Guardate la Figura 1. Interessante vero? Si tratta di alcuni dolcificanti di sintesi. Le loro strutture sono alquanto differenti le une dalle altre. Come è possibile che tutte quelle molecole stimolino la sensazione del “dolce”?
In base al principio secondo cui l’attività biochimica di una molecola dipende dalla sua struttura molecolare, ci si aspetterebbe che il sapore dolce possa essere dovuto alla similitudine strutturale delle molecole che costituiscono i dolcificanti. Ed invece non è così. Molecole dalla natura chimica molto differente mostrano tutte la medesima capacità dolcificante (in merito all’intensità del sapore dolce ho già scritto qui).
Ricordiamo che tutto quanto studiamo nei libri dei settori scientifici, in realtà, è controintuitivo. È vero che esiste la relazione biunivoca struttura-attività (ad una data struttura corrisponde quella attività biochimica ed una certa attività biochimica è dovuta ad una specifica struttura molecolare), tuttavia non è solo la forma della molecola che deve essere presa in considerazione per spiegare l’attività biochimica; occorre prestare attenzione anche ad altri fattori.
Una delle prime teorie ad essere state sviluppate per spiegare perché molecole dalle caratteristiche così differenti siano in grado di funzionare tutte come dolcificanti, è quella che prende il nome di “modello AH-B” (Figura 2).
I recettori presenti sulla nostra lingua sono caratterizzati dalla presenza di due gruppi funzionali di cui uno è un donatore di idrogeno (-AH in Figura 2) e l’altro è un accettore di idrogeno (-B in Figura 2). Il dolcificante è una molecola che contiene almeno due gruppi funzionali che hanno le stesse proprietà donatrici/accettrici di idrogeno dei gruppi presenti sulla superficie dei recettori.
Quando la molecola “dolcificante” si avvicina al recettore del sapore dolce presente sulla lingua, si formano due legami a idrogeno come quelli mostrati in Figura 2. È proprio alla presenza di questi due legami a idrogeno che è attribuibile il sapore “dolce”.
La Figura 3 mostra quali sono i gruppi funzionali di diverse molecole dolcificanti in grado di formare i legami a idrogeno summenzionati.
In realtà le cose sono un po’ più complesse di quanto descritto. Tuttavia, i meccanismi esatti del perché sentiamo il “dolce” o altre tipologie di sapori, non sono ancora ben chiari. Per avere più informazioni e delucidazioni approfondite, consiglio la lettura dei lavori ai link nel paragrafo “Per saperne di più”.
Vi siete mai chiesti perché ci sono alcune popolazioni che non sono in grado di sopportare l’alcol e si ubriacano velocemente? È tutta questione d biochimica ed, in particolare, del Molibdeno.
Il molibdeno è un metallo che ha una azione tossica. Pensate che solo 50 mg di tale metallo, assunti tutti assieme, sono in grado di uccidere un ratto. Nell’uomo pare che questo metallo agisca sulle funzioni epatiche portando ad iperbilirubinemia. Il Molibdeno è anche convolto nella sintesi dell’acido urico. Un eccesso di Molibdeno sembra legato all’accumulo di cristalli di acido urico nelle articolazioni con insorgenza di una patologia molto dolorosa: la gotta.
Nonostante la sua tossicità, il molibdeno è un metallo essenziale per il nostro organismo. Noi ne assumiamo circa 0.3 mg al giorno nella nostra dieta per un ammontare di circa 8 g nella nostra intera vita. Ebbene questo metallo è un cofattore di uno degli enzimi che ci consentono di metabolizzare l’alcol che ingeriamo.
L’alcol etilico viene prima trasformato in acetaldeide da un enzima che contiene zinco (alcol deidrogenasi); l’acetaldeide viene poi ossidata prima ad acido acetico da un enzima che contiene molibdeno (aldeide ossidasi) e poi ad anidride carbonica secondo lo schema riportato qui di seguito:
CH3CH2OH → CH3CHO → CH3COOH → CO2
L’anidride carbonica viene espulsa dal nostro organismo mediante la respirazione. Le reazioni descritte servono per ricavare l’energia necessaria per la nostra sopravvivenza dalla ossidazione dell’alcol etilico. Tuttavia, ci sono alcune popolazioni come quelle orientali, per esempio I giapponesi, che hanno quantità più basse di aldeide ossidasi. Per questo motivo non sono in grado di degradare velocemente come noi l’alcol e tendono ad ubriacarsi più velocemente di noi.
1763. Il reverendo Stone della Chiesa d’Inghilterra informa la Royal Society che un infuso da lui preparato con la corteccia del salice bianco (Figura 1) e somministrato ad una cinquantina dei suoi parrocchiani affetti da stato febbrile, ha funzionato molto bene nell’attenuare la febbre.
Tutto nasce durante una passeggiata
Il reverendo non sa perché l’infuso abbia funzionato, ma pare che l’idea per tale rimedio gli fosse venuta nel 1758 durante una passeggiata in un bosco. Per motivi non noti, fu indotto ad assaggiare la corteccia del succitato albero e notò una corrispondenza di sapori con quella dell’albero della febbre (si tratta del Cinchona) usata fin dall’antichità tra le popolazioni pre-colombiane per la cura di stati febbrili. Tale corrispondenza lo indusse a pensare che anche la corteccia del Salix alba potesse avere gli stessi effetti curativi, come effettivamente potè verificare.
Il principio attivo
Ciò che il reverendo Stone non poteva sapere era che il principio attivo nella corteccia dell’albero della febbre era differente da quello presente nella corteccia del salice bianco. Infatti, mentre nella prima era presente il chinino (Figura 2A), nella seconda era presente l’acido salicilico (Figura 2B).
Gli effetti collaterali
L’acido salicilico presenta gravi effetti collaterali dovuti al fatto che è un acido organico abbastanza forte (Figura 3). In particolare, esso è un potente irritante in grado di causare emorragie ed ulcere sia in bocca che nello stomaco.
Quando il nostro organismo subisce qualche lesione o viene invaso da microorganismi patogeni, si attiva una risposta che porta all’aumento nel circolo sanguigno della quantità di molecole che prendono il nome di prostaglandine, il cui precursore è l’acido prostanoico la cui struttura è in Figura 6. È la presenza delle prostaglandine che porta allo stato febbrile.
Sia l’acido salicilico che il suo derivato, acido acetilsalicilico, sono in grado di inibire l’attività degli enzimi coinvolti nella sintesi delle prostaglandine. La conseguenza è, quindi, la diminuzione della temperatura corporea.
Stamattina mi sono alzato, ho eseguito tutte le operazioni mattutine per consentirmi di svegliarmi (di sabato sono senza successo), sono andato dal barbiere a farmi radere quei quattro peli che mi son rimasti e poi sono andato al bar vicino casa per prendere un cappuccino.
Direte voi: “ma perché questo ci racconta sti fatti? Cosa interessa a noi di quello che fa la mattina e di quanti peli abbia?”
Un attimo e vi racconto.
Arrivo semisveglio al bar e, dopo aver chiesto la mia bevanda preferita a base di caffè e latte montato, l’occhio mi cade sul contenitore delle bustine di zucchero. Alcune di queste sono verdi. La prima cosa che penso, mettendo in funzione il neurone attivo nel fine settimana, è: “toh, guarda. Ci sono le bustine di zucchero steviolitico”.
Grande è la mia sorpresa quando prendo una di quelle bustine verdi e leggo che si tratta di zucchero ad alta solubilità.
Qui i miei sensi di chimico (come quelli di ragno di Peter Parker) si allertano. Cos’è sto zucchero ad alta solubilità?
Dovete sapere che sotto l’aspetto chimico, il concetto di solubilità si riferisce alla quantità massima di soluto che è possibile sciogliere in una prefissata quantità di solvente prima che il soluto cominci a precipitare.
Esistono zuccheri che hanno solubilità differenti. Per esempio, è possibile sciogliere in un litro di acqua circa 2 kg di saccarosio, circa 1 kg di glucosio, circa 3 kg di fruttosio e circa 7 g di lattosio. Insomma, a seconda di quella che è la natura chimica dello zucchero preso in considerazione è possibile sciogliere quantità differenti di prodotto nella stessa quantità di acqua.
Da chimico ho pensato: “zucchero ad alta solubilità…va bene…si tratta di fruttosio”. Poi però ho pensato: “un attimo…ma perché chiamarlo zucchero se nel linguaggio comune questo termine corrisponde al saccarosio? Perché il fruttosio non viene indicato come tale, dal momento che in questo modo possono venderlo ad un prezzo maggiorato?”.
A questo punto dopo aver fatto quattro chiacchiere col gestore del bar, gli chiedo se posso portare via una bustina di questo “zucchero ad alta solubilità”. Sono curioso. Voglio capire di cosa si tratta. Vado in laboratorio dove ho un po’ di strumenti che posso usare il sabato mattina senza colpo ferire.
La prima cosa che faccio è prendere una bustina di zucchero che usiamo per il caffè in laboratorio (Figura 1) e, dopo essere andato in giro per cercare un po’ di vetrini d’orologio, non faccio altro che pesare il contenuto delle bustine contenenti lo zucchero “normale” (l’aggettivo non vuol dire nulla chimicamente, ma mi serve solo per indicare lo zucchero che ho prelevato dal cassetto sotto la macchina da caffè in laboratorio) e quello ad alta solubilità.
Ognuna delle bustine contiene circa 4 g di prodotto (Figura 2).
L’ispezione visiva (in gergo laboratoriale noi diciamo “occhiometrica”) mi permette di vedere che lo zucchero “ad alta solubilità” è più finemente suddiviso rispetto a quello “normale” (Figura 3).
A questo punto comincio a pensare che il mio barista avesse ragione nel dire che si tratta di zucchero “normale” che però appare un po’ più impalpabile. Ma io sono un chimico e non mi fido delle parole. Già che sono in laboratorio posso usare lo spettrometro ad infrarossi (spettroscopia FT-IR) per registrare l’impronta digitale molecolare dei due prodotti.
La Figura 4 mostra i risultati dell’analisi. Le due impronte molecolari sono assolutamente identiche: si tratta di normale saccarosio. Ed allora perché stampare sulla bustina “alta solubilità”, dal momento che il saccarosio, indipendentemente dal contenitore in cui è racchiuso, ha sempre la stessa solubilità?
Qui entra il gioco l’uso scorretto dei termini chimici nel mondo del marketing. Ma andiamo con ordine.
La velocità con cui un soluto si scioglie in un solvente dipende dall’area superficiale del soluto. Più elevata è l’area superficiale, più velocemente avviene la solubilizzazione come conseguenza di un contatto più intimo tra soluto e solvente.
Il valore dell’area superficiale dipende dalla dimensione dei granuli del soluto. Più piccola è la dimensione di questi granuli, più alta è l’area superficiale e più velocemente avviene la solubilizzazione. In altre parole, il linguaggio del marketing si è appropriato del termine “solubilità”, che ho definito poco più su, per farlo diventare “velocità di solubilizzazione”.
Quindi secondo i “geni” del marketing, “alta solubilità” non vuol dire che nella stessa quantità di solvente posso sciogliere una quantità più elevata di soluto, ma significa che lo zucchero si scioglie più rapidamente.
Il sabato mattina, quando ancora non riuscite a capire se siete vivi o se deambulate come zombies solo per inerzia, è importante usare lo zucchero “ad alta solubilità”: fare tre giri di cucchiaino nel vostro caffè invece che quattro vi aiuta a risparmiare energia.
That’s all folks (e grazie al gestore del Cicì Coffee and Drink per le quattro chiacchiere che facciamo la mattina e per avermi regalato una bustina di questo zucchero “ad alta solubilità”)
Oggi mi sono imbattuto in un filmato molto divertente in cui due persone, dopo aver bevuto una birra all’elio, hanno cominciato a parlare con la voce di Paperino.
Ecco il filmato:
Divertente, vero?
Come mai quando respiriamo elio la nostra voce assume toni acuti?
Dovete sapere che l’emissione dei suoni è legata ad un meccanismo mediato dall’azione di corde vocali, faringe e bocca. Le prime, situate nella laringe (Figura 1), si avvicinano tra loro, si allontanano o vengono tese (insomma, vibrano) grazie all’azione di alcuni muscoli. Sono proprio le vibrazioni delle corde vocali a generare il suono che si propaga attraverso l’aria che respiriamo.
La frequenza del suono emesso da una sorgente che vibra è inversamente proporzionale alla radice quadrata della densità del mezzo in cui il suono si propaga. In altre parole, più denso è il mezzo, più bassa è la frequenza del suono. Più bassa è la densità del mezzo, maggiore è la frequenza del suono. Nel primo caso sentiamo suoni gravi, nel secondo sentiamo suoni acuti. Guardate il video qui sotto per conoscere meglio le caratteristiche dei suoni.
L’aria atmosferica, costituita da circa il 79% di azoto molecolare, il 20% di ossigeno molecolare e dall’1% di altri gas come anidride carbonica, argon etc., è mediamente otto volte più densa dell’elio. Questo vuol dire che il suono emesso dalle vibrazioni delle corde vocali attraversate dall’aria atmosferica ha una frequenza circa tre volte più bassa rispetto a quella del suono che si propaga attraverso l’elio (il “tre volte” viene fuori dal rapporto della densità dell’aria rispetto a quello dell’elio. La radice quadrata di 8 è 2.9, ovvero circa 3). La conseguenza di quanto appena scritto è che il suono che si propaga attraverso l’aria atmosferica è più grave di quello che si propaga attraverso l’elio. L’effetto finale quando respiriamo l’elio da un palloncino o beviamo birra addizionata di questo gas, come nel primo filmato di questa nota, è la caratteristica voce di Paperino.
Quando la luce colpisce un oggetto essa può essere assorbita, può attraversarlo o può essere riflessa. Le intensità della luce assorbita e di quella riflessa dipendono dalla lunghezza d’onda della luce incidente. In particolare, un qualsiasi oggetto che viene colpito dalla luce ordinaria ed assorbe tutte le radiazioni dello spettro luminoso visibile senza restituirne alcuna ai nostri occhi, appare nero; se riflette tutte le radiazioni dello spettro luminoso, il colore risultante dalla combinazione di tutte le radiazioni riflesse è il bianco; se l’oggetto assorbe solo un certo numero di radiazioni luminose tranne alcune, esso appare del colore generato dalla combinazione delle diverse radiazioni riflesse; se ad essere riflessa è una sola radiazione, l’oggetto appare del colore descritto dalla lunghezza d’onda della singola radiazione riflessa.
Cosa vuol dire “assorbimento della luce” a livello molecolare?
Quando la luce incide su un corpo, possono avvenire delle transizioni elettroniche. In altre parole, gli elettroni coinvolti nella formazione dei vari legami passano da un orbitale[1] ad un altro ad energia più elevata. Più vicini sono gli orbitali tra cui avviene la transizione elettronica e meno energia occorre perché essa avvenga. Nel caso di sistemi di natura organica, la distanza tra gli orbitali contigui tra cui avvengono le transizioni elettroniche si riduce all’aumentare del numero di doppi legami coniugati[2] presenti nelle molecole. Per questo motivo, molecole con un gran numero di legami coniugati sono in grado di assorbire gran parte della radiazione elettromagnetica e di conferire al macro-sistema in cui essi si trovano (per esempio i tessuti di una foglia oppure quelli di una carota) un colore corrispondente alla luce che viene riflessa. Per illustrare meglio questo concetto si faccia riferimento alla Figura 1. In essa si riporta, sull’asse orizzontale, lo spettro della radiazione elettromagnetica (la luce) tra circa 350 e circa 700 nm, ovvero nell’intervallo del visibile; sull’asse verticale si riporta la percentuale di assorbimento della radiazione luminosa; la curva arancione si riferisce all’assorbimento della luce da parte dei carotenoidi di cui un rappresentante, il β-carotene, è riportato in alto a sinistra. Si noti come i picchi di assorbimento siano compresi nell’intervallo 350-550 nm; la conseguenza è che la luce giallo-arancio (lunghezza d’onda, λ, > 550 nm) è quella che viene riflessa. Per questo motivo i tessuti vegetali che contengono i carotenoidi (per esempio le carote) appaiono arancioni.
Figura 1. Spettri di assorbimento dei carotenoidi e della clorofilla
La Figura 1 mostra anche i picchi di assorbimento della clorofilla-b la cui struttura è in alto a destra. Ci sono diversi massimi di assorbimento nell’intervallo tra 400 e 500 nm e tra 600 e circa 700 nm. Non c’è alcun assorbimento intorno ai 570 nm, ovvero la lunghezza d’onda della luce di colore verde. Il risultato è che i tessuti vegetali che contengono la clorofilla-b appaiono di colore verde. Quando la clorofilla si degrada, spariscono i massimi di assorbimento descritti e la colorazione delle foglie vira al giallo-arancio-rosso.
Ancora una volta la chimica mostra tutto il suo fascino. Fenomeni che possono sembrare magici hanno un significato riconducibile alle caratteristiche più intrinseche della materia. E la materia ci appare in tutta la sua poesia.
[1] Un orbitale è una zona dello spazio attorno al nucleo di un atomo in cui esiste la più elevata probabilità di poter trovare un elettrone in movimento.
[2] Senza prendere in considerazione la teoria dei legami chimici, per semplicità si può dire che i doppi legami coniugati sono doppi legami alternati tra diversi atomi di carbonio come nel seguente caso: -C=C-C=C-C=C-C=C-
Nel 2009 sono entrato nel mondo dei social network e da allora ho conosciuto tante persone, molte odiose, tante antipatiche, ma moltissime interessantissime oltre che simpaticissime. E’ questo il caso di Lele Pescia, Ivo Ortelli e La Iena Ridens che mi hanno ospitato nella loro trasmissione “Neandhertal Pride” a parlare di omeopatia.
Chi mi segue sa che mi sono interessato di questa pseudoscienza che fa tanti proseliti nel mondo. Se siete curiosi, qui trovate il link a quanto ho già scritto.
In realtà, siamo partiti dall’omeopatia per affrontare problematiche anche di carattere più generale.
Se avete perso la diretta e se siete interessati ad ascoltare la mia voce, cliccate qui sotto e vi si apriranno le porte del mio intervento di ieri in Neandhertal Pride
Vi ricordate di quando vi ho descritto il fuoco greco? No!? Beh, era a questo link. Si trattava di una miscela di composti chimici in grado di bruciare anche nell’acqua. Devo dire che la chimica della combustione è molto affascinante, soprattutto se questa innesca una serie di reazioni spettacolari come quelle che si osservano alla mezzanotte di ogni fine di anno con i famosi botti di capodanno.
Cerchiamo di capire cosa accade a livello chimico fisico quando giochi pirotecnici come quelli nel filmato qui sotto (che si riferisce ai fuochi della festa di Santa Rosalia a Palermo nel 2016) ci meravigliano per il loro effetto scenico.
I saggi alla fiamma
Dovete sapere che gli studenti di chimica al primo anno (almeno ai miei tempi. Oggi non so più come sono i programmi delle ex facoltà di Chimica) studiano i saggi alla fiamma. In soldoni, si tratta di indagini che ci consentono di identificare gli elementi chimici nelle miscele attraverso il riconoscimento di certi colori caratteristici.
Andiamo con ordine.
Quando il metallo contenuto in un sale disciolto in una soluzione acida viene posto ad alta temperatura sulla fiamma di un becco Bunsen (cosa sia e come si usa, lo potete vedere nel simpatico filmato qui sotto), subisce una transizione elettronica, ovvero i suoi elettroni passano da un livello energetico fondamentale ad uno eccitato. Quando gli elettroni ritornano nello stato fondamentale, emettono dei fotoni a delle lunghezze d’onda caratteristiche che noi riconosciamo come colori.
Ogni elemento chimico è in grado di colorare la fiamma del becco Bunsen in modo caratteristico. In Figura 1 si vede come il rame sia in grado di produrre una fiamma verde, il sodio giallo-arancio molto intenso, lo stronzio rosso vivo et che etc.
I giochi pirotecnici
Cosa c’entrano i saggi alla fiamma con i giochi pirotecnici? Beh, prendiamo in considerazione la polvere da sparo. Si tratta di una miscela contenente: carbone (C), nitrato di potassio (KNO3) e zolfo (S). Per effetto dell’innesco della combustione, i composti anzidetti reagiscono in un processo esotermico portando alla formazione di carbonato di potassio (K2CO3), solfato di potassio (K2SO4), solfuro di potassio (K2S), carbonato di ammonio ((NH4)2CO3), oltre a un insieme di gas tra cui anidride carbonica (CO2), azoto molecolare (N2), idrogeno molecolare (H2), acqua (H2O), acido solfidrico (H2S) e metano (CH4),
Se la polvere da sparo viene compressa in un volume piccolo, per esempio un tubo, la reazione di combustione non produce solo calore. Infatti, la rapida espansione dei gas anzidetti produce anche un forte rumore che noi siamo abituati a chiamare “botto”. Se la polvere da sparo viene miscelata con i sali di metalli quali il titanio, il calcio, il litio, l’antimonio, il sodio, il rame, il bario etc. all’esplosione, dovuta alla rapida espansione dei gas, si associa anche una colorazione dovuta al fatto che, grazie alle alte temperature raggiunte durante la reazione, i metalli anzidetti emettono luce che noi percepiamo con i tipici colori illustrati nel paragrafo sui saggi alla fiamma.
Nelle mie lezioni di chimica del suolo c’è una parte del programma che riguarda la chimica dei colloidi. Ogni anno accademico, quando descrivo i colloidi del suolo, alleggerisco la lezione facendo esempi di sistemi colloidali nella vita di tutti i giorni discutendo, tra le altre cose, della schiuma del cappuccino.
Ma andiamo con ordine.
Cos’è un sistema colloidale?
Un sistema colloidale si definisce tale solo in base alle dimensioni delle particelle di soluto che lo costituiscono. Qui sotto una tabella in cui si riportano le dimensioni delle particelle di soluto che ci consentono di distinguere tra soluzioni vere, dispersioni colloidali e sospensioni solide
Sistemi chimici Dimensioni delle particelle di soluto
Soluzioni vere < 2 x 10-9 m (ovvero < 2 nm)
Dispersioni colloidali tra 2 x 10-9 e 2 x 10-6 m (cioè tra 2 nm e 2 μm)
Sospensioni solide > 2 x 10-6 m (ovvero > 2 μm)
Un sistema colloidale può essere del tipo liquido-solido (come, per esempio, nel caso della soluzione suolo in cui i minerali argillosi, delle dimensioni indicate in tabella, sono disperse nell’acqua dei suoli), liquido-liquido (come, per esempio, nel caso delle microgoccioline di olio disperse in acqua o della maionese), gas-liquido (come, per esempio, nel caso della panna montata, dei gelati o del cappuccino, di cui si dirà fra poco) e gas-gas (come, per esempio, nel caso della dispersione di microgocce di acqua in aria così da costituire la nebbia).
Per convenzione si ritiene che una dispersione colloidale sia stabile quando il tempo di flocculazione è > 2 h, ovvero se ci vogliono più di due ore prima che cominci la flocculazione. Quest’ultima consiste nel processo di aggregazione delle diverse particelle colloidali che, dopo il raggiungimento di certe dimensioni limite, risentono più della forza di gravità che delle forze di dispersione. Nel caso di particelle colloidali cariche elettricamente, le forze di dispersione sono le repulsioni elettrostatiche e le dispersioni vengono indicate come elettrocratiche. Nel caso di soluti neutri, le forze di dispersione dipendono dalle interazioni soluto-solvente e le dispersioni vengono indicate come solventocratiche.
La schiuma del cappuccino
Alla luce delle poche cose scritte, si evince che la schiuma del cappuccino è una dispersione colloidale di un gas in un liquido. Il liquido è il latte usato per il cappuccino, mentre il gas è costituito dall’aria e dal vapor d’acqua usati per montare il latte. Le goccioline di aria possono formare una dispersione colloidale nel latte grazie alla presenza in esso di surfattanti1, ovvero di molecole in grado di abbassare la tensione superficiale2 del liquido in cui esse sono presenti. La caratteristica chimica più importante dei surfattanti è l’anfifilicità, ovvero la presenza nella struttura sia di gruppi idrofili che di gruppi idrofobi. Nel latte queste molecole sono le proteine (di cui le caseine rappresentano l’80% del totale proteico) ed i fosfolipidi (che mediamente sono lo 0.8% della massa grassa).
Quando il latte viene insufflato col vapore acqueo mediante l’utilizzo di una tipica macchina da bar (Figura 1), si forma una schiuma in cui goccioline di gas delle dimensioni comprese tra 2 nm e 2 μm sono disperse nel mezzo liquido.
La stabilità di questa schiuma dipende dalla concentrazione relativa di surfattanti. Più essa è elevata, più la schiuma è stabile, ovvero le goccioline di gas non si uniscono a formare gocce più grandiche si allontanano dalla bevanda3. È per questo motivo che più è bassa la concentrazione di grassi come i trigliceridi che non sono surfattanti e rappresentano circa il 90% della massa grassa del latte, e più persistente è la schiuma o “cappuccio” del caffé. Tuttavia, l’uso del latte scremato o parzialmente scremato produce un cappuccino non molto gustoso; è meglio usare un latte intero per avere una bevanda migliore in termini di sapore, sebbene con una schiuma meno persistente.
È importante la temperatura del latte?
Chi ha familiarità con la chimica, come i miei studenti, avrà sicuramente sentito dire che la solubilità di un gas in un liquido dipende sia dalla pressione esercitata dal gas sulla superficie del liquido che dalla temperatura.
Più alta è la pressione del gas sulla superficie del liquido, maggiore è la quantità di gas disciolta (Figura 2).
All’aumentare della temperatura la quantità di gas disciolto in un liquido diminuisce (Figura 3).
Alla luce di quanto appena scritto, appare chiaro che per avere una schiuma consistente per il cappuccino occorre sciogliere quanto più gas possibile. Questo si può realizzare se il latte viene preso direttamente dal frigorifero e se il bricco entro cui si prepara la schiuma è freddo.
Quanto appena scritto è la lezione di chimica del cappuccino che faccio ad ogni barista nuovo che si mette dietro al bancone nel bar di fronte al mio dipartimento. Lo so, sembro arrogante, ma ci tengo a bere un buon cappuccino la mattina. Il latte e caffè me lo faccio da solo a casa e non ho bisogno del bar per questo. Buon cappuccino a tutti
Note
Per quei chimici che hanno il vezzo del purismo della lingua italiana: il termine “surfattante”, anche se non piace, esiste nel dizionario di italiano ed è sinonimo di “tensioattivo”. Esso è entrato nell’uso comune e non è più da considerarsi errore o cattiva traduzione dell’inglese surfactant che è l’acronimo di surface active agent. (Surfattante nel dizionario Treccani)
La locuzione “tensione superficiale” si riferisce alle forze di coesione che, all’interfaccia liquido-gas, tengono unite le molecole del liquido alla superficie del liquido stesso. In termini quantitativi, la tensione superficiale è la forza necessaria a tener uniti i lembi di un ipotetico taglio fatto sulla superficie del liquido. All’aumentare della temperatura, le forze di coesione che tengono unite le molecole alla superficie del liquido diminuiscono di intensità e la tensione superficiale diminuisce.
Le microparticelle di soluto tendono ad unirsi ed a formare aggregati a dimensione progressivamente maggiore per diminuire l’area superficiale a contatto col mezzo liquido in cui esse sono insolubili. Per questo motivo, nel tempo, tutte le dispersioni colloidali tendono a subire una separazione di fase: le emulsioni olio-acqua tendono a formare una fase acquosa sul fondo ed una fase organica sulla superficie; la maionese tende a formare uno strato di olio superficiale per effetto della separazione di quest’ultimo dalla fase acquosa; le sostanze umiche (acidi umici, fulvici ed umina) tendono ad aggregarsi ed a flocculare; etc etc.
Quante volte ho letto che un certo lavoro non è attendibile perché pubblicato su una rivista poco importante o su una rivista che viene considerata predatoria?
Certo. E’ importante che i risultati del proprio lavoro vengano accettati da una rivista che sia significativa per la comunità scientifica di riferimento. E’, altresì, importante che i risultati di una ricerca vengano pubblicati il più velocemente possibile perché la competizione tra gruppi di ricerca è talmente elevata che basta un niente per perdere la primogenitura su una determinata scoperta scientifica. E’ per questo che nascono archivi come arXiv che consentono di archiviare i risultati di una ricerca prima ancora che essi vengano pubblicati. Il limite di questi archivi è che il lavoro lì depositato non necessariamente può vedere la luce. Può accadere che rimanga lettera morta e che, di conseguenza, di esso rimanga traccia solo su quel data base. Non tutto quanto presente negli archivi digitali che attestano della primogenitura di un dato modello, è da prendere in considerazione perché non tutto quanto ha passato il vaglio della comunità scientifica di riferimento.
“Passare il vaglio della comunità scientifica di riferimento” non significa che un dato modello viene accettato perché rispecchia il modo di pensare in auge in quel momento; questa locuzione vuol dire che quando un lavoro arriva nelle mani di referenti/revisori anonimi, questi verificano la congruità delle ipotesi formulate con il disegno sperimentale e la congruità dei risultati ottenuti con le conclusioni che sono state tratte. Non è possibile per i referenti/revisori riprodurre esattamente gli stessi esperimenti di cui leggono, perché questi ultimi richiedono finanziamenti ad hoc e strumentazioni che non tutti i laboratori possono avere a disposizione. Inoltre, riprodurre gli esperimenti significa per i referenti/revisori cambiare lavoro, ovvero dedicarsi ad altro e non alla ricerca che hanno deciso di portare avanti.
Prendete me, per esempio. Solo per il 2017 (ed Ottobre è appena iniziato) ho fatto da referente/revisore per 15 lavori ed almeno altrettanti ho rifiutato di giudicare per mancanza di tempo. Se volessi mettermi a fare tutti gli esperimenti dei lavori che ho giudicato, non avrei tempo per portare avanti le mie ricerche e la mia didattica. Quello che faccio è, quindi, cercare di capire quanto ho appena scritto: verifico la congruità delle ipotesi formulate con il disegno sperimentale e la congruità dei risultati ottenuti con le conclusioni che sono state tratte
Ma veniamo al punto.
Più volte ho evidenziato che non il contenitore (la rivista), bensì il contenuto (ovvero i risultati della ricerca) è importante perché un modello scientifico possa essere considerato valido (per esempio qui).
La storia della scienza è piena di esempi di contenuti dall’importanza notevole, in termini di progressione delle conoscenze, ma pubblicati in contenitori poco noti; ma è anche piena di esempi di contenuti di nessuna o scarsa importanza presenti in contenitori molto prestigiosi.
Volete qualche esempio?
Cosa dire del lavoro di Benveniste sulla memoria dell’acqua pubblicato su Nature e sconfessato dagli stessi editor ad un approfondimento successivo? Ne ho parlato qui. E del lavoro di Wakefield in merito all’inesistente correlazione vaccino-autismo vogliamo parlare? E’ stato pubblicato, e poi ritirato, dalla prestigiosissima rivista The Lancet. Ne ho discusso qui.
Recentemente mi è capitato di leggere un breve articolo su www.sciencealert.com in cui è stata ripercorsa la storia di otto lavori che descrivono scoperte scientifiche che sono valse il premio Nobel agli autori.
Sapevate, per esempio, che Nature, nel 1933, ha rifiutato il lavoro di Enrico Fermi in merito alle interazioni deboli poi pubblicato nel 1934 su una rivista molto meno prestigiosa dal nome “Zeitschrift für Physik” oggi scomparsa? L’articolo in questione è qui (in tedesco).
Anche la scoperta di un meccanismo importantissimo in ambito biochimico ed alla base della vita, non è stato pubblicato da Nature perché in quel momento la rivista era fin troppo satura di lavori da pubblicare ed avrebbe dovuto posporre la pubblicazione di tale scoperta a tempi migliori (Figura 1). Mi riferisco al lavoro fondamentale di Hans Adolf Krebs che nel 1953 ha ricevuto l’ambito riconoscimento per aver scoperto il ciclo dell’acido citrico.
Il lavoro fu poi inviato ad una rivista meno prestigiosa (Enzymologia) che lo pubblicò nel 1937 (qui). Se volete leggere il lavoro originale, lo potete scaricare da qui.
Chi mi conosce sa che nella mia attività di ricerca mi interesso delle applicazioni in campo ambientale delle tecniche di risonanza magnetica nucleare. Tra i miei idoli c’è sicuramente Richard Ernst che nel 1991 ha vinto il premio Nobel per il suo contributo allo sviluppo della tecnica NMR. Ernst ha applicato la trasformata di Fourier ai decadimenti che descrivono il comportamento ad oscillatore smorzato della magnetizzazione nucleare, generata dall’applicazione di campi magnetici aventi certe intensità, stimolata da radiazioni elettromagnetiche aventi lunghezza d’onda nel campo delle radiofrequenze. Lo so ho parlato difficile. In altre parole, Ermst ha capito che poteva trasformare qualcosa di incomprensibile come quanto indicato in Figura 2:
in qualcosa di più facilmente leggibile come lo spettro di Figura 3:
Il lavoro che descrive la scoperta di Ernst fu rifiutato dal Journal of Chemical Physics e fu pubblicato sul meno prestigioso Review of Scientific Instruments. Il lavoro di Ernst è qui. Invece, a questo link trovate la lezione che Ernst ha fatto all’Accademia delle Scienze quando ha ricevuto il premio.
Conclusioni
La storia della scienza ci insegna che non dobbiamo tener conto del prestigio di un giornale. Ciò che importa è il valore del contenuto di un rapporto scientifico. Un lavoro è ottimo sia che venga pubblicato su una rivista altamente impattata, sia che venga pubblicato su una rivista sconosciuta. Un lavoro è sciocchezza sia che venga pubblicato su Nature o che venga accettato per la pubblicazione sulla rivista del vicinato. Gli addetti ai lavori, coloro che guardano ai contenuti piuttosto che alla copertina, lo sanno ed è per questo che leggono di tutto. La grande idea, quella che può essere alla base della rivoluzione scientifica, si può nascondere anche tra le righe di un lavoro pubblicato su una rivista sconosciuta.
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