Preziosa lettrice, attenta e sagace, Elisa Benni stamane pubblica una recensione graditissima e gradevolissima sul mio libro appena uscito che qui riportiamo al link seguente:
Nelle prime due parti del reportage sulla qualità dei dati scientifici ho posto l’attenzione sulla differenza tra riviste chiuse e riviste aperte (qui) e ho evidenziato che la scarsa qualità dei dati scientifici non riguarda solo i predatory journal, ma anche giornali ritenuti molto affidabili (qui). In altre parole ho puntualizzato che la cosiddetta bad science, ovvero ciò che sfocia nella pseudo-scienza, è trasversale; ne sono pervase un po’ tutte le riviste: siano esse predatory journal oppure no; siano esse open-access oppure no. Ne ho discusso anche altrove (per esempio qui e qui), quando ho evidenziato che lavori poco seri sono apparsi su Nature e Science (riviste al top tra quelle su cui tutti noi vorremmo pubblicare) e che più che dal contenitore, ovvero dalla rivista, bisogna giudicare la qualità di un lavoro scientifico sulla base di ciò che viene scritto. Nonostante questo, tutte le istituzioni accademiche e non, riconoscono che la probabilità di avere bad science in un predatory journal è più alta che nelle riviste considerate non predatory; per questo motivo tutte le istituzioni formulano delle linee guida per tenersi lontani da riviste di dubbia qualità.
In che modo difendersi dalla bad science delle riviste predatorie?
Esistono tanti siti al riguardo. Per esempio, la mia Università, l’Università degli Studi di Palermo, mette a disposizione una pagina (qui) in cui elenca una serie di siti web da cui attingere per valutare se una rivista è seria oppure no. In particolare, se la rivista in cui si desidera pubblicare è compresa negli elenchi dei link riportati ed è anche nella Beall’s list of predatory journals and publishers, con molta probabilità si tratta di un predatory journal a cui si raccomanda di non inviare il proprio rapporto scientifico. Se, invece, la rivista o l’editore sono negli elenchi citati ma non nella Beall’s list of predatory journals and publishers, con buona probabilità si tratta di riviste non predatorie. Qual è il limite di queste raccomandazioni? I predatory journal spuntano come funghi per cui è possibile che ci si imbatta in una rivista che non è stata ancora catalogata come predatoria. Cosa fare in questo caso? Bisogna ricordarsi che tutte le riviste predatorie hanno in comune alcuni caratteri essenziali che le distinguono dalle riviste più accreditate:
Comitati editoriali anomali, non determinati o inesistenti
Tendenza a pubblicare lavori scientifici in settori molto eterogenei tra loro
Tasse per la pubblicazione estremamente basse (in genere meno di 150 €)
Presenza di immagini sfocate o non autorizzate presenti nei loro siti web
Richiesta di invio dei lavori mediante posta elettronica, spesso a indirizzi e-mail non professionali o non accademici, e non attraverso un sistema di invio on-line
Mancanza di qualsiasi politica sulle ritrattazioni, correzioni, errata corrige e plagio (più della metà delle riviste più accreditate descrive nei propri siti web come comportarsi in ognuna delle quattro circostanze)
Basso o inesistente valore di impact factor (IF)
Tutti questi caratteri possono essere presenti contemporaneamente o in parte in una data rivista. Tuttavia, la loro presenza non necessariamente deve essere indice di predazione. Infatti, per esempio, una rivista nuova non ha l’impact factor che si calcola confrontando il numero di citazioni di tutti gli studi pubblicati in un biennio col numero totale di studi pubblicati nello stesso biennio (qui). Questo significa che una rivista può cominciare ad avere un IF solo a partire dal terzo anno di vita. Se la rivista è di nuova fondazione, può attuare una politica di incentivazioni alla pubblicazione fornendo agevolazioni ai ricercatori che decidono di inviare il loro lavoro. Per esempio, la ACS Omega(una rivista ancora senza IF della American Chemical Society, ACS) permette la pubblicazione gratuita a chiunque disponga di voucher (del valore di circa 750 $) elargiti dalla ACS a ricercatori di paesi in via di sviluppo o con problemi di fondi di ricerca per la pubblicazione in open access. C’è anche da dire che attualmente è abbastanza facile costruire siti web accattivanti ed attraenti. Per questo motivo, a meno che non si tratti di truffe molto evidenti, è abbastanza difficile trovare riviste predatorie con siti web fatti male. Infine, in passato ho pubblicato su riviste molto importanti del mio settore (quindi non predatorie, non open access e con ottimo IF), il cui editor rispondeva ad un indirizzo e-mail con dominio gmail.com.
Ma adesso sto diventando prolisso. Basta annoiarvi.
Ho aperto questo articolo scrivendo che tutte le istituzioni accademiche (e non) si raccomandano di seguire le linee guida appena indicate per evitare di pubblicare su riviste dalla scarsa qualità. In altre parole, le linne guida riportate sono un modo per riconoscere l’attendibilità dei contenitori in cui “versare” le conoscenze scientifiche che noi raccogliamo dalla nostra attività di ricercatori. Per ora non vi voglio annoiare di più. Nella quarta ed ultima parte di questo reportage dimostrerò che, in realtà, la qualità della ricerca non dipende dalla tipologia di rivista, ma da ben altri fattori tra cui le istituzioni che finanziano la ricerca e che, nello stesso tempo, si raccomandano di tenersi lontani da certi giornali.
Grazie a Francesco Mercadante e all’interesse che ha dimostrato verso le mie ricerche, il mio libro e, ancor più, verso l’aspetto economico sotteso alle bufale, oggi appare su IlSole24Ore una sua intervista a me che qui riporto.
Ecco appena arrivata la locandina del nuovo convegno sulle pseudoscienze, nato da una riflessione tematica dopo la pubblicazione del mio libro, organizzato in collaborazione con la mia casa editrice la C1V e l’Università di Palermo.
Un enorme ringraziamento a tutti i relatori che parteciperanno e a tutte le collaborazioni che hanno reso possibile questo incontro. Grazie e vi aspetto.
Giovedì 25 ottobre 2018
h. 09.00 – 18.00
Aula Magna Ballatore – Dip. Scienze Agrarie Alimentari e Forestali
Palermo – Viale delle Scienze, Edificio 4
Eravamo rimasti alle riviste predatorie (qui), quelle riviste che, dietro corrispettivo di una tassa più o meno salata, pubblicano di tutto senza una seria revisione tra pari (peer review); anzi possiamo anche dire senza alcuna revisione tra pari.
Volete un esempio?
Cliccate qui e si aprirà uno studio dal titolo “Combined Effects of Ethylacetate Extracts of Propolis Inducing Cell Death of Human Colorectal Adenocarcinoma Cells”, autori: Britta Schulz, Elizabeth Smith , Richard Funden and Ulf Moosberger; rivista: J Integr Oncol 2018, 7:2 (DOI: 10.4172/2329-6771.1000207). In questo studio (citato nel numero 1274 della rivista Internazionale) si discute dell’attività anticancerosa della propoli, ovvero di una sostanza resinosa “fabbricata” dalle api, di origine vegetale e ritenuta la panacea di ogni male. Cosa c’è di strano in questo lavoro? Semplicemente che si tratta di un lavoro inventato dai giornalisti del Süddeutsche Zeitung Magazin e del Süddeutsche Zeitung nell’ambito di una inchiesta (pubblicata appunto sul numero 1274 di Internazionale) in merito ai giornali predatori. Gli stessi giornalisti del Süddeutsche Zeitung Magazin e del Süddeutsche Zeitung, poi, affermano che, per non lasciar traccia di questa pseudo scienza, hanno richiesto il ritiro del lavoro. Ed infatti, qui trovate proprio la retraction, sebbene non sia per nulla indicato che si è trattato di un lavoro inventato.
In questo caso si parla di dati e lavori apparsi su riviste di editori che sono inclusi nella Beall’s list of predatory journals and publishers per cui, sapendo che la serietà di tali riviste è opinabile, uno scienziato serio si guarda bene dal prenderli in considerazione se non dopo essere entrato approfonditamente nel merito di quanto lì scritto ed aver fatto un’accurata revisione post pubblicazione (ricordo che il principio fondante del metodo scientifico si basa sull’importanza di ciò che viene detto e non su quella del contenitore dove viene pubblicato un lavoro. Ne ho parlato anche qui).
Le sciocchezze nelle riviste più accredidate: il caso del gruppo editoriale Nature
Bisogna ammettere che lavori dalla dubbia o inesistente serietà possono essere pubblicati anche su riviste più accreditate. Ne volete un esempio? Eccolo (qui). Si tratta di un lavoro sull’efficacia dell’omeopatia pubblicato su Scientific Reports (una rivista del gruppo editoriale Nature) che tutti i siti pro-omeopatia e tutti i quelli che pensano che l’omeopatia abbia un’efficacia più alta del placebo si affannano a pubblicizzare come pubblicata sulla molto più quotata Nature (qui e qui, per esempio). Cosa ha di strano questo lavoro?
Lo story-telling
Faccio una premessa. Le riviste del gruppo Nature hanno una particolarità: gli articoli sono scritti come se fossero una specie di story-telling. In altre parole, si privilegia la narrazione dei risultati e della loro interpretazione rispetto alla parte tecnico-sperimentale, ovvero l’elencazione dei materiali e metodi usati per gli esperimenti. Non fraintendetemi. Non è che materiali e metodi manchino; ci sono, solo che vengono inseriti in coda all’articolo pubblicato. Questo vuol dire che chi legge spesso si sofferma solo sullo story-telling senza approfondire oltre le modalità con cui sono stati condotti gli esperimenti. Questo modo di esporre una ricerca è positivo perché permette la comprensione di un articolo scientifico ad un pubblico molto più ampio di quello che accede a riviste che non usano il medesimo approccio narrativo: i lettori non si distraggono con particolari tecnici che, molte volte, risultano ostici ed incomprensibili. Il punto è che proprio nei materiali e metodi si annidano le insidie. È dalla lettura di quei paragrafi molto tecnici che si può capire se un progetto sperimentale è stato ben congegnato.
I dettagli tecnici
Andiamo nei particolari. A pagina 9 è scritto:
Drug treatment and groups. Animals were randomly divided into five groups, each consisting of 8 rats (n = 8). Group I: Normal control group of rats were orally administered once daily with 1 ml saline for 14 days. Group II: Sham operated group of rats were treated with 1 ml saline once daily for 14 days. Group III: CCI-induced neuropathy control group of rats orally received 1 ml saline once daily for 14 days. Group IV: CCI-induced neuropathy + RT treated group of rats orally received 0.1 ml of RT (1 × 10−12 dilution) with 1 ml of distilled water once daily for 14 days. Group V: CCI-induced neuropathy + gabapentin treated group of rats orally received Gabapentin (60 mg/kg/day, p.o.) suspended in 0.5% carboxymethyl cellulose (CMC) once daily for 14 days.
Da quanto riportato, si capisce che si tratta di una sperimentazione fatta su ratti divisi in 5 gruppi ognuno contenente 8 individui. Già da questo si potrebbe argomentare che 8 individui non sono una popolazione statisticamente significativa. Per poter avere dati che abbiano un significato statistico accettabile bisogna andare su numeri più grandi. Ed in effetti gli autori sembrano essere coscienti di questo limite perché a pagina 7 (nelle conclusioni del lavoro) scrivono:
Although, the results of present study suggested the anti-neuropathic effect of RT, further pre-clinical and clinical studies are warranted to confirm these effects. Several other biochemical mechanisms may be involved in RT mediated anti-neuropathic effect. Results of present study are suggestive of the anti-nociceptive effect of RT against neuropathic pain and deserve further validation of its effectiveness in various painful conditions.
In altre parole, occorrono esperimenti più approfonditi per validare le loro conclusioni.
La sperimentazione in cieco
Ma torniamo al “Drug treatment and groups”. Riuscite a notare cosa manca? Manca la sperimentazione in cieco. In altre parole, i trattamenti somministrati ai ratti dei cinque gruppi sono stati condotti in modo tale da non evitare né l’effetto Rosenthal né l’effetto Hawthorne. Si tratta di due possibili meccanismi dell’effetto placebo che ho già avuto modo di descrivere qui (ne parlo anche nel mio libro). La conclusione è che, sebbene pubblicato su una rivista prestigiosa di una casa editrice molto antica ed altrettanto prestigiosa, il lavoro non è fatto bene e le conclusioni non consentono di dire che i rimedi ad elevata diluizione sperimentati sono più efficaci dei placebo.
Altri esempi di lavori superficiali su riviste accreditate
Una delle riviste del mio settore è Journal of Chemical Ecology. È una rivista con un impact factor di 2.419 per il 2017. Certo non è paragonabile a quello di Nature che è 42, ma stiamo parlando di riviste scientifiche di carattere differente. Nature è una rivista generalista e, per questo, letta da scienziati di ogni settore disciplinare; Journal of Chemical Ecology è un giornale di chimica ecologica ed è destinato ad una nicchia molto piccola di scienziati, ovvero chimici che si occupano di ecologia ed ecologi. Da qui discende che il numero di citazioni che possono ricevere i lavori di Nature è di gran lunga più alto di quello che possono ricevere i lavori di Journal of Chemical Ecology destinato ad un settore enormemente più piccolo di quello di Nature (ricordo che l’impact factor è un parametro quantitativo che si calcola confrontando il numero di citazioni di tutti gli studi pubblicati in un biennio col numero totale di studi pubblicati nello stesso biennio. Per esempio, supponiamo che il numero di citazioni di tutti gli studi pubblicati su una rivista nel biennio 2015-2016 sia 13000, mentre il numero di studi pubblicati nello stesso periodo sia 5000. L’impact factor si ottiene dal rapporto 13000/5000, ovvero esso è 2.6).
Fatta questa premessa doverosa per evitare che i non addetti ai lavori si mettano a fare confronti idioti tra riviste che non possono essere confrontate tra loro (e vi assicuro che stupidi che fanno questi confronti ce ne sono), vediamo cosa mi è capitato sotto le mani.
Le cifre significative
Chi mi legge da un po’ di tempo sa che non scrivo solo per il mio blog, ma anche per altri siti come Laputa e Chimicare. In quest’ultimo ho pubblicato un breve articolo sulla matematica elementare nella chimica. Lo potete trovare qui. Non voglio tediarvi con troppi dettagli. L’articoletto sulla matematica elementare per la chimica descrive il numero esatto di cifre che si deve utilizzare per esprimere il valore numerico di una grandezza fisica e il modo con cui si esprime l’errore sperimentale:
Sono cifre significative tutte le cifre non nulle presenti nel numero che esprime la misura sperimentale
Lo zero compreso tra numeri non nulli è una cifra significativa
Gli zeri che seguono numeri non nulli sono anch’essi cifre significative
Lo zero all’inizio del numero che esprime la misura sperimentale non è una cifra significativa
Tutti gli esponenziali in un numero espresso in forma scientifica non sono cifre significative
Se la prima cifra non significativa è <5, il valore dell’ultima cifra significativa rimane inalterato (1.03, con 3 cifra non significativa, viene approssimato a 1.0; un errore del tipo 0.012, con 2 non significativo, viene approssimato a 0.01)
Se la prima cifra non significativa è >5, il valore dell’ultima cifra significativa viene approssimato per eccesso (1.06, con 6 cifra non significativa, viene approssimato a 1.1; un errore del tipo 0.016, con 6 non significativo, viene approssimato a 0.02)
Se la prima cifra non significativa è =5, il valore dell’ultima cifra significativa resta inalterato se è un numero pari o 0, viene approssimato per eccesso se è un numero dispari (1.05, con 5 non significativo, viene approssimato a 1.0; 1.25, con 5 non significativo, viene approssimato a 1.2; 1.15, con 5 non significativo, viene approssimato a 1.2; un errore del tipo: 0.015, con 5 non significativo, si approssima a 0.02; un errore del tipo: 0.025, con 5 non significativo, diventa: 0.02)
Gli errori in Journal of Chemical Ecology
Ed eccoci arrivati al dunque. Nel 2012 appare su J Chem Ecol un articolo dal titolo “Herbivore-Mediated Effects of Glucosinolates on Different Natural Enemies of a Specialist Aphid” (qui). Non voglio porre l’attenzione sulla natura del lavoro, ma sul modo con cui gli autori (un insieme di entomologi, agronomi ed ecologi) hanno espresso i loro dati sperimentali. La Figura 1 riporta uno stralcio della Tabella 1 del lavoro citato.
In giallo ho evidenziato gli errori commessi dagli autori nel riportare il numero di cifre significative e i relativi errori sperimentali per le concentrazioni delle molecole indicate nella prima colonna a sinistra della tabella. Se aprite il lavoro (qui) potete divertirvi voi stessi a trovare gli errori commessi dagli autori nella restante parte della tabella, alla luce delle indicazioni che ho dato poco più sopra. Come possiamo ritenere affidabili le conclusioni di un lavoro scientifico se chi l’ha scritto si macchia di superficialità nell’esprimere i valori numerici delle grandezze che misura? Perché dovrei ritenere superficiale una parte del lavoro e non superficiale un’altra parte del lavoro? Devo dire che quando opero come revisore nei processi di peer review, gli errori che ho appena mostrato sono quelli che mi fanno rifiutare i lavori per la pubblicazione: se io insegno e pretendo dai miei studenti il rigore scientifico che si palesa anche, ma non solo, nella correttezza con cui si effettuano le misure e si riportano i dati sperimentali, pretendo analoga coerenza sia da me che dai miei colleghi che, come professionisti, siamo chiamati ad essere di esempio per le generazioni che ci sostituiranno nel nostro ruolo e nel mondo della ricerca scientifica.
Come è possibile che certi lavori arrivino ad essere pubblicati?
La risposta alla domanda è che anche noi scienziati siamo umani. Prima di tutto non siamo esperti di tutto lo scibile. Se un lavoro che deve essere sottoposto alla revisione tra pari arriva nelle mani di un non esperto del settore, la correttezza professionale dovrebbe imporre di non accettare l’incarico per la revisione. Ma non sempre accade. Anzi, più spesso di quanto si creda, accade che i lavori vengano revisionati da non esperti che non si dichiarano tali o addirittura da amici degli autori che chiudono entrambi gli occhi di fronte ad errori palesi. Quando ciò accade, un lavoro riesce ad essere pubblicato anche su una rivista prestigiosa semplicemente perché chi doveva accorgersi degli svarioni, o ha scientemente evitato le critiche oppure non aveva gli strumenti adatti per poterlo fare. A questo punto la domanda che una persona comune che non si occupa di scienza si può fare è: ma come faccio a fidarmi della letteratura scientifica? Se non si è preparati in modo adeguato, non ci sono molte possibilità per riconoscere un lavoro fatto bene, da uno pasticciato. L’unica arma che un lettore comune ha per distinguere la buona scienza da una scienza fatta male (o pseudo scienza) è il fattore tempo. Quando un lavoro viene pubblicato non passa inosservato. C’è sempre uno scienziato in un qualche laboratorio in giro per il mondo che si appropria dei dati pubblicati e cerca di riprodurli. Se nonostante tutti i tentativi non ci riesce, pubblica una nota in cui evidenzia l’inconsistenza dei dati riportati in letteratura. La confutazione/approvazione di un dato sperimentale pubblicato richiede tanto tempo e tanta pazienza, ma alla fine il protocollo che noi indichiamo come “metodo scientifico” consente di fare una cernita tra dati seri e dati meno seri: è capitato con i lavori di Wakefield, Schoen e tanti altri di cui ho già parlato qui.
Adesso, però, vi ho annoiato anche troppo. Il reportage continua la prossima settimana.
Internet è alla portata di tutti. Basta pagare un abbonamento flat ad una qualsiasi delle innumerevoli aziende telefoniche del nostro paese per avere un accesso illimitato a siti di ogni tipo, inclusi quelli di carattere scientifico. Naturalmente, chi non fa parte di un ente (pubblico o privato) che ha accesso alle banche dati scientifiche non può leggere e scaricare lavori che non sono “open access”.
“Open access”. Oggi sembra essere la moda. Tante istituzioni, anche a livello trans nazionale, invitano i ricercatori a pubblicare su riviste accessibili a tutti. Devo dire che la questione delle pubblicazioni scientifiche accessibili a tutti è un argomento spinoso. In linea di principio io sono molto d’accordo.
Sistema open access contro sistema chiuso
Nel business editoriale scientifico chiuso gli editori sono gli unici ad attuare una politica win-win-win-win. Win-1 perché fanno pagare il download di un singolo articolo da pochi dollari a qualche centinaio (dipende dall’importanza della rivista e solo nel caso in cui non sia stato pagato un abbonamento). Tuttavia, a livello istituzionale, impongono agli enti di ricerca e/o di didattica il pagamento di un abbonamento che non è certo economico. I dipendenti di quella istituzione che paga l’abbonamento (annuale) possono accedere a tutti i lavori scientifici che desiderano per le riviste per cui è stato pagato l’abbonamento. Win-2 perché, affinchè possa essere pubblicato, un lavoro deve essere sottoposto a revisione tra pari. Gli editor-in-chief di una rivista chiedono ad esperti di settore di fare la revisione dei lavori. Il punto è che chiedono ai revisori un surplus di lavoro gratuito (per quanto ne so, una sola rivista in campo medico dà un gettone per il lavoro di revisione). Ed arriviamo, adesso, a win-3. I lavori che vengono inviati alle riviste scientifiche sono finanziati dalle stesse istituzioni che pagano l’abbonamento alle riviste (oltre a pagare lo stipendio ai ricercatori perché facciano il loro lavoro di ricerca). Possiamo chiudere il cerchio con win-4: le riviste vendono un prodotto che non comprano e, di conseguenza, per il quale non pagano. Insomma, per come la vedo io, il sistema closed usato fino ad ora non solo non consente la libera circolazione delle informazioni scientifiche ma è abbastanza oneroso per le università/enti di ricerca che, pur non avendo grosse disponibilità economiche, si trovano a dover pagare la ricerca (con opportuni finanziamenti), i ricercatori (sia per il lavoro che devono svolgere sia per le revisioni editoriali richieste da terzi), l’abbonamento alle riviste per poter ottenere i lavori pubblicati dai propri ricercatori.
Meglio l’open access, allora? Beh, in qualche modo sì. In questo caso, il singolo ricercatore o, meglio ancora, l’istituzione di appartenenza paga una cifra per la pubblicazione del lavoro di ricerca che viene, però, reso accessibile a tutti. Insomma, a pagare non è chi necessita della lettura di un rapporto scientifico, ma paga chi pubblica, sempre che il lavoro venga accettato per la pubblicazione. Il costo dei lavori è molto variabile: può andare dalle poche decine di euro fino alle migliaia. Quindi, occorre reperire fondi da destinare alla pubblicazione. Ma del resto è così anche nel sistema chiuso: se non ci sono fondi disponibili, non posso comprare gli articoli che mi servono per aggiornarmi.
E poi ci sono le riviste chiuse che chiedono un contributo per la stampa a colori, ma questo è altro e per le finalità del discorso non è molto importante parlarne.
Vantaggi e svantaggi
Se sono un ricercatore che studia un ambito scientifico molto ristretto per cui è difficile reperire fondi, mi conviene il sistema chiuso. Faccio il mio lavoro col minimo di soldi che riesco a trovare, scrivo il mio rapporto scientifico e invio il lavoro ad una delle riviste che non mi chiedono di pagare per la pubblicazione. Pagherà chi ha bisogno di sapere cosa ho fatto, fermo restando che, come autore, posso inviare gratuitamente il lavoro pubblicato a chiunque me ne faccia richiesta.
Se sono un ricercatore che è in grado di attrarre molti fondi, mi conviene pubblicare sulle riviste open. Parte dei miei fondi sono, in ogni caso, destinati alla mia università per spese di gestione; mettiamo tra queste anche il libero accesso alle informazioni scientifiche. Questo implica una maggiore visibilità ed una maggiore penetrazione delle mie ricerche nel mondo scientifico, anche quello non direttamente collegato al mio specifico settore disciplinare.
Maggiore visibilità per il ricercatore significa anche maggiore visibilità per l’istituzione di appartenenza che, quindi, ha tutto l’interesse a privilegiare l’open access invece che la pubblicazione chiusa. Ed infatti, attualmente molte, se non tutte, le università in Italia chiedono che i lavori scientifici vengano pubblicati anche sulle riviste open access.
Il problema è che quando il mercato diventa libero si innesca la concorrenza ed è possibile, anzi certo, che si possa incorrere in delle truffe.
La truffa dell’open access
Posso fondare una rivista (per esempio Journal of Scientific Folly-news) e chiedere un obolo di, mettiamo, 20 euro a chiunque mi invii un articolo che verrà accettato per la pubblicazione. Mi conviene accettare per la pubblicazione 20 articoli al giorno in modo tale che in un mese io possa fare un introito di 12000 € di cui solo una piccola parte destinata a pagare lo stipendio di chi si occupa di impaginare e gestire il sito web. Se poi sono ingordo, invece di accettare 20 articoli al giorno ne posso accettare un po’ di più in modo da migliorare i margini di guadagno. Però…se un articolo costa solo 20 €, faccio la figura dell’accattone. Meglio imporre un obolo di 50 € (tanto vuoi che un ricercatore non possa pagare anche di tasca sua una cifra così bassa?) e far finta di accettare solo il 20 % di tutti gli articoli inviati (tanto chi mi controlla?). Ed ecco che cominciano i problemi. Se voglio accettare più lavori possibili devo essere di bocca buona: devo fare in modo che la peer review sia più labile possibile o del tutto inesistente. Meglio se inesistente: magari io stesso, come editor, posso far finta di leggere il lavoro e imporre delle banali revisioni agli autori.
I predatory jounals
Pensate che sia impossibile? Ebbene, vi sbagliate. C’è stato qualcuno che si è preso la briga di studiare il comportamento degli editori in ambito scientifico ed ha fatto un elenco di tutte quelle riviste che pubblicano qualsiasi cosa, indipendentemente dalla qualità dei dati sperimentali. Si chiama Beall’s list of predatory journals and editors (Figura 1). Beall è il nome di chi ha avuto la pazienza di raccogliere tutte le informazioni che potete leggere qui.
Mi chiederete: possibile che ci siano giornali che, pur dichiarando di essere peer review, non attuano alcuna politica di valutazione della qualità dei dati e per la verifica della congruenza dei dati sperimentali con le ipotesi proposte?
Beh…date un’occhiata alla Figura 2.
Di questo ho già parlato. Se volete leggere la storia (da cui si riprende anche in parte ciò che è scriutto in questo primo articolo di un reportage più ampio) basta cliccare qui.
Per ora mi fermo. Nelle prossime puntate del reportage andrò a valutare la qualità dei dati pubblicati. Stay Tuned
Chimica e bufale. In che modo la chimica ci può aiutare a comprendere le mezze verità, le leggende, i miti, insomma quelle che in rete vengono identificate come bufale? Ne parlo in Frammenti di Chimica.
Volete avere qualche dettaglio in più?
D’accordo con l’editore della C1V Edizioni, è possibile richiedere un estratto del libro collegandosi al sito della casa editrice www.c1vedizioni.com e riempiendo la form che è in basso a destra.
Riceverete anche un invito ad iscrivervi alla newsletter (e questo vi consentirà di ottenere un regalo dalla casa editrice).
Entro 48 ore riceverete una mail con l’estratto del libro ed un codice promozionale di 4€ per il suo acquisto.
Ancora un post di servizio. Un ”avviso ai naviganti” per informare tutti coloro che hanno ordinato “Frammenti di Chimica” che sono iniziate le spedizioni. La settimana prossima (probabilmente tra lunedì e martedì) comincerete a ricevere il libro. Chi abita sulle isole (incluso me) dovranno aspettare un giorno in più, purtroppo. Cinzia Tocci, editor-in-chief della C1V edizioni, ha appena informato dalla pagina Facebook della C1V della partenza dei primi corrieri
Grazie ancora una volta a tutti voi che avete avuto fiducia in me.
Mi perdonerete se utilizzo il blog per una volta non per motivi scientifici. Desidero ringraziare ognuno di voi che ha avuto fiducia in me ed ha deciso di prenotare una copia di “Frammenti di Chimica” che ho appena scritto e che uscirà il 3 Settembre prossimo. Ho appena visto la notizia che Cinzia Tocci ha inserito nelle news della pagina Facebook della C1V edizioni (il link è qui sotto). Che dire…non mi aspettavo questo successo. Addirittura il volume varcherà i confini nazionali per approdare in Svizzera e Germania e so che volerà anche nel Regno Unito. Non conosco tutti quelli che lo hanno prenotato o lo prenderanno nel futuro; non ho nemmeno la possibilità di incontrarvi personalmente. Ecco perché uso questo mezzo, l’unico di cui posso disporre, per ringraziarvi personalmente uno per uno. Spero vi possiate divertire nella lettura come io mi sono divertito nella scrittura.
Vi siete mai chiesti come mai per lavare qualcosa bisogna usare il sapone e, preferibilmente, acqua calda? È tutta questione di chimica fisica.
Più volte ho scritto in merito all’acqua ed alle sue proprietà. Per esempio, qui e qui potete leggere in merito alle proprietà dei legami a idrogeno, qui in merito al ruolo dei legami a idrogeno nell’innalzamento ebullioscopico, qui trovate il significato di pH e la sua dipendenza dalla temperatura.
La chimica dei saponi
Il funzionamento dei saponi è molto semplice e lo ho già descritto qui, quando ho parlato di acqua micellare. In sintesi, un sapone è fatto da molecole anfifiliche, ovvero che hanno caratteristiche sia idrofiliche che idrofobiche. In particolare, le molecole si arrangiano in modo tale da permettere che le teste idrofiliche, rimanendo a contatto con l’acqua, isolino dall’acqua le code idrofobiche che non hanno con essa una buona affinità (Figura 1).
La natura delle micelle è tale da “indebolire” i legami a idrogeno dell’acqua con la conseguenza che si riduce la tensione superficiale del liquido stesso (Figura 2).
La riduzione della tensione superficiale consente alle molecole di acqua di penetrare meglio all’interno dei pori dei tessuti degli abiti o della pelle (in generale di tutti i sistemi porosi) così da permettere alle micelle del sapone di interagire meglio con lo sporco.
Quando ciò accade, le micelle “inglobano” lo sporco nella parte idrofobica mentre le teste polari a contatto con l’acqua fanno in modo che lo sporco venga trascinato via dall’acqua stessa (Figura 3).
Cosa c’entra la temperatura?
Ormai anche le pietre sanno che l’acqua è una molecola polare. La polarità dell’acqua è dovuta alla distribuzione degli elettroni all’interno della stessa molecola. Essa è tale che il centro delle cariche negative è preferenzialmente localizzato sull’ossigeno, mentre quello delle cariche positive sugli atomi di idrogeno (Figura 4).
Alla polarità della molecola di acqua, in genere, si attribuisce la “responsabilità” dei legami a idrogeno summenzionati. La polarità dell’acqua è legata anche a quella che si chiama costante dielettrica. La costante dielettrica è una misura della capacità delle molecole di un mezzo (in questo caso l’acqua) di allineare il proprio dipolo elettrico secondo le linee di forza di un campo elettrico applicato (Figura 5).
Più elevata è la costante dielettrica, più facilmente le molecole si allineano al campo elettrico applicato.
Da un punto di vista sperimentale, la costante dielettrica dell’acqua riduce di circa 80 volte la forza con cui interagiscono gli ioni presenti in un composto chimico. È per questo motivo che i sali tendono a sciogliersi bene in acqua.
Il valore della costante dielettrica è anche una misura della tensione superficiale del sistema liquido per cui esso è misurato. Più elevato è il valore di questa costante, maggiore è la tensione superficiale del liquido.
La Figura 6 mostra come varia il valore della costante dielettrica dell’acqua al variare della temperatura. In parole povere, l’aumento della temperatura comporta una diminuzione della costante dielettrica, ovvero una diminuzione della polarità dell’acqua ed una riduzione della sua tensione superficiale.
Come già spiegato nel paragrafo precedente, la riduzione della tensione superficiale permette all’acqua di “interagire” meglio con la superficie dei mezzi porosi (per esempio la pelle o un tessuto di un abito).
Conclusioni
L’uso combinato dei saponi e dell’alta temperatura permette una drastica riduzione della tensione superficiale dell’acqua aumentandone la capacità pulente. L’aumento della temperatura consente anche di sterilizzare gli “oggetti” che vengono lavati. La sterilizzazione, naturalmente, ha luogo solo se i microorganismi che contaminano gli oggetti non sono termofili, ovvero in grado di resistere alle classiche temperature usate negli elettrodomestici di casa (gli organismi termofili sono in grado di resistere anche a temperature di 80-90 °C).
Simpatico, vero, l’effetto della temperatura sulle proprietà dell’acqua?
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