervista sulla scienza e sulle mie attività. Inutile dire che mi sono sentito onorato per una tale richiesta ed ho accettato con enorme piacere. L’unico problema è che se mettete un microfono in mano a un professore universitario, il concetto di “breve” è relativo. Ed infatti l’intervista è durata un po’ più di un’ora. Devo dire che non me ne sono accorto, ovviamente, e mi sono divertito parecchio. Abbiamo parlato di un bel po’ di cose, finendo anche sull’idea che ho io di scienza e sui motivi che mi hanno spinto a fare il chimico. Se avete voglia di passare un’oretta circa della vostra vita con Michele e me, basta cliccare qui sotto:
Ogni anno sentiamo parlare di enormi “palle” di ghiaccio che cadono dal cielo e fanno danni enormi non sono solo alle cose (auto, case, etc.), ma anche alle attività produttive come l’agricoltura.
Oggi non mi voglio interessare dei danni che può fare la grandine, ma solo concentrarmi sui meccanismi della sua formazione per capire a cosa essa sia dovuta e perché i chicchi di grandine possono avere dimensioni variabili fino ad arrivare a quelle di una palla come evidenziato nella foto di copertina.
La geografia dell’atmosfera
La parte di spazio che si estende dalla superficie terrestre fino a circa 16 km di altezza prende il nome di troposfera. È qui che avvengono i fenomeni climatici. L’aria della troposfera è composta non solo da ossigeno e azoto, ma anche da acqua, ossidi di azoto e zolfo, anidride carbonica, monossido di carbonio, gas nobili, sostanze organiche volatili che derivano sia dall’attività antropica che da quella naturale (per esempio, le molecole odorose che vengono rilasciate dalle piante), virus, batteri, funghi, spore e molto altro ancora. Naturalmente tutti questi sistemi sono posizionati a quote differenti in funzione delle loro dimensioni, cosicché, per esempio, virus, batteri, funghi e spore sono più vicini al suolo.
L’esperienza comune ci insegna che quando andiamo su in montagna la temperatura si abbassa. E chi è abituato a viaggiare in aereo sa che più in alto si sale più la temperatura tende a scendere: quanti di quelli che viaggiano in aereo non hanno mai letto sui monitor all’interno delle cabine che la temperatura esterna è di -32 °C oppure addirittura di -50 °C?
Vi siete mai chiesti perché?
Ne avevo già parlato l’anno scorso. Una spiegazione approfondita sulle variazioni di temperatura al variare della quota è al link seguente:
In breve, possiamo dire che più vicini siamo al suolo, più risentiamo della radiazione elettromagnetica (indicata come infrarosso) proveniente dalla Terra.
Rimando al mio articolo dell’anno scorso per capire perché ci sono oscillazioni termiche man mano che si passa dalla troposfera alla stratosfera, da questa alla mesosfera e da quest’ultima alla termosfera.
E’ proprio la troposfera che dobbiamo tener d’occhio per spiegare la formazione della grandine.
Come si forma la grandine
Tutto ha inizio nei cumulonembi. Si tratta di nuvole a forte sviluppo verticale che si formano per effetto di processi convettivi attraverso cui enormi quantità di aria, contenente acqua, vengono movimentate sia verso l’alto che verso il basso, raggiungendo altezze che possono arrivare fino a 12-16 km. In queste enormi nubi le temperature sono molto variabili potendo passare da valori pari a 0 °C a valori compresi tra -50 e -60 °C.
Tutti noi sappiamo che quando l’acqua è a 0 °C si trova nello stato solido. Tuttavia, non tutti sanno che esiste una condizione che si chiama sopraffusione nella quale l’acqua è in una condizione metastabile, ovvero, in assenza di perturbazioni, essa permane nella fase liquida. Divertitevi a vedere cosa accade per effetto della sopraffusione:
L’acqua sopraffusa è presente prevalentemente nelle zone basse dei cumulonembi, mentre nelle zone più alte si formano dei piccolissimi granelli di ghiaccio, detti embrioni – il mio vecchio professore di chimica analitica li avrebbe chiamati “gemme” – che, per effetto delle correnti convettive, tendono a portarsi nelle zone basse delle nuvole. Quando i minuscoli granelli di ghiaccio incontrano l’acqua sopraffusa, la catturano. In questo modo le dimensioni delle gemme aumentano. Le correnti convettive riportano questi granelli accresciuti di nuovo verso l’alto e poi ancora verso il basso dove si accrescono ulteriormente. Quando le dimensioni delle particelle di ghiaccio diventano tali da non poter essere più trasportate dalle correnti convettive, queste ricadono verso terra sotto forma di grandine. Una descrizione più particolareggiata e corretta della formazione della grandine la potete trovare cliccando sull’immagine qui sotto.
Le dimensioni della grandine
Come ho scritto più su, la grandine si presenta di dimensioni molto differenti: si va da piccolissimi chicchi (pochi millimetri) fino a pezzi di ghiaccio delle dimensioni di palle da tennis o da baseball. Come mai c’è questa diversificazione?
Beh…tutto dipende dalla velocità con cui essa si forma, dalla direzione delle correnti convettive, dalla concentrazione di acqua sopraffusa e dalla temperatura alla base ed in quota del cumulonembo.
Nel filmato qui sotto potete osservare un “bombardamento” di grandine occorso a Rozzano circa una settimana fa (la notizia è qui)
Il titolo di questo articoletto è un po’ eccessivo, ma non l’ho scelto io. Si tratta del titolo apparso sulla rivista “Formaggi e Consumi” per una intervista all’Ing. Gianni Ferrante della Stelar che parla degli ultimi sviluppi della rilassometria NMR a ciclo di campo per le analisi dei prodotti lattiero-caseari. Si tratta di un progetto ambizioso in cui è coinvolta anche l’Università degli Studi di Palermo nelle figure dei Professori Paolo Lo Meo, Delia Chillura-Martino del Dipartimento STEBICEF, del Prof. Luciano Cinquanta e me del Dipartimento SAAF. L’articolo lo trovate a questo link, oppure cliccando sull’immagine qui sotto.
Oggi ero in auto. In genere mentre guido ascolto la radio. In uno dei tanti zapping veloci, mi capita di ascoltare un programma in cui l’ospite è un astrofisico. Questi parla della stazione spaziale ISS e della vita che si conduce a bordo.
Ciò che mi ha colpito moltissimo è stata la descrizione del come dormono gli astronauti.
Sapete che quando dormono in condizioni di assenza di peso, gli astronauti devono trovarsi in un ambiente con ottima aerazione?
La domanda vi sembrerà banale, ma ogni volta che ascolto notizie scientifiche mi trovo ad essere come un bambino di fronte ad un giocattolo. Anche se già lo conosce perché lo ha usato altre volte, lo guarda con meraviglia e pensa a cosa si possa ancora nascondere in quei meccanismi che ha visto centinaia di volte.
In effetti, siamo così abituati a vivere sulla Terra che neanche ci rendiamo conto che la vita in condizioni chimico-fisiche differenti richiede delle attenzioni particolari senza le quali essa non potrebbe esistere.
Quando ci sentiamo stanchi ed andiamo a letto, ci addormentiamo ma non per questo smettiamo di vivere. Continuiamo a respirare. Durante questa azione inspiriamo ossigeno ed espiriamo anidride carbonica. L’aria che circonda il nostro corpo, inclusa quella ricca di anidride carbonica che esce mentre respiriamo, è calda. Per questo motivo, si generano delle correnti convettive grazie alle quali l’aria calda (e per questo meno densa, ovvero più leggera) ricca di anidride carbonica che espiriamo si allontana verso l’alto venendo sostituita da aria fredda e più ricca di ossigeno.
Nelle condizioni di microgravità presenti nella stazione spaziale ISS, questi moti convettivi non si realizzano perché la microgravità porta ad assenza di peso e, quindi, non esistono zone di aria più leggere rispetto ad altre. La conseguenza è che durante il sonno, la testa degli astronauti viene circondata da una nuvola di anidride carbonica. Senza una corrente d’aria artificiale come, per esempio, quella generata da un ventilatore, la nuvola anzidetta non si disperderebbe turbando il sonno degli astronauti o, addirittura, portando alla morte, nel caso più drammatico.
Ieri, 4 Agosto 2020, siamo tutti stati testimoni, grazie alle immagini che ci sono giunte attraverso i vari canali internet, della esplosione che ha fatto tanti morti e feriti in Libano. Qui sotto un filmato preso da YouTube in cui si vedono diverse prospettive dell’esplosione.
Questo articolo non vuole essere di carattere politico, né avallare alcuna ipotesi sulle cause dell’esplosione. In questa sede voglio solo prendere in considerazione la chimica-fisica che c’è stata dietro l’esplosione attribuita da diverse fonti giornalistiche al nitrato di ammonio.
il nitrato di ammonio è ben noto come fertilizzante.
Come fertilizzante, il nitrato di ammonio (NH4NO3) è veramente efficiente. Si tratta di un sale con una solubilità in acqua, a 20°C, di circa 1900 g per litro . Quando viene disposto sul suolo, esso si scioglie nella soluzione circolante (ovvero l’acqua che è lì presente) dissociandosi in anione nitrato (NO3–) e catione ammonio (NH4+).
Dei due ioni, il nitrato, la forma di azoto direttamente disponibile per la nutrizione vegetale, può essere perso facilmente per lisciviazione, mentre l’ammonio rimane legato ai colloidi del suolo e si può perdere per volatilizzazione attraverso la sua conversione in ammoniaca. La sua maggiore capacità di rimanere legato ai colloidi del suolo dà il tempo ai microorganismi di poterlo convertire in nitrato e, quindi, renderlo disponibile per le piante.
Ma non è certo per una lezione sui fertilizzanti che sto scrivendo questo post.
Il nitrato di ammonio si decompone termicamente a protossido di azoto (N2O) e acqua fino a una temperatura di circa 250 °C:
NH4NO3 → N2O + 2 H2O
Al di sopra di questa temperatura avviene un’altra reazione:
2 NH4NO3 → O2 + 2 N2 + 4 H2O
Come si vede, entrambe le reazioni producono dei gas (N2O, N2 e O2). Anche l’acqua riportata nelle reazioni anzidette non si presenta in forma liquida, ma sotto forma di vapore alle temperature ben al di sopra dei 100 °C che servono per innescare le reazioni descritte.
Adesso facciamo due conti facili facili e cerchiamo di capire quanto gas si produce.
Se partiamo da 1.00 g di nitrato di ammonio, corrispondenti a 0.0125 mol, si ottengono, dalla prima reazione, il medesimo numero di moli di protossido di azoto (che corrispondono a 0.550 g di prodotto) e il doppio delle moli di acqua, ovvero 0.450 g di acqua sotto forma di vapore.
Se la temperatura aumenta oltre i 250 °C, dalla seconda reazione si ricava che 1.00 g di nitrato di ammonio si trasforma in 0.350 g di azoto molecolare, 0.200 g di ossigeno molecolare e 0.450 g di acqua sotto forma di vapore.
Su tutti i giornali si legge che la quantità di nitrato di ammonio stoccata nel porto di Beirut fosse di circa 3000 ton, ovvero 3 x 109 g (si legge 3 miliardi di grammi). È facile, a questo punto, calcolare che se la prima reazione (quella in cui si produce protossido di azoto e acqua) fosse stata l’unica responsabile della deflagrazione, si sarebbero ottenuti circa 1.4 x 103 tonnellate di acqua e circa 1.6 x 103 tonnellate di protossido di azoto. Se, invece, solo la seconda reazione fosse stata responsabile della deflagrazione si sarebbero ottenuti circa 1.4 x 103 tonnellate di acqua, 1.0 x 103 tonnellate di azoto molecolare e circa 0.6 x 103 tonnellate di ossigeno molecolare.
È intuitivo pensare che entrambe le reazioni abbiano avuto luogo, assieme a tante altre di cui però non si conosce la natura (per esempio, c’erano tubazioni di gas? oltre al nitrato di ammonio quante altre sostanze potenzialmente esplodenti potevano essere presenti? etc. etc.). In definitiva, provate a comprimere in uno spazio ristretto come quello di un capannone o di un deposito, dove sono già presenti altri gas, ovvero quelli atmosferici, le tre tonnellate complessive di gas ad alta temperatura ed in espansione e vi renderete conto del perché si è avuto l’effetto devastante osservato nel filmato che ho messo all’inizio dell’articolo.
Ma facciamo parlare i numeri.
La temperatura sviluppata durante la detonazione del nitrato di ammonio è all’incirca di un migliaio di gradi centigradi (Fonte). Considerando il numero totale di moli dei diversi gas sviluppati ed applicando banalmente la legge dei gas ideali (per avere solo qualitativamente idea della forza per unità di superficie sviluppata durante l’esplosione) si ottiene una pressione di circa 1.1 x 104 atm. Per darvi solo un’idea di cosa significhi una pressione del genere, immaginate di scendere sott’acqua. Ogni 10 m, la pressione esercitata dalla massa di acqua che circonda il vostro corpo aumenta di una atmosfera. Per arrivare a circa 11000 atmosfere dovete scendere a una profondità approssimativa di circa 110 km. Il punto più profondo che si conosca è la fossa delle Marianne a circa 11 km dalla superficie dell’oceano Pacifico. La fossa delle Marianne è individuata dal puntino rosso che vedete in Figura 1.
Impressionante!
Il fungo “atomico”.
Qualcuno ha paragonato il fungo bianco che si osserva nel filmato all’inizio dell’articolo a quello prodotto da un’esplosione atomica. In realtà le cose stanno diversamente.
Un’esplosione atomica sarebbe stata seguita da una contaminazione radioattiva che avrebbe messo in allarme tutti i paesi nelle vicinanze del Libano, inclusa l’Italia. Per quanto è dato sapere, fino ad ora non pare siano state previste precauzioni per contaminazione nucleare come quelle che furono adottate all’indomani dei disastri della centrale di Chernobyl o di quella di Fukushima.
Allora cos’era quel fungo bianco?
Vi ho spiegato più su che le reazioni di degradazione del nitrato di ammonio hanno prodotto tonnellate di gas (incluso il vapor d’acqua) che si sono espanse prima nel capannone dove il sale era conservato e poi nell’atmosfera. La forza esercitata dalle molecole dei vari gas prodotti durante le reazioni di decomposizione termica del nitrato di ammonio ha generato un’onda che si è propagata molto velocemente. L’elevata velocità dell’onda ha compresso molto rapidamente tutte le molecole di gas presenti in atmosfera, incluse quelle dell’acqua sotto forma vapore. Come conseguenza, molto verosimilmente, si è avuta una rapida condensazione di queste ultime con formazione della nuvola bianca osservata. Nelle condizioni atmosferiche di Beirut al momento dell’esplosione, la nuvola bianca ottenuta verosimilmente per condensazione delle molecole di acqua vapore si è, poi, rapidamente dissipata.
Il fenomeno osservato non è né più né meno che quello che accade quando un aereo supersonico abbatte la barriera del suono generando una nuvola di acqua condensata intorno a se stesso. Ma di questo ho parlato in un altro articolo.
Mi fanno giustamente notare che un’altra possibile reazione di degradazione termica del nitrato di ammonio è:
4 NH4NO3 → 2 NH3 + 3 NO2 + NO + N2 + 5 H2O
In questa reazione si ha la formazione del biossido di azoto e dell’ammoniaca che sono altri gas che vanno ad aggiungersi a quelli già descritti. In più essi sono anche tossici. A quanto pare, dalle ultime notizie, è stata consigliata l’evacuazione di quella parte di Beirut coinvolta nell’esplosione. Questo si potrebbe giustificare non solo per il pericolo dovuto alla instabilità delle abitazioni, ma anche a quello dovuto alla contaminazione dell’aria. Inoltre, il biossido di azoto è un gas rossastro e questo giustificherebbe il colore che si vede dopo la dissipazione della nube bianca. Bisogna anche dire, però, che il colore rossiccio potrebbe essere dovuto anche ad altro. Ne ho parlato anche in un altro articolo:
Ho fatto un po’ di calcoli. L’esplosione di Beirut potrebbe aver sprigionato un’energia di circa 1.26 kT (si legge kilotoni). Qui trovate informazioni un po’ più dettagliate su questa unità di misura. La bomba atomica di Hiroshima sprigionò un’energia di circa 15 kT (riferimento). In pratica, la potenza dell’esplosione di Beirut potrebbe essere stata circa l’8 % di quella di Hiroshima. Aspettiamo, ovviamente, le valutazioni degli esperti.
Disclaimer
Quanto ho scritto in questo articolo si basa sulle informazioni lette sui principali quotidiani che attribuiscono la responsabilità dell’esplosione di Beirut al nitrato di ammonio. I miei calcoletti mi permettono di dire che è plausibile. Una quantità elevata di nitrato di ammonio conservata in un luogo chiuso può dar luogo a degli effetti devastanti. Resta, naturalmente, da capire come mai si siano innescate le condizioni che hanno portato alla decomposizione termica del nitrato di ammonio. Ma questo è un lavoro che devono fare gli investigatori.
Ringraziamenti
Devo dire che questo articolo ha ricevuto un grande successo. Nel momento in cui scrivo questi ringraziamenti, l’articolo ha raggiunto oltre 40000 lettori. Molti mi hanno fatto notare errori ed incongruenze. Li ringrazio veramente tantissimo uno per uno. Mettere i nomi di tutti è impossibile perché critiche e commenti sono sparsi un po’ ovunque ed è difficile ritrovarli tutti. Sappiate solo che cerco di leggere tutto e di tener conto di tutto quello che mi fate notare. Questo articolo non è più solo mio, ma di tutti quelli che hanno contribuito al suo miglioramento.
Chiedo scusa ai miei lettori, ma questa pillola di scienza oggi è dedicata ai miei studenti ed a tutti quelli che hanno studiato la chimica organica. Per questo motivo userò un linguaggio poco divulgativo ed abbastanza tecnico.
Il linguaggio comune ed il linguaggio scientifico: usi ed abusi
Il termine “aromatico” viene attribuito, nel linguaggio comune, a un oggetto che emana un buon odore. Si tratta quindi di una qualità che viene associata a qualcosa di “buono”. Quante volte abbiamo sentito, o noi stessi abbiamo detto, “senti che buon aroma di caffè” oppure “hmmmm che buon profumo ha questa zuppa” laddove il termine “profumo” è sinonimo di “aroma”.
Ebbene, noi chimici, a causa delle limitazioni del nostro linguaggio, siamo abituati a prendere i termini comuni ed a cambiar loro di significato per attribuirne uno di carattere molto più tecnico. Ecco perché mi salta subito la mosca al naso quando sento le persone parlare di chimica o, più in generale, di scienza usando termini tecnici di cui, però, non conoscono il significato. Queste persone pensano che usare parole prese dal linguaggio scientifico e messe in fila in modo casuale dia un’àura di scientificità alle cose che dicono. Solo per citare pochi esempi mi vengono in mente quelli che esaltano la biodinamica scrivendo “robe” come quelle che vedete nell’immagine qui sotto. Cliccando sull’immagine si apre la pagina dalla quale ho fatto lo screenshot.
Che dire poi di quelli che si sono votati all’omeopatia, pratica esoterica di cui parlo abbondantemente in uno dei capitoli del mio libro “Frammenti di Chimica“? Ne ho già parlato tante volte. Alcune delle chicche sono analizzate nel link qui sotto:
Lasciamo da parte le polemiche e concentriamoci sul significato dell’aggettivo “aromatico” nel linguaggio chimico. Se cerchiamo sulla Treccani online, possiamo leggere:
aromàtico agg. [dal lat. tardo aromatĭcus, gr. ἀρωματικός] (pl. m. –ci). – […] In chimica organica, composti a. (così denominati perché vi appartengono molte sostanze aromatiche), serie di composti ciclici nella cui molecola sono contenuti uno o più sistemi a sei atomi di carbonio disposti ad anello (distinti in omociclici e eterociclici a seconda che ai vertici dell’anello si trovino tutti atomi di carbonio o anche altri atomi)
Questo è il classico esempio di informazione così generale da perdere completamente di significato in termini chimici. Infatti esistono tanti composti omociclici ed eterociclici che non hanno assolutamente la caratteristica di essere aromatici. E non necessariamente devono essere presenti sistemi ciclici a sei atomi di carbonio.
La regola di Hückel
Da un punto di vista chimico un sistema organico si dice aromatico quando:
contiene 4n+2 elettroni π (con n intero e ≥ 0)
è ciclico e planare
In tutti gli altri casi il sistema si dice antiaromatico. I sistemi aromatici hanno come peculiarità la bassa reattività, ovvero elevata stabilità chimica.
Vediamo alcuni esempi di composti aromatici ed antiaromatici
Il benzene è un sistema ciclico con la struttura descritta nella figura seguente:
La posizione dei doppi legami cambia e le due strutture, del tutto equivalenti, sono indicate come ibridi di risonanza. Nel sistema π del benzene sono presenti 6 elettroni, ovvero rispetta la regola del 4n+2 per n=1. Qui sotto viene evidenziato come l’ibridazione (sp2) degli atomi di carbonio consenta alla molecola di avere una struttura planare.
Entrambe le condizioni della regola di Hückel sono rispettate ed il benzene può essere considerato un composto aromatico.
Prendiamo adesso in considerazione il [10]annulene qui sotto:
C’è un anello, ci sono 10 elettroni π. Il numero di elettroni nel sistema π segue la regola di Hückel del 4n+2 per n=2. Tuttavia il composto non è aromatico perché non ha una struttura planare:
La non planarità è dovuta al fatto che gli atomi di idrogeno indicati nella figura sottostante si respingono per effetto sterico portando la molecola ad avere una struttura a twist.
Lo ione tropilio
Quando si studia la chimica organica e si arriva al capitolo sull’aromaticità, ci si imbatte anche nello ione tropilio (o catione cicloeptatrienile) che viene, in genere, indicato come lo ione più grande avente caratteristiche aromatiche. Esso si ottiene per allontanamento dello ione idruro dal cicloeptatriene. Quest’ultimo, pur avendo 6 elettroni π (n=1 nella regola di Hückel), non è aromatico a causa di un carbonio sp3 che lo rende non planare. Quando lo ione idruro viene allontanato, tutti gli atomi di carbonio risultano di tipo sp2, il sistema diventa planare, il numero di elettroni è quello previsto dalla regola di Hückel e lo ione è aromatico.
I sistemi aromatici “giganti”
La regola di Hückel è un utile strumento per comprendere cosa significhi il termine “aromatico” in chimica . Questa regola è di applicabilità generale e può essere validata sperimentalmente attraverso l’uso della spettroscopia di risonanza magnetica nucleare (NMR). Infatti, gli elettroni del sistema π di un composto aromatico generano una corrente di anello (ring current) responsabile di un campo magnetico locale che si addiziona o si sottrae al campo magnetico applicato durante l’esperimento NMR. La variazione del campo magnetico dovuta alla corrente di anello comporta uno shift dei segnali dei nuclei soggetti a tale fenomeno. Per un approfondimento di carattere didattico cliccare qui.
La spettroscopia di risonanza magnetica nucleare è la tecnica usata per sfatare un mito in base al quale più grande è la molecola contenente 4n+2 elettroni π e più facilmente essa è in grado di deformarsi così da allontanarsi dalle condizioni strutturali che soddisfano la regola di Hückel.
Nel 2016 è stato pubblicato un lavoro (qui) in cui viene descritta una molecola aromatica contenente fino a 62 elettroni π (ovvero n=15 nella regola del 4n+2):
Come mai una molecola così grande, la più grande sintetizzata fino al 2016, si comporta come un sistema aromatico rispettando la regola di Hückel? Gli autori dell’articolo ipotizzano che l’enorme flessibilità della molecola consenta la coesistenza di tanti conformeri. Tra questi possono sussistere dei conformeri in cui le nuvole elettroniche di tipo π interagiscano tra loro in modo da portare ad una delocalizzazione elettronica in grado di soddisfare la regola di Hückel. Questa stessa spiegazione è stata usata per giustificare il comportamento aromatico di una molecola sintetizzata più recentemente (il lavoro è stato pubblicato il 20 Gennaio 2020, qui) contenente ben 162 elettroni π (ovvero n=40 nella regola del 4n+2). Si tratta di una vera e propria ruota gigantesca in cui coesistono 12 anelli porfirinici.
Conclusioni
A questo punto mi potreste chiedere: ok. Bella tutta ‘sta storia, ma a che serve? Voglio evidenziare che la sintesi di molecole così grandi consente di mettere a punto protocolli che possono essere usati per la sintesi di molecole diverse e con attività biochimiche da sfruttare per l’elaborazione di nuovi farmaci. Per poter “vedere” queste molecole è necessario spingersi ai limiti delle tecniche analitiche più utilizzate in chimica. Questo vuol dire che vengono migliorate le caratteristiche di tecniche che possono diventare di applicazione sempre più ampia e consentire di arrivare a limiti finora inesplorati. Infine, queste molecole aromatiche giganti possono essere utilizzate per studiare gli effetti quantistici a livello nanoscopico ben oltre i limiti imposti dalle dimensioni della costante di Planck.
Quando leggo queste notizie, che per me sono affascinanti perché mi consentono di immergermi in un mondo tutto mio, mi ricordo perché mi sono innamorato della chimica ed ho fatto del mio hobby il mio lavoro.
Ebbene sì. Mi son trovato in una pizzeria del Nord Italia. Una di quelle pizzerie che vanno per la maggiore, un po’ chic (in realtà lo era, ora è una pizzeria come tante altre) e tanto bio. Non è che io mi faccia infinocchiare dalla storia del bio. So perfettamente che è solo marketing: quelli che pensano che i prodotti bio siano migliori a livello nutrizionale sono tanti ed hanno soldi; ma allora perché non dar loro quello che vogliono e far transitare i soldi dalle loro tasche a quelle dei venditori di fumo?
Ma andiamo con ordine.
Pizzeria del Nord Italia; tutto bio; famosa per fare pizze molto buone. Mi accomodo e mi viene fornito un menu. E cosa ti leggo? Guardate un po’ qui (Figura 1)
Ora, passi per i succhi di frutta e le bevande con un po’ di succo e tanta anidride carbonica, ma come è possibile mettere tra le bibite “bio” anche l’acqua naturale e l’acqua frizzante? Esiste un’acqua non bio, forse? E la cosa più simpatica è che per attirare i gonzi (onestamente non so se quelli che lavorano lì credano veramente a queste scemenze) l’acqua naturale (che regalano loro; ma come sono generosi!) è alcalinizzata. Sì, avete letto bene. Nelle mie peripezie ho finalmente trovato un locale che fornisce agli avventori acqua alcalinizzata. Potevo non assaggiarla? Ma certo che l’ho presa, tanto più che era regalata; non volevo offendere nessuno rifiutando un cotanto regalo.
cos’è l’acqua alcalina e ionizzata a basso residuo fisso?
Partiamo dal fatto che l’acqua chimicamente pura viene usata solo in laboratorio. È quella che noi chiamiamo acqua iperpura. Vuol dire che oltre alle molecole H2O non contiene niente altro o, se c’è qualcosa, questo non è rilevabile con le tecniche analitiche di cui disponiamo. Questa acqua da laboratorio non è potabile. E sapete perché? Perché quando la ingeriamo viene a contatto con le pareti cellulari delle nostre cellule. Nella parte interna delle cellule c’è una soluzione acquosa in cui c’è di tutto: dalle sostanze organiche disciolte ai sali minerali. La membrana cellulare quindi si trova circondata da un lato da una soluzione molto concentrata di soluti di natura differente, dall’altro da acqua che contiene soluti a concentrazioni analiticamente non rilevabili. Sapete cosa accade? Accade che l’acqua che sta fuori, quella da laboratorio, tende a penetrare attraverso la membrana cellulare per diluire la concentrazione dei soluti presenti nella soluzione all’interno della cellula. Il processo si chiama osmosi (Figura 2).
Il processo osmotico consiste, quindi, nella diluizione della soluzione più concentrata da parte di quella meno concentrata. Il passaggio del solvente attraverso la membrana termina quando le concentrazioni da entrambi i lati della membrana sono uguali. C’è un “ma”. La differenza di concentrazione tra la zona interna e quella esterna alla cellula, genera una differenza di potenziale osmotico così elevata che la membrana cellulare si rompe. Occorre, cioè, quella che si chiama lisi cellulare. In termini più umani come possiamo trasporre in immagini più immediate quello che ho scritto? L’acqua iperpura che abbiamo ingerito è a diluizione infinita (significa che non c’è nulla dentro, ovvero, nel linguaggio scientifico, non è possibile determinare la presenza di soluti). Questo vuol dire che il processo osmotico descritto sopra continua fino a quando anche la soluzione all’interno della cellula diventa infinitamente diluita. In altre parole, l’acqua continua a passare all’interno della cellula gonfiandola. La cellula si può gonfiare fino a un certo punto come un palloncino. Dopo un certo limite scoppia. Ora capite che se ingeriamo l’acqua iperpura che usiamo in laboratorio rischiamo la morte per lisi cellulare. L’acqua che noi beviamo, in realtà, non è iperpura, ma contiene delle sostanze disciolte in quantità variabile in funzione della sorgente dell’acqua stessa. Il residuo fisso di cui si parla in Figura 1 non è altro che la quantità di materiale inorganico che è presente nell’acqua e che si rileva per differenza in peso dopo aver sottoposto una quantità nota di acqua ad un trattamento termico in stufa a 180 °C. Il residuo fisso non è un problema in termini di potabilità. Anzi, la sua presenza ci consente di dire che l’acqua che beviamo è sicura perché non innesca i processi descritti sopra. Ricordo che la potabilità dell’acqua non è solo chimica ma anche biologica; un’acqua chimicamente potabile potrebbe non esserlo microbiologicamente. Questo vuol dire che sto facendo un discorso non completo perché mi sto concentrando solo sulla composizione in termini chimici dell’acqua e non sulla presenza o meno di microorganismi.
Il residuo fisso è nocivo per la salute?
”Ma manco pe gniente” come direbbero in un improbabile dialetto. Tutto quello che leggete in merito ai danni sulla salute del residuo fisso sono sciocchezze messe in giro da gente che, molto probabilmente, non ha alcuna conoscenza chimica o, se ne ha, essa è abbastanza scarsa. Basta leggere, per esempio, il sito della Fondazione Veronesi o quello delle acque minerali italiane. In questo ultimo sito potete leggere che esistono delle acque con elevatissimo residuo fisso che vanno assunte sotto controllo medico. Alla luce di quanto ho spiegato sopra, si può capire perché. Se la concentrazione salina è troppo alta, la membrana cellulare si trova all’interfaccia di una soluzione poco concentrata, quella interna alla cellula, ed una molto concentrata, all’esterno della cellula. Il passaggio dell’acqua attraverso la membrana in base al meccanismo osmotico descritto, avviene dall’interno all’esterno della cellula. La conseguenza è ancora una volta la lisi cellulare ed il rischio di morte. Avete capito perché non possiamo bere l’acqua di mare? In definitiva le acque potabili che noi utilizziamo hanno un residuo fisso variabile in funzione della sorgente da cui preleviamo l’acqua. Se il residuo fisso è entro i limiti dei 1500 mg/L non ci sono problemi di sòrta (qui per i limiti del residuo fisso).
E l’acqua ionizzata alcalina?
Vi ricordate questa scena del film “Amici miei”?
Ecco. Si tratta di una supercazzola.
Uno ione è una qualsiasi specie chimica che ha una carica elettrica positiva (e si chiama catione) o negativa (e si chiama anione). Esistono anche specie chimiche che, pur essendo elettricamente neutre – ovvero non sono né cationi né anioni, sono comunque caratterizzate dalla presenza di cariche. Si tratta degli zwitterioni in cui il numero di cariche elettriche positive eguaglia quello delle cariche elettriche negative col risultato finale di non essere soggetti all’azione di un campo elettrico applicato. Quindi che vuol dire acqua ionizzata? Assolutamente nulla. A meno che questi chimici della domenica non intendano riferirsi all’equilibrio di dissociazione dell’acqua che è:
ed intendano dire che le specie a destra dell’equilibrio descritto siano acqua ionizzata. In realtà questi chimici improvvisati non sanno che quello descritto è un processo di equilibrio che risponde a tutta una serie di parametri di cui ho già discusso tempo fa (qui). Il problema è che oggi va di moda l’acqua alcalinizzata. Banalmente è un’acqua il cui pH è > 7. Questo perché fin dalle scuole elementari viene insegnato che quando il pH < 7 l’acqua è acida, quando pH > 7 l’acqua è basica o alcalina, quando pH=7 l’acqua è neutra. Poiché ho già scritto in merito, non mi ripeto, ma vi invito ad andare a questo link per informazioni dettagliate. Basti solo ricordare che il valore del pH, tra le altre cose, dipende anche dalla temperatura e che non è possibile separare gli ioni H+ da quelli OH- come vogliono farci credere nella Figura 3.
Perché l’acqua alcalinizzata dovrebbe far bene?
Semplicemente perché un giorno un medico, della cui professionalità dubito fortemente, fece una “scoperta” epocale: le zone limitrofe a tessuti tumorali avevano un pH acido per cui il contrasto del tumore può essere realizzato alcalinizzando il nostro organismo. Avete capito la scemenza? Un medico…cioè uno che avrebbe dovuto studiare la chimica, la biochimica e la fisiologia animale che afferma che è possibile combattere I tumori alcalinizzando i nostri tessuti. Questo bel tipo (taccio nomi e siti web perché non voglio offrire visibilità a questo pseudo scienziato) neanche sa cosa sia un sistema tampone e come lui tutti quegli altri ignoranti che propongono diete alcaline e rimedi alcalini.
Cosa c’è di vero nella relazione tumori-acidità?
Già da tempo è noto che le zone limitrofe di tessuti tumorali sono caratterizzati da un valore di pH acido (un lavoro di riferimento lo trovate qui). Il perché lo potete trovare in un lavoro del 2013 pubblicato su Cancer Cell Journal (qui). I ricercatori giapponesi, responsabili dello studio citato, hanno compreso che l’acidificazione dei tessuti tumorali è dovuta alla secrezione di acido lattico da un processo che si chiama glicolisi anaerobica, oltre che alla CO2 prodotta nella via dei pentoso fosfati. Non sto qui a descrivere i dettagli del lavoro, basti comprendere che questa secrezione non è la causa, ma la conseguenza del tumore. Tuttavia, l’acidificazione sembra inneschi un meccanismo a cascata in base al quale si velocizza la produzione di metastasi (mi scuso con i miei lettori medici se ho usato i termini sbagliati). Capite, ora, che non basta alcalinizzare il nostro organismo per curare I tumori. Prima di tutto perché i nostri tessuti sono dei veri e propri tamponi, quindi rispondono a piccole variazioni di pH in modo da ritornare alle condizioni fisiologiche; in secondo luogo perché anche se fossimo in grado di alterare il pH dei tessuti in modo da neutralizzare l’acido lattico e la CO2 responsabili del microambiente acido intorno alle cellule tumorali, non si risolverebbe la causa che ha innescato quelle alterazioni metaboliche, di cui secrezioni di acido lattico e incremento di CO2 sono la conseguenza. È come voler riparare la perdita di acqua da una tubazione eliminando l’acqua che esce, senza tappare il buco.
Conclusioni
Andate a mangiare la pizza dove vi pare. Quella che ho mangiato io era buonissima. Sappiate però che se vi propongono cose strane, vi vogliono solo prendere soldi senza alcun motivo reale se non un loro personale arricchimento economico. L’arricchimento economico nel caso del locale dove ho mangiato non è certo legato al fatto che mi hanno regalato acqua ionizzata alcalinizzata, ma alla reputazione che guadagnano se questo regalo è fatto a persone ricettive del messaggio naturistico. Queste persone arricchiscono il locale col passaparola. Non è una cosa grave, per carità, l’importante è la consapevolezza di andare in un posto in cui i prezzi sono di un certo tipo perché seguono una moda che di scientifico non ha assolutamente nulla.
Quando ero piccolo rimasi affascinato dalla capacità che hanno i camaleonti nel cambiare velocemente il colore della propria pelle. All’epoca mi era stato spiegato che questa caratteristica fosse legata alla necessità di mimetizzazione (il cosiddetto mimetismo criptico) per evitare gli attacchi di eventuali predatori. Come possibile spiegazione chimica mi era stata proposta la presenza di particolari cellule, indicate come cromotofori , contenenti dei pigmenti tipo melanina in grado di modulare la lunghezza d’onda della luce assorbita in funzione dei cambiamenti strutturali cui essi potevano essere sottoposti.
Nel tempo la cosa mi è passata di mente. Certo i camaleonti con la loro caratteristica erano sempre presenti nella mia memoria, ma come qualcosa di collaterale di cui si decide di approfondire la conoscenza quando se ne ha il tempo non essendo, l’erpetologia, l’oggetto principale delle mie ricerche.
Ma ecco il punto di svolta. Mi capita sotto gli occhi, durante una delle mie tante sessioni di ricerca bibliografica, un lavoro dal titolo: “Photonic crystals cause active colour change in chameleons”. Gli autori sono di un centro di ricerca Svizzero ed il lavoro è del 2015. Mi sono detto: “oilà, vuoi vedere che hanno compreso perché i camaleonti usano il cambiamento di colore come strategia di mimetizzazione?”. La mia sorpresa è stata enorme quando ho letto il lavoro che potete trovare in originale qui.
Provo a spiegare la mia sorpresa legata sia al fascino che la chimica fisica esercita sempre su di me che al fatto che ho dovuto abbandonare le mie vecchie convinzioni in merito al motivo per cui i camaleonti cambiano colore.
Infatti, il lavoro pubblicato su Nature Communications di cui ho messo il link sopra, ha evidenziato che la strategia adottata dai camaleonti non è tesa ad ingannare i predatori. Il cambiamento di colore viene messo in atto quando questi rettili sono eccitati, ovvero si trovano ad affrontare situazioni nuove ed inusuali come un combattimento, un corteggiamento, una patologia oppure un semplice cambio di ambiente. Quindi sfatiamo la leggenda metropolitana tanto in auge quando io ero piccolo: il cambiamento di colore non è una mimetismo criptico.
Ma quali sono i meccanismi alla base del cambiamento di colore dei camaleonti?
È qui che entra in gioco la chimica-fisica.
I ricercatori svizzeri hanno evidenziato che la pelle dei camaleonti è fatta da due strati sovrapposti. Lo strato superficiale contiene dei cristalli di guanina (Figura 1)
delle dimensioni di circa 127 nm ed organizzati a formare dei reticoli triangolari (Figura 2).
I cristalli di guanina hanno un proprio indice di rifrazione, ovvero sono in grado di deviare la traiettoria delle onde luminose di un certo angolo (Figura 3).
Le onde luminose rifratte dai vari cristalli di guanina interferiscono tra loro generando i colori tipici dei camaleonti in assenza di stress.
Quando sottoposti a stress, i camaleonti riescono a modificare le distanze tra i vari cristalli di guanina modificando l’interferenza tra le varie onde rifratte e, di conseguenza, il colore della pelle.
In altre parole, la variazione delle distanze tra i cristalli di guanina è associata ad una variazione dell’indice di rifrazione della superficie della pelle dei camaleonti e, quindi, dei cambiamenti reversibili di colorazione.
Variazioni dell’indice di rifrazione possono portare ad un aumento della temperatura corporea dei camaleonti. Lo strato cutaneo sottostante, che non contiene cristalli di guanina, serve per la termoregolazione corporea conseguente alle variazioni anzidette.
Volete una spiegazione un po’ più dettagliata e scenografica di quella che ho proposto molto semplicisticamente? Potete guardare il video sottostante (in Inglese) elaborato dagli autori del lavoro di cui suggerisco la lettura.
Avete mai sentito un aereo superare la barriera del suono? Si sente un rumore assordante ed intorno all’aereo si forma una nuvola come quella che vedete nella foto di copertina. Volete avere un’idea sonora e visiva di quello che accade? Potete vedere il video qui sotto preso da YouTube.
Fin dal tempo delle scuole elementari ci insegnano che la velocità con cui si propaga il suono nell’aria è di circa 300 m/s. Ciò che impariamo alle superiori o nei corsi di Fisica I all’università è che il suono si propaga a velocità differenti a seconda del mezzo e della temperatura.
La tabella qui sotto mostra le diverse velocità con cui il suono si propaga nei mezzi più disparati:
Ma perché si sente il “bang” quando un aereo supera la velocità del suono? E perché si forma quella nuvola?
È tutta questione di aria e di umidità.
Un aereo è in grado di volare grazie alla forza che l’aria esercita sulle sue ali. L’aria ha una ben precisa composizione chimica, ovvero circa 79% di azoto, circa 20% di ossigeno e circa 1% di altri gas come argon, anidride carbonica, acqua, metano etc etc. In realtà non è importante la composizione chimica dell’aria; ciò che importa è il fatto che essa sia un fluido nel quale “galleggia” l’aereo ed è il mezzo grazie al quale siamo in grado di sentire i suoni.
Le vibrazioni generate da una sorgente sonora (le nostre corde vocali, le corde di un violino, un motore in moto etc etc) si trasmettono alle molecole che compongono l’aria che sono, così, soggette a compressione. In altre parole, una sorgente sonora sposta le molecole di aria ad essa più vicine. Queste ultime a loro volta urtano e spostano le molecole di aria nelle immediate vicinanze. Questo balletto di molecole che si urtano tra loro tende ad attenuarsi all’aumentare della distanza dalla sorgente sonora. Se noi ci troviamo abbastanza vicini alla sorgente del suono, accade che le molecole di aria vadano ad urtare (ovvero comprimere) le componenti interne del nostro orecchio. Il movimento generato dall’urto tra le molecole di aria e le parti più interne del nostro orecchio viene trasformato nel suono che udiamo. Il meccanismo macroscopico con cui le onde sonore di propagano è simile a quello con cui si propagano le onde generate da un sasso lanciato in uno stagno.
Se la sorgente sonora è in movimento (per esempio un’autombulanza a sirene spiegate), le onde sonore si propagano come riportato nella parte più a sinistra della Figura 1. In altre parole, la compressione delle molecole di aria nella direzione del moto (da sinistra a destra) è maggiore che la compressione delle molecole di aria nella direzione opposta. La conseguenza è che il suono prodotto dalla sorgente in movimento è più intenso nella direzione del moto.
Quando la sorgente sonora (per esempio un aereo a reazione) accelera ad una velocità più alta di quella a cui viaggia il suono, si ode il bang supersonico (parte più a destra della Figura 1).
Un oggetto che viaggia più velocemente del suono genera una serie di onde di forma sferica che si muovono più lentamente dell’oggetto stesso. La dimensione delle onde cresce man mano che l’oggetto si allontana. Tutte queste onde si intersecano tra di loro. Unendo i punti di intersezione si ottiene un cono il cui vertice è l’oggetto in movimento (parte più a destra di Figura 1). Nei punti di intersezione le molecole di aria sono soggette a rapida compressione. È questa rapida compressione delle molecole di aria ad essere responsabile del forte bang che sentiamo. In realtà, sebbene a noi sembra di sentire un unico “bang”, un aereo che accelera ad una velocità più alta di quella del suono genera due bang supersonici; uno dovuto alla rapida compressione delle molecole di aria in “testa” (ovvero alla prua) dell’aereo, ed uno dovuto alla ugualmente rapida decompressione delle stesse molecole in coda all’aereo. La distanza temporale tra i due bang dipende dalla lunghezza dell’aereo: più esso è lungo più distanti tra loro nel tempo saranno i due bang.
Ma perché si forma la nuvola che si vede nell’immagine di copertina?
Ho già scritto che la rapida accelerazione della sorgente sonora ad una velocità più alta di quella del suono provoca la repentina compressione delle molecole di aria da cui il forte boato. Come ho già riportato, l’acqua è una delle componenti molecolari dell’aria. La forte compressione cui sono soggette le molecole di acqua porta alla formazione di una nube di condensazione. In altre parole, le molecole di acqua vapore nell’aria si aggregano a formare goccioline di acqua liquida.
Considerazioni conclusive
La chimica-fisica consente di spiegare quello che accade quando un aereo supersonico supera la barriera del suono. Mi scuso con fisici ed ingegneri per l’enorme semplificazione di un fenomeno che ho deciso di spiegare usando un linguaggio assolutamente non tecnico. Mi scuso anche con i medici per la semplificazione nella descrizione dei fenomeni uditivi.
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