Circa un mese fa è comparsa una mia intervista su www.VinOsa.it in merito all’agricoltura biodinamica.
[…] È una pratica agricola che non ha nulla di scientifico, ma si basa su riti e superstizioni inventati da Rudolph Steiner all’inizio del ’900. Steiner era un visionario, ma non nel senso positivo del termine. Non va accomunato con gente del calibro di Newton, Galileo Galilei, Giordano Bruno – solo per mantenerci nel passato, citando persone a cui gli pseudo scienziati tendono sempre a confrontarsi – o Einstein, Planck, Dirac, Pauling – per andare a persone a noi più vicine nel tempo – che erano scienziati nel senso compiuto del termine. Il modo di essere visionari delle persone appena citate ha permesso lo sviluppo verticale della scienza, ovvero del corpo di conoscenze che oggi ci consente di usare i social network, di andare sulla Luna, su Marte o di aver superato le colonne d’Ercole del nostro sistema solare. Le visioni di Steiner sono quelle tipiche di una persona che non ha alcuna idea di come si possa fare scienza e basa le sue conoscenze sulla superstizione e sull’esoterismo […]
Se non avete ancora letto l’intervista ed avete voglia di divertirvi con delle valutazioni scientifiche su questa pratica agricola potete cliccare sull’immagine qui sotto. Quello sono io, stanco per le continue battaglie contro la pseudoscienza, mentre mi riposo per riprendere la lotta.
Avete mai sentito parlare del widescreen phenomenon? No? Eppure, tra gli ecologisti della domenica va per la maggiore. Si tratta della constatazione che il numero di insetti stia diminuendo perché i parabrezza delle auto non sono più così sporchi di insetti spiaccicati come quando eravamo piccoli.
Sono le classiche elucubrazioni di gente che di scienza non capisce niente e capisce ancor meno di come si realizza un disegno sperimentale per trovare una risposta alla domanda “la popolazione di insetti su scala globale sta veramente diminuendo?” oppure “esiste una relazione tra l’uso di agrofarmaci e numerosità della popolazione di insetti?”, e potrei continuare, naturalmente. È la stessa tipologia di approccio pseudoscientifico che viene usato dai fantastici fautori di quella robaccia che si chiama omeopatia e che si riassume con “su di me funziona” (ne ho già scritto qui).
La cosa bella è che queste elucubrazioni vengono diffuse da siti molto seguiti (per esempio qui e qui) che contribuiscono alla cosiddetta disinformazione o cattiva divulgazione scientifica.
Vediamo perché la relazione tra parabrezza, numero di insetti spiaccicati e popolosità degli stessi sia una bufala.
Innanzitutto, dobbiamo cominciare col dire che uno studio su scala globale relativo alla perdita di biodiversità (non solo, ma limitiamoci alla biodiversità) va disegnato in modo tale da ottenere risultati non solo replicabili, ma anche riproducibili[1]. Alla luce di quanto scritto, è possibile pensare che il numero di volte in cui puliamo il parabrezza delle nostre automobili sia un dato attendibile? La risposta è no. Il motivo è abbastanza semplice: percorriamo sempre la stessa strada? Sempre alla stessa velocità? Sempre nelle stesse condizioni climatiche? Sempre con la stessa auto?
Esistono strade di tantissime forme, dimensioni e condizioni, tutti fattori che vengono sempre ignorati quando il windscreen phenomen è usato come indice per misurare la popolazione degli insetti. Non dimentichiamoci, inoltre, che le strade generano i cosiddetti bordi nel paesaggio. Come sanno tutti quelli che si interessano di indagini analitiche di ogni tipo, gli effetti dei bordi sono sempre difficili da misurare e generalizzare.
E come facciamo il campionamento? Guidiamo verso i bordi della carreggiata? Allora ci dobbiamo aspettare di campionare una popolazione di insetti di corporatura più massiccia di quelli che potremmo rilevare sul parabrezza se guidassimo esattamente al centro della strada. E a che ora pensiamo di fare il campionamento? Persino io che non sono un entomologo so che la tipologia di insetti che vivono negli ambienti intorno alle strade differisce a seconda del periodo della giornata in cui ci muoviamo. E cosa andiamo a misurare? Il numero di resti presenti sul parabrezza? La loro densità? La forza che usiamo per staccare i poveri resti degli insetti spiaccicati?
Ma non basta. Se io guido sempre nella stessa microzona del pianeta, mi posso permettere di estrapolare le mie pseudo-osservazioni ad altre zone del pianeta? Ovviamente no, perché le mie pseudo-osservazioni sono valide solo per la strada che percorro abitualmente, non per le altre. Chi mi assicura che gli insetti non si siano evoluti in modo tale da andare a popolare le zone limitrofe a quelle che io frequento abitualmente con la mia auto, solo perché hanno imparato che la zona che frequento è quella più pericolosa del sistema in cui essi vivono?
Eh, sì. Tutte quelle elencate, ed anche di più, sono le domande a cui dobbiamo rispondere per rendere un dato attendibile. Sfido tutti gli pseudo-ambientalisti che usano il windscreen phenomenon a rispondere in modo coerente a tutte le domande sopra elencate.
[1] Replicabilità e riproducibilità non hanno lo stesso significato. La prima si riferisce alla capacità del medesimo ricercatore (o gruppo di ricerca) di ottenere i medesimi risultati nello stesso laboratorio in tempi differenti. La seconda si riferisce alla capacità di ricercatori differenti in laboratori differenti e fisicamente lontani tra loro, di ottenere i medesimi risultati di una data ricerca scientifica.
Avete presente le dichiarazioni di Enrico Montesano, indimenticabile protagonista di uno dei film più trash degli anni ’70 dal titolo “Febbre da cavallo”, in merito alle mascherine che dobbiamo indossare per proteggerci dal virus del Covid-19? Riporto dai giornali (qui, qui e qui, per esempio):
Le mascherine che oggi vengono usate ci fanno respirare la nostra anidride carbonica.
Ecco. È proprio per questa affermazione che desidero scrivere una lettera aperta ad Enrico Montesano.
nonostante la differenza di età che ci contraddistingue o, forse, proprio per quella, mi permetto di darti del “tu” perché quando ero un bambino e poi un adolescente sei stato uno dei comici che più mi hanno messo di buon umore. Sebbene “Febbre da cavallo” io lo giudichi un trash, non posso negare che è uno dei miei film preferiti perché ogni volta che lo riguardo mi proietto in un’epoca in cui ero molto più spensierato di adesso.
Caro Enrico, quando fai certe affermazioni e citi certi figuri dei quali ti fidi in merito a problemi di ordine sanitario, non ci fai una bella figura. Ovviamente sei libero di credere in chi ti pare, ma non puoi aspettarti, poi, il rispetto che meriteresti come attore quando entri in un campo della conoscenza che non ti compete. Anche se dici di informarti, penso che le tue fonti non siano esattamente attendibili.
Lasciando perdere tutte le sciocchezze che hai detto in merito al Covid-19 ed alle mascherine, mi voglio soffermare solo su quello che hai detto in merito all’anidride carbonica. Naturalmente, come dicevo sopra, sei libero di credere in chi ti pare e ritenere che io dica sciocchezze. L’unica cosa è che le mie “sciocchezze” sono verificabili, mentre le tue e quelle dei figuri che citi non lo sono per il semplice motivo che sono ben lontane dalla realtà.
Andiamo più nel merito.
Le mascherine che indossiamo non ci fanno respirare la nostra anidride carbonica nelle normali condizioni in cui le usiamo. Vediamo perché.
Ho già scritto in merito al meccanismo di funzionamento delle mascherine. Basta cliccare qui sotto
In questo articolo ho messo in evidenza che le dimensioni dei pori delle mascherine sono dell’ordine dei micrometri. Prendiamo solo i pori più piccoli delle mascherine più efficaci: 0.2 μm, ovvero la 0.2 milionesima parte del metro, in altre parole 0.2 x 10-6 m. Sembra una dimensione molto piccola, vero Enrico?
Ed ora ti invito a scaricare un programmino di chimica computazionale che io uso sul tablet. Si chiama WebMO. La versione per iPad che uso io costa solo circa 5 €. Non penso che l’acquisto sia impossibile per te. Grazie a questo programmino è possibile disegnare la molecola di anidride carbonica e studiarla in tutte le sue caratteristiche. È un programmino estremamente intuitivo e facile da usare. Superato il panico di chi non conosce la chimica vedrai che lo apprezzerai molto.
Ebbene, caro Enrico, grazie a questo programmino, la molecola di anidride carbonica è quella che ti riporto qui sotto:
Ho evidenziato gli atomi di ossigeno e di carbonio in modo da permettere al programmino di fornire la distanza tra questi due atomi. Come leggi in basso, la distanza è circa 1.275 Å, ovvero 1.275 x 10-10 m. Se consideriamo, in prima approssimazione, la molecola di anidride carbonica in continua rotazione, possiamo considerarla come una sfera del diametro pari a 2 x 1.275 x 10-10 m, ovvero una sfera del diametro di 2.550 x 10-10 m.
Adesso, come si faceva alle scuole elementari, facciamo il rapporto tra le dimensioni di un poro di una mascherina e quella del diametro della sfera suddetta:
0.2 x 10-6 m/2.55 x 10-10 m = 784
In altre parole, mio caro Enrico, il poro più piccolo della mascherina più efficace è circa 800 volte più grande della molecola di anidride carbonica.
Sai cosa vuol dire questo?
Leggo da Wikipedia che tu sei alto 1.73 m. Se immagini di essere la molecola di anidride carbonica, devi moltiplicare la tua altezza per 784 ed ottieni la larghezza del tunnel nel quale decidi di passare. Si tratta, cioè, di un tunnel la cui larghezza è di circa 1356 m, ovvero 1 km e circa 400 m. Non mi vorrai mica far credere che non riesci ad attraversare un buco di questa larghezza?
Capisci, adesso, caro Enrico, perché hai detto una sciocchezza sesquipedale?
Ti saluto affettuosamente ricordando sempre con enorme piacere, oltre che tanta nostalgia per il tempo passato, i tuoi film ed il tuo famoso Rugantino.
Oggi ho trovato una bella sorpresa on line. La C1V edizioni ha reso disponibili le presentazioni fatte nel 2018 in occasione del secondo Convegno Nazionale Medicina e Pseudoscienza (CNMP). Durante il convegno ho fatto una lunga lezione divulgativa sulle false informazioni in merito agli oli, ai sali ed agli zuccheri. Qualche mese dopo avrei pubblicato “Frammenti di Chimica” in cui si trovano molte delle cose che ho detto in quel convegno.
Se volete divertirvi ad ascoltarmi, qui sotto ci sono i miei tre interventi.
Prima parte
Seconda parte
Terza parte
In realtà il congegno del 2018 è stato molto ricco. Hanno partecipato tutti gli scienziati attivi nella lotta alle bufale: da Silvio Garattini a Piero Angela, da Roberto Burioni a Francesco Galassi e tanti tanti altri. Se volete fare un viaggio nel tempo e partecipare al convegno, potete iscrivervi al canale YouTube della C1V e ascoltare tutte le presentazioni. Basta cliccare sull’immagine qui sotto.
Nella prima parte di questo reportage (che appare nella Newsletter della Società Italiana di Scienza del Suolo) ho discusso dei limiti del sistema chiuso delle riviste scientifiche. In quella sede, l’aggettivo “chiuso” si riferiva al fatto che le case editrici non permettono l’accesso libero dei ricercatori agli studi che vengono pubblicati: neanche ai loro stessi lavori. Quante volte mi è capitato, per esempio, di dover chiedere il favore a qualche collega straniero di scaricare per me i miei stessi lavori e di inviarmene una copia in pdf? Ormai non le conto più. Le conclusioni del precedente articolo (le trovate qui sotto) erano che il sistema chiuso sul quale si è basata la diffusione delle ricerche scientifiche fino ad ora, non è sostenibile sotto l’aspetto economico.
Meglio l’open access, allora? La pubblicazione open access è quel tipo di articolo per cui chi legge non ha bisogno di pagare nulla. In altre parole, se tutti noi che, a vario titolo, ci occupiamo di scienza cominciassimo a pubblicare in maniera “open”, tutte le università e centri di ricerca risparmierebbero un bel po’ di soldi che potrebbero essere investiti in ben altro: borse di studio, nuovi reclutamenti di ricercatori e docenti, apparecchiature scientifiche e…chi più ne ha, più ne metta.
Devo dire che questa è la realtà ideale. Vado nel mio ufficio, mi siedo alla scrivania, accendo il computer e faccio la mia ricerca bibliografica. Dal momento che tutti pubblichiamo in open access, la mia università non ha necessità di pagare alcun abbonamento (esoso) ed io posso accedere e scaricare tutto quello che voglio.
Bello il mondo ideale, vero?
Il problema è che le case editrici tutto sono tranne che enti filantropici. Da qualche parte devono pure far soldi. Ed in effetti il problema economico si è spostato: non sono più le università a dover pagare per gli abbonamenti in modo da consentire ai ricercatori di poter essere aggiornati, ma sono i ricercatori che, per poter pubblicare su una rivista open access, devono pagare una tassa di pubblicazione. Questa tassa è dovuta solo se il lavoro supera il processo di peer review e viene accettato per la pubblicazione.
A questo punto, il più scafato tra noi ha già capito quale è l’inghippo. Ma andiamo con ordine.
Vi riporto qui sotto una tabella in cui è possibile leggere il costo (in dollari statunitensi per omogeneità di riferimento) che dovrei sostenere per pubblicare in maniera open su alcune delle riviste del mio settore o su alcune di quelle che si adattano meglio alla tipologia di ricerca che faccio (chimica-fisica ambientale):
Queste sono solo alcune delle riviste serie che sono completamente open (ACS Omega) oppure ibride (tutte le altre della lista), ovvero consentono all’autore di scegliere se pubblicare col sistema chiuso o quello open.
Ormai anche le pietre sanno che per il biennio 2018-2020 (prorogato fino a giugno 2021) sono uno dei commissari per l’abilitazione scientifica nazionale (ASN) per il mio settore concorsuale. Perché vi dico questo? Semplicemente per farvi capire che sono uno di quelli che conoscono abbastanza bene le regole che devono essere applicate sia per avere l’abilitazione che per superare un qualsiasi concorso universitario. Ebbene, tra queste regole (che non vengono stabilite dai commissari, ma calate dall’alto dal Ministero dell’Università) c’è il cosiddetto h-index – di cui ho parlato nel mio blog qui – nonché la somma degli impact factor delle riviste su cui un candidato ha pubblicato.
Non voglio aprire un altro fronte per cui non voglio discutere dell’aberrazione di una valutazione basata sui parametri anzidetti. Il mio scopo è solo quello di farvi capire che l’h-index di un ricercatore aumenta con l’aumentare delle citazioni e della visibilità dei suoi lavori.
Quando un articolo pubblicato diviene visibile e può avere alte possibilità di citazione? Ovvio…quando è open access, naturalmente.
Ed eccoci arrivati al punto: se ho tante pubblicazioni open access, a meno di non essere una capra e pubblicare sciocchezze sesquipedali, ho una ottima possibilità di essere visibile e di veder citati i miei lavori. Oddio…anche se pubblico sciocchezze sesquipedali ho ottime possibilità di essere citato…ma in negativo. E non è esattamente bello per la reputazione. Basta prendere in considerazione le sciocchezze pubblicate negli ultimi anni da un premio Nobel come Luc Montagnier, per rendersi conto che egli è oggi solo una patetica figura che cerca di riguadagnare quella visibilità che lo ha abbagliato – soddisfacendo il suo ego – quando ha vinto il premio Nobel nel 2008.
Ma sto divagando…
Considerando i costi che un ricercatore deve sostenere per poter pubblicare in open access, cosa si può concludere dalla disamina di questa seconda puntata?
Se sono un ricercatore che studia un ambito scientifico per cui è difficile reperire fondi, mi conviene il sistema chiuso. Faccio il mio lavoro col minimo di soldi che riesco a trovare, scrivo il mio rapporto scientifico e invio il lavoro ad una delle riviste che non mi chiedono di pagare per la pubblicazione. Pagherà chi ha bisogno di sapere cosa ho fatto, fermo restando che, come autore, posso inviare gratuitamente il lavoro pubblicato a chiunque me ne faccia richiesta.
Se sono un ricercatore che è in grado di attrarre molti fondi, mi conviene pubblicare sulle riviste open. Parte dei miei fondi sono, in ogni caso, destinati alla mia università per spese di gestione; mettiamo tra queste anche il libero accesso alle informazioni scientifiche. Questo implica una maggiore visibilità ed una maggiore penetrazione delle mie ricerche nel mondo scientifico, anche quello non direttamente collegato al mio specifico settore disciplinare. Maggiore visibilità per il ricercatore significa anche maggiore visibilità per l’istituzione di appartenenza che, quindi, ha tutto l’interesse a privilegiare l’open access invece che la pubblicazione chiusa. Ed infatti, attualmente molte, se non tutte, le università in Italia chiedono che i lavori scientifici vengano pubblicati anche sulle riviste open access.
Il problema è che quando il mercato diventa libero si innesca la concorrenza ed è possibile, anzi certo, che si possa incorrere in delle truffe.
Ma questo sarà oggetto del prossimo articolo nel prossimo numero della Newsletter.
Questo articolo è apparso nella Newsletter n. 13 della SISS (qui)
29 giugno 1916. Ore 5:30. I soldati italiani che vivono nelle trincee scavate sul Monte San Michele nel Carso isontino si stanno lentamente svegliando quando “una cortina di fumo non più alta di due metri […] rotola adagio, dato che non c’è vento, verso di noi”[1].
I soldati, allarmati dai loro ufficiali, indossano le protezioni antigas costituite da “una maschera che ha una pinzetta che serve per chiudere le narici e una specie di filtro dal quale parte una gomma che termina con una specie di testina, la quale si tiene in bocca e così si respira. In più ha una membrana con elastico che copre la faccia e le orecchie perfettamente. Inoltre, ci hanno dato una pezzuola di gomma come quella della membrana della maschera: questa in caso si deve mettere in mezzo alle gambe e legare con le fettucce che è dotata. In più una scatola di vasellina speciale, da ungere tutto attorno a questa pezzuola e anche sotto le ascelle, perché i gas che possono buttare, ti prendono nelle parti deboli e possono uccidere anche senza respirarli”[2].
È il primo attacco con i gas che l’esercito austro-ungarico sferra contro il fronte italiano dislocato sul monte San Michele. L’attacco, in poche ore (dalle 5:30 alle 9:30 circa) si conclude con la morte di circa 7000 italiani, un numero enorme considerando che più o meno lo stesso numero di soldati è deceduto nell’insieme di tutte le guerre risorgimentali[3]. Tuttavia, non tutti sono morti per effetto dei gas. I feriti, i moribondi, i soldati intontiti dai gas sono finiti a colpi di mazze ferrate.
L’effetto del gas dal diario del cap. med. Giuseppe Pisanò dal posto di medicazione sul San Michele[4]
“L’individuo che si trova sotto l’azione dei gas venefici presenta grande agitazione dovuta in gran parte alla difficoltà del respiro, pallore accentuato del volto e delle mucose visibili: miosi. In molti casi il colorito è terreo, come quello dei malarici, in altri è cianotico con accentuazione alle labbra e alle orbite, i muscoli del volto e delle labbra sono scossi da movimenti tonico-clonici, così pure la lingua, e dalla bocca e dalle nari fuoriescono muco e bava spumosi lievemente colorati in rosso uniforme dal sangue.
La respirazione è estremamente difficile […]. Gli spazi intercostali sono tesi, rigidi sì da richiamare alla mente un’altra grave intossicazione: quella da virus tetanico. […] Alla ascoltazione del torace si rivelano ronchi sibilanti e rantoli a medie bolle diffusi su tutto l’ambito toracico. […] Passando all’apparato gastrointestinale si nota: vomito, defecazioni e orinazioni non contenibili: le feci non sono diarroiche, ma sono mollicce e intensamente colorate in giallo-oro, così pure le urine. Esiste inoltre in quasi tutti una sensazione di violento e molesto dolore all’epigastrio con irradiazioni all’aia gastrica e all’aia colica sì da avere anche qui l’impressione della esistenza di uno spasmo tonico-clonico alla muscolatura liscia dei visceri addominali. […] Il sangue (e ciò potei constatare avendo praticato un salasso in un caso molto grave che fu poi seguito da decesso) è molto scuro, coagula lentamente formando un coagulo di consistenza molliccia, ed il siero che si separa contiene discreta quantità di sangue emolizzato, cosa del resto dimostrata anche dalla presenza, nello sputo e nel vomito, di guigna già rilevata”.
Questi descritti sono sola una parte dei sintomi dovuti all’avvelenamento da gas usati la mattina del 29 giugno 1916 dalle truppe austroungariche. L’ufficiale medico Pisanò descrive anche una possibile cura per alleviare le sofferenze degli avvelenati e per rimetterli in sesto: cardiotonici, morfina ed atropina che, secondo il dottore, erano in grado di “calmare lo stimolo stizzoso della tosse, permettendo una migliore ossigenazione del sangue” con “notevole benefica influenza su tutta la ulteriore evoluzione del male”.
Quali furono i gas usati dall’esercito austroungarico?
Si tratta di una miscela di cloro molecolare e fosgene. Sono aggressivi soffocanti che hanno un tempo di permanenza nell’ambiente molto veloce e, per questo, permettono agli attaccanti di sopraggiungere a sorpresa sugli attaccati e decimarli. È quanto effettivamente accaduto. Tuttavia, stando al bollettino del Generale Cadorna, le riserve italiane si sono comportate molto bene e, nonostante le perdite subite, sono riuscite a ricacciare indietro i soldati nemici.
Il cloro fu scoperto nel 1774 da Carl Wilhelm Scheele, un chimico svedese, che pensò erroneamente potesse contenere ossigeno. Fu solo nel 1810 che Humphry Davy, un chimico inglese, capì che non si trattava di un gas contenente ossigeno, ma di qualcosa di nuovo che chiamò cloro, da chloros che vuol dire verde. Infatti, il cloro molecolare si presenta come un gas dal colore verde. “Gli effetti del cloro sulla salute umana dipendono dalla quantità di cloro presente e dalla durata e frequenza di esposizione. Gli effetti dipendono inoltre dalla salute dell’individuo o delle condizioni dell’ambiente a seguito di esposizione.
La respirazione di piccole quantità di cloro in brevi periodi di tempo ha effetti negativi sull’apparato respiratorio umano. Gli effetti vanno da tosse e dolori toracici, a ritenzione di acqua nei polmoni. Il cloro irrita la pelle, gli occhi e l’apparato respiratorio. Questi effetti non tendono ad accadere ai livelli di cloro normalmente trovati nell’ambiente” (Fonte).
Il fosgene (COCl2) è un composto noto fin dal XIX secolo. Scoperto da John Davy, esso è estremamente reattivo e viene usato come intermedio in molte reazioni chimiche. Penetrando negli alveoli, il fosgene provoca un aumento della permeabilità degli stessi permettendo al plasma di uscire. Il sangue perde volume, si concentra e si verifica anossemia. In altre parole, si riduce la concentrazione di anidride carbonica nel sangue ed aumenta quella di ossigeno che ha, in quelle condizioni, una elevata affinità per l’emoglobina. Questo vuol dire che quando l’emoglobina arriva nelle cellule non rilascia l’ossigeno necessario ai processi metabolici cosicché i tessuti cominciano a “morire” per mancanza di ossigeno.
Conclusioni
L’uso dei gas nella Prima guerra mondiale è stato un orrore che non ci ha insegnato nulla. Ancora oggi in molte parti del mondo i gas vengono usati per uccidere sia militari che popolazioni civili. E dire che il bando alle armi chimiche non è cosa nuova. Infatti, già nel 1874, con la dichiarazione di Bruxelles, l’uso dei gas come armi fu proibito. Nel tempo, il bando è stato più volte reiterato, ma, nonostante questo, ci sono ancora degli individui (non mi sento di definirli animali perché ho rispetto per questi esseri viventi, ma nemmeno esseri umani perché un essere umano non dovrebbe permettere uccisioni così abominevoli) che fanno largo uso di armi vietate da tutte le convenzioni.
Questo articoletto serve per onorare non solo la memoria dei soldati italiani caduti sul monte San Michele il 29 giugno 1916, ma anche tutti coloro che sono stati vittime dell’uso dei gas in guerra.
Riferimenti
[1] N. Mantoan “La guerra dei gas. 1914-1918” Gaspari editore (2004), 3^ ed.
Recentemente sul quotidiano Il Tempo è apparso un articolo dal titolo “Burioni, Pregliasco e Brusaferro . Gli esperti più scarsi del mondo” in cui i nomi di tre medici che ultimamente occupano le prime pagine dei giornali non sono neanche messi in ordine alfabetico. L’articolo che trovate qui è un attacco neanche troppo velato alla credibilità di questi tre professionisti che ci avvertono dei pericoli della pandemia da SARS-Cov-2. L’attacco viene sferrato usando uno dei parametri (non l’unico) utilizzato per la valutazione comparativa dei candidati a posti più o meno importanti nel mondo accademico e della ricerca scientifica: l’h-index.
Cos’è l’h-index?
Per i non addetti ai lavori, si tratta di un indice che serve per valutare l’impatto che il lavoro di uno scienziato ha sulla comunità scientifica di riferimento. Se un lavoro pubblicato è molto importante, esso viene citato tantissimo e l’h-index di quello scienziato aumenta in modo proporzionale al numero delle citazioni che riceve.
Nel mondo da classifiche calcistiche in cui viviamo, questo parametro sembra molto utile, vero?
In effetti sembra così. Il problema è che questo parametro deve essere necessariamente contestualizzato. Prima di usarlo è necessario entrare nel merito del lavoro di uno scienziato. Se così non fosse tutte le commissioni di cui faccio parte e di cui ho fatto parte (inclusa quella relativa all’Abilitazione Scientifica Nazionale del mio settore concorsuale) non avrebbero alcun senso. Se bastasse solo valutare il valore dell’h-index per fare una classifica di idoneità ad una data posizione accademica, non sarebbe necessario rompere le scatole ai docenti universitari per includerli nelle commissioni: basterebbe il lavoro di un semplice ragioniere che non dovrebbe fare altro che accedere ai data base accademici, estrarre il valore dell’h-index e, poi, mettere i nomi dei candidati in ordine di h-index decrescente. Al contrario, se a me serve un ricercatore che abbia esperienza in fisiologia vegetale, non vado a vedere solo il suo h-index, ma vado a valutare anche l’attinenza della sua ricerca con la posizione che egli deve occupare. Se al concorso si presenta un ricercatore in filologia romanza con h-index 40 ed uno in fisiologia vegetale con h-index 20, sceglierò il secondo dei due perché la sua attività di ricerca è più attinente al profilo di cui si sente il bisogno. Da tutto ciò si evince che l’articolo pubblicato su Il Tempo è fallace proprio in questo. Il giornalista, di cui non conosco il nome e neanche mi interessa perché sto valutando solo quello che ha scritto, ha messo a confronto gli h-index di una serie di scienziati più o meno famosi senza andare a vedere se i settori di cui essi si occupano sono congruenti gli uni con gli altri e se i lavori scientifici che hanno pubblicato siano congruenti con la virologia. Questo giornalista si è solo peritato di agire come un tipico ragioniere che legge dei numeri e li mette in fila dal più grande al più piccolo. Alla luce di questa classifica ha concluso che Burioni (persona che conosco personalmente e che stimo moltissimo) è uno scienziato tra i più scarsi del mondo. A questo giornalista non importa neanche minimamente ciò che il Prof. Burioni dice. Ciò che gli importa è che un parametro, che nel mondo universitario noi utilizziamo con tanta oculatezza, collochi questo scienziato in fondo alla classifica che egli ha deciso autonomamente di stilare senza tener in alcun conto delle differenze che possono esistere tra i diversi settori scientifici in cui gli scienziati da egli presi in considerazione si muovono. Ed allora perché non inserire nella stessa classifica anche il Prof. Guido Silvestri che ha un h-index di 66 (qui) e che si muove su posizioni analoghe a quelle di Burioni? Ma…poi…siamo sicuri che Anthony Fauci, con h-index 174 e consigliere di Trump, non sia in linea con quanto dicono Burioni e Silvestri? Il giornalista che ha scritto l’articolo che sto commentando, probabilmente, pensa di no. Non tiene conto del fatto che Trump è una scheggia impazzita, che gli americani hanno eletto a loro rappresentante uno che è fallito ben due volte, e che questa persona non brilli certo in quanto a cultura e preparazione scientifica.
Gli h-index e la credibilità scientifica.
Ora voglio usare gli stessi criteri del giornalista de Il Tempo per fare una mia classifica di scienziati. Partiamo dalla fisica. Penso che io non abbia bisogno di presentare Enrico Fermi. È una gloria italiana che ha dato un contributo notevole alla fisica mondiale. Trovate una sua biografia qui. Il suo h-index è 28 (qui). Incredibile vero? Nonostante abbia vinto un premio Nobel, Enrico Fermi ha un h-index confrontabile con quello di Burioni che il giornalista de Il Tempo ha giudicato scarso. Però in effetti sto confrontando un medico con un fisico, peraltro deceduto già da molto tempo. Non sono paragoni da fare. Andiamo a prendere un altro fisico che è diventato famoso qualche tempo fa, all’inizio degli anni 2000: Jan Hendrik Schön. Ho parlato di questo scienziato qui. Fu uno studioso della superconduttività nei sistemi organici. In odore da Nobel fino a che si scoprì che inventava i dati. Gli è stato ritirato anche il dottorato di ricerca. Ebbene, se andiamo a leggere l’h-index di Schön su Scopus, risulta che esso è pari a 32 (qui). In definitiva, usando i parametri del giornalista de Il Tempo, Enrico Fermi è più scarso di Jan Hendrik Schön. Ma quale tra i due ha maggiore credibilità? Enrico Fermi che ha lavorato seriamente ed ha dato un contributo alla fisica riconosciuto dall’intera comunità scientifica oppure Jan Schön che, invece, ha lavorato in modo poco serio arrivando ad inventarsi i dati pur di avere quella notorietà internazionale che non meritava?
Voglio continuare. Ritorniamo nel campo medico e prendiamo Wakefield. Sì, proprio il medico che è stato radiato dall’ordine dei medici e dalla comunità scientifica per aver inventato di sana pianta la correlazione tra vaccini ed autismo. Il suo h-index è 45 (qui) dovuto principalmente alle oltre 1500 citazioni che il suo lavoro su The Lancet, pubblicato nel 1998 e poi ritrattato una decina di anni dopo, sulla correlazione vaccini-autismo ha ricevuto. Usando i parametri del giornalista de Il Tempo, Burioni è più scarso di Wakefield. Ma voi nelle mani di chi mettereste la vostra salute: di Burioni o di Wakefield? Io non ho dubbi, per quanto mi riguarda: mi affiderei senza ombra di dubbi a Burioni.
Conclusioni
Ho scritto questo articolo per far capire quanta spazzatura ci sia in rete in merito a come vengono usati i numeri che hanno significato solo nell’ambito per cui quei numeri sono stati introdotti. Al di fuori dell’ambito accademico, l’h-index non può essere utilizzato. In ogni caso, anche in ambito accademico va utilizzato non in senso assoluto ma assieme a tutta una serie di parametri che servono per valutare la credibilità di uno scienziato. Usando un linguaggio matematico, l’h-index è condizione necessaria ma non sufficiente a farsi un’idea del lavoro di qualcuno.
L’articolo che leggete è un mio contributo alla Newsletter n. 12 della Società Italiana di Scienza del Suolo. Si tratta della prima parte di un reportage sui predatory journals.
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Oggi la rete internet è alla portata di tutti. Basta pagare un abbonamento flat ad una qualsiasi delle innumerevoli aziende telefoniche del nostro paese per avere un accesso illimitato a siti di ogni tipo, inclusi quelli di carattere scientifico. Tuttavia, chi non fa parte di un ente (pubblico o privato) che ha accesso alle banche dati scientifiche non può scaricare e leggere lavori che non siano di tipo “open access”.
“Open access”. Sembra essere una moda. Anche la valutazione delle università passa attraverso l’esame del numero di pubblicazioni di tipo “open” dei ricercatori che in esse operano. È per questo che tante istituzioni, anche a livello trans-nazionale, invitano i ricercatori a pubblicare su riviste accessibili a tutti. Devo dire che la questione delle pubblicazioni scientifiche accessibili a tutti è un argomento spinoso.
Vediamo perché.
Nel business editoriale scientifico chiuso, gli editori sono gli unici ad attuare una politica di tipo Win1-Win2-Win3-Win4.
La situazione di Win1 si riferisce al fatto che le case editrici fanno pagare al singolo ricercatore il download di un unico articolo da pochi dollari a qualche centinaio. Tuttavia, questo accade quando l’istituzione di appartenenza non ha pagato nessun abbonamento per l’accesso alle riviste di interesse. Nel caso in cui l’istituzione abbia sottoscritto un abbonamento, il singolo dipendente non è costretto a pagare di tasca sua gli articoli che gli servono per tenersi aggiornato. Gli abbonamenti, che in genere sono per pacchetti di riviste che gli enti di ricerca non possono scegliere, costano un occhio della testa. Si parla di decine di migliaia di euro all’anno. Si badi bene: non si possono scegliere le riviste da inserire nei pacchetti. Ma soprattutto, vengono scelti i pacchetti con le riviste più famose e di copertura più ampia possibile. Questo vuol dire che chi si occupa di nicchie di ricerca ha una probabilità molto alta che le riviste che gli interessano non siano comprese nel pacchetto. Questo che sto scrivendo è valido per ogni casa editrice. Quindi considerando che nel panorama scientifico esistono case come la Elsevier, la Springer, la ACS etc., per ognuna di esse bisogna pagare un abbonamento di diverse decine di migliaia di euro. Si fa presto ad arrivare ad un budget di spesa che vola verso le centinaia di migliaia di euro all’anno. Diciamo che non è poco, considerando la crisi permanente in cui versano da anni le casse delle università e degli enti di ricerca italiani.
Ma non è finita. Le case editrici dei sistemi chiusi si trovano anche nella condizione che io definisco di Win-2. In cosa consiste? Affinché possa essere pubblicato, uno studio deve essere sottoposto a revisione tra pari. Gli editor-in-chief di ogni rivista chiedono ad esperti di settore di fare la revisione dei lavori. Il punto è che chiedono ai revisori un surplus di lavoro gratuito. Quindi, ognuno di noi si sobbarca l’onere di leggere e commentare nel merito gli studi dei propri colleghi a discapito del poco tempo libero che ognuno di noi ha. E questo gratuitamente. In altre parole, tutti noi prestiamo la nostra competenza professionale alle case editrici senza remunerazione. Perché lo facciamo? La scusa che abbiamo trovato è che il sistema richiede il nostro apporto. Se non lo facessimo, si pubblicherebbe di tutto. Ma mi chiedo: va bene; evitiamo che venga pubblicato di tutto facendo la revisione tra pari. Ma perché gratis? C’è qualcuno che dice che se non fosse gratis, saremmo corruttibili. E su questo avrei qualcosa da ridire considerando gli scandali che stanno venendo fuori nel mondo scientifico in merito ai plagi, alle pubblicazioni con dati inventati e ai cartelli delle citazioni. Ma, per ora, lasciamo perdere questi aspetti. Rimane la domanda: perché lo facciamo? La mia personale opinione è che lo facciamo per avere una parvenza di potere, ovvero per soddisfare il nostro ego ipertrofico che ci fa pensare che siamo i migliori e che più lavori da referare riceviamo, più siamo bravi. Posso dire che ci vuol molto poco a smontare questa convinzione. Basta fare il rapporto tra numero di riviste che nascono ogni giorno e numero di ricercatori. Gioco forza, ognuno di noi è chiamato a fare da revisore ad un certo numero di studi all’anno. Non siamo bravi. Siamo semplicemente troppo pochi rispetto alla quantità di sciocchezze che vengono inviate per la pubblicazione alle riviste scientifiche.
Arriviamo, ora, alla condizione che io definisco di Win-3. I lavori che vengono inviati alle riviste scientifiche sono finanziati dalle stesse istituzioni che pagano l’abbonamento alle riviste. In altre parole, la mia università paga la mia ricerca attraverso l’erogazione di fondi (minimi e quando sono disponibili) e di stipendio. Io lavoro per la mia università, ma nello stesso tempo lavoro senza remunerazione, attraverso la mia opera di revisore, per le stesse case editrici alle quali invio i miei studi da pubblicare ed ai quali io stesso non posso accedere se la mia università non ha pagato un abbonamento. La cosa è un po’ contorta, se ci pensiamo bene. C’è qualcuno che stampa su carta (oggi potremmo dire pubblica on line) qualcosa che non gli appartiene perché è di proprietà del ricercatore che l’ha pensata e dell’istituzione che paga il ricercatore per pensare. Certo la stampa costa. Costa la carta, costa il personale necessario alla gestione del flusso di lavori in entrata, costa l’elettricità necessaria a sostenere l’organizzazione della casa editrice etc. etc etc. L’unica cosa che non costa è il lavoro di peer review. Ma ne ho già parlato. Sorge una riflessione: se le case editrici di tipo scientifico rientrano in un ambito imprenditoriale, perché non riescono a ricavare introiti dalla pubblicità o dalla vendita al dettaglio dei loro prodotti? In realtà, di pubblicità sulle riviste ce ne è a iosa, quello che manca è la vendita al grande pubblico. Solo alcune riviste di carattere generalista si possono trovare in edicola. Mi riferisco a Science e Nature che molto spesso trovo esposte nelle edicole degli aeroporti. Eppure sarebbe veramente utile, secondo me, vendere al grande pubblico le riviste specialistiche. Pensiamo solo allo sforzo che i più curiosi dovrebbero fare per masticare l’inglese. Si parla tanto del provincialismo degli italiani che non parlano fluentemente l’inglese, ma nessuno ha mai pensato di diffondere al grande pubblico le riviste con contenuti specialistici per incrementare lo sforzo nella lettura dell’inglese. Parliamo tanto dell’analfabetismo di ritorno che porta le persone più impensabili ad essere delle vere e proprie capre in ambito scientifico, e nessuno ha mai pensato che la vendita al dettaglio, al di fuori dei circuiti istituzionali, potrebbe aiutare le persone a ragionare meglio secondo la logica del metodo scientifico. Tutti questi accorgimenti potrebbero forse essere utili per abbassare i costi degli abbonamenti che le istituzioni sono costrette a pagare per leggere gli studi dei propri ricercatori. In ogni caso, io sono un sognatore, non mi intendo di economia e non ho idea se I sogni di cui sto parlando siano realizzabili o meno.
Veniamo ora alla chiusura del cerchio con la condizione Win4 che è un po’ la summa di quanto discusso fino ad ora. Le case editrici vendono un prodotto che non comprano. La cosa bella è che lo rivendono, a costi maggiorati, agli stessi che gliene fanno dono. Le università pagano i ricercatori per studi che vengono donati alle case editrici. Queste ultime, a loro volta, chiedono agli stessi ricercatori una valutazione gratuita degli studi anzidetti. Infine, ricercatori ed istituzioni devono comprare il prodotto che loro stessi hanno donato. Fa girare la testa, vero?
Come risolvere il problema?
Ne discuto nel prossimo numero della Newsletter.
Note
Articolo apparso nella Newsletter n. 12 della Società Italiana di Scienza del Suolo
Ogni tanto ritorno alla carica con l’agricoltura biodinamica. Ne ho parlato a varie riprese qui, qui, qui, qui, e qui. Mi chiederete voi: ma allora perché parlarne ancora una volta? Semplicemente perché ancora una volta delle Istituzioni pubbliche come un Ministero della Repubblica, una Università pubblica, una Regione ed un Comune hanno concesso il patrocinio per un convegno sulla biodinamica che si terrà a Firenze dal 26 al 29 Febbraio (qui).
Cosa vuol dire patrocinio?
Dalla Treccani on line possiamo leggere che il patrocinio è un “sostegno da parte di un’istituzione“. E quando si concede un sostegno? Quando si condividono i contenuti di una certa attività. Non c’è molto da aggiungere. Se io, Ministro o Rettore o Sindaco o altro rappresentante Istituzionale concedo un patrocinio è perché sono convinto della validità di certe attività e voglio legare la mia Istituzione alle predette attività. Cosa pensare, quindi? È possibile che un Ministero, una Università, una Regione e un Comune, attraverso la concessione del patrocinio, condividano i contenuti del convegno e, più in generale, approvino l’esoterismo alla base dell’agricoltura biodinamica? Secondo me no. Probabilmente, la concessione del patrocinio è avvenuta automaticamente senza che qualcuno si sia veramente reso conto di ciò che concedere il patrocinio ad un convegno del genere avrebbe potuto significare.
Ma non è finita. Al convegno prendono parte anche docenti universitari. Perché lo fanno? Probabilmente sono seguaci di Steiner oppure, più probabilmente, hanno una falsa idea del significato di libertà di ricerca e di scienza (ne ho parlato qui). Perché falsa? Faccio un esempio banale: non c’è bisogno di chiedere se chi mi legge conosce la differenza tra astronomia ed astrologia. La prima è una scienza, la seconda una favoletta sulla quale si basa la formulazione degli oroscopi. Si tratta della medesima differenza che esiste tra l’agricoltura attuale, basata sull’uso della scienza e delle tecnologie moderne, e la biodinamica, basata sulle idee di una specie di filosofo vissuto agli inizi del ‘900 e, praticamente, sempre uguale a se stessa.
Invocare libertà di scienza e ricerca pretendendo di dare pari dignità scientifica all’agricoltura moderna ed alla biodinamica è lo stesso che attribuire scientificità all’astrologia.
E’ mia opinione che gli accademici che con la loro attività sdoganano la biodinamica come pratica scientifica non facciano un buon servizio alla Scienza. Ovviamente ognuno è libero di fare ciò che vuole della propria dignità scientifica ed ognuno è libero di fare ricerca su qualsiasi cosa sia di proprio gradimento. Ciò che è importante è che non vengano impegnate risorse pubbliche per attività di ricerca che si fondano sull’esoterismo.
Come componente della Rete Informale Scienza e Tecnologie per l’Agricoltura (SETA), sono anche io tra i firmatari della lettera aperta che potete leggere qui sotto cliccando sulle immagini. In questa sede spieghiamo nei dettagli perché l’agricoltura biodinamica non può essere considerata scienza. Le nostre argomentazioni si basano esclusivamente sulla lettura dei disciplinari che devono seguire tutti coloro che vogliono usare il termine “biodinamica” sull’etichetta dei loro prodotti.
Davide contro Golia. Vi ricordate dell’Associazione per l’Agricoltura Biodinamica? Ne ho parlato qualche tempo fa quando ho evidenziato quali fossero le competenze di chi gestisce in Italia una delle più grandi aziende sull’agricoltura che segue i dettami esoterici di quel buontempone di Rudolf Steiner. L’articolo a cui faccio riferimento lo trovate qui sotto.
Devo dire che ultimamente la Rete Informale SeTA di cui faccio parte deve fare tanta paura al Dott. Triarico, presidente e responsabile dell’associazione anzidetta, dal momento che ci attacca ogni quando può. Sembra quasi di trovarsi di fronte a qualcuno che cerca in tutti i modi di attaccare briga per litigare. Noi abbiamo dalla nostra la Scienza, quella con la maiuscola, che ci consente di agire in scienza e coscienza.
Vi chiederete adesso perché questo articolo si intitola Davide contro Golia. Ebbene lo potete leggere nella lettera qui sotto. Buona lettura
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