È con enorme piacere che informo i miei lettori di avere avuto il grande onore di essere stato incluso nel Comitato Scientifico dell’Osservatorio Buona Sanità.
Cos’è l’Osservatorio Buona Sanità?
Si tratta di un progetto finalizzato non solo alla corretta divulgazione scientifica ma anche alla raccolta di informazioni relative alla buona pratica medica che viene eseguita in tutti gli ospedali e che, purtroppo, riceve sempre una bassa visibilità mediatica.
Oggi è diventato fin troppo facile evidenziare solo le notizie che inseguono la pancia della gente solo per vendere una copia o avere un click in più in grado di portare un ritorno economico ai giornali (o pseudo tali) che pretendono di fare corretta informazione. Meno facile, invece, è sentire degli episodi di buona sanità di cui io stesso nella mia vita sono stato testimone. E mi riferisco ai reparti oncologici dell’Ospedale civile di Caserta e del Sant’Eugenio di Roma il cui personale ha aiutato noi familiari nella cura e nel sostegno verso il loro ultimo viaggio (so di essere molto pomposo ma mi serve per mantenere la freddezza mentre scrivo) prima mio padre (Ospedale civile di Caserta) e poi mia madre (Sant’Eugenio di Roma).
Sono onorato di essere incluso nel Comitato Scientifico dell’Osservatorio Buona Sanità anche perché sono l’unico chimico in mezzo a tantissimi medici ai quali dovrò chiedere molto aiuto per la comprensione dei testi di carattere medico che verosimilmente mi troverò a leggere e commentare. A oltre trenta anni di distanza probabilmente si realizza il sogno dei miei genitori che avrebbero desiderato avere un figlio medico, professione alla quale mi sono sempre opposto nel momento stesso in cui è nata in me la passione per la chimica (che io ricordo risalire ai tempi della prima liceo – correva l’anno 1982 – quando ebbi tra le mani la prima edizione della Chimica di Mario Rippa). Respirare aria medica non fa di me un medico, ovviamente. Ma essere parte dell’Osservatorio Buona Sanità è quanto di più vicino alla medicina io possa ritenere di essere giunto, considerando la mia passione e la mia propensione per la chimica.
A questo punto non mi resta altro da fare che invitarvi a visitare la pagina web dell’Osservatorio Buona Sanità che potete trovare qui sotto (basta cliccare sull’immagine)
e la pagina facebook che trovate qui sotto (cliccare sull’immagine)
Non lo faccio spesso, ma qualche volta ci sono articoli da altri blog che mi colpiscono molto favorevolmente. Questa volta condivido tutti i contenuti che AndreaGrignolio riporta in un suo articolo su Wired in merito al significato di “divulgazione scientifica” ed a cosa c’è di sbagliato nelle azioni dei divulgatori scientifici di professione.
Devo dire che tra i cosiddetti divulgatori professionisti è nato un nuovo sport (non so se diventerà una disciplina olimpica) che può essere indicato come “tiro al Burioni”.
Come nota il Prof. Grignolio nel suo articolo, oggi, più che concentrarsi sull’efficacia della comunicazione, che dipende in primis dal contenitore in cui il messaggio è veicolato, dal target a cui il messaggio è diretto (ovvero a chi si intende comunicare) e dal contesto storico culturale del momento, i cosiddetti comunicatori professionisti si concentrano “sullo stile [comunicativo di Burioni] in modo strumentale per attaccare l’autore del messaggio, confondendo cioè il messaggio con il messaggero”. Ciò che, quindi, appare è un indebolimento del messaggio che gli stessi comunicatori intenderebbero veicolare.
Ma non vi tedio più di tanto. Vi invito, invece, a leggere l’articolo completo al link qui sotto. Buona lettura.
Per una volta uso il mio blog per dar voce ad un documento che un certo numero di imprenditori agricoli e colleghi accademici, alcuni dei quali conosco personalmente, ha sottoposto all’attenzione dei nostri rappresentanti nel Parlamento della Repubblica. Si tratta di un documento che evidenzia tutti i limiti della cosiddetta agricoltura biologica, in cui ricade anche quella pratica esoterica che viene indicata come agricoltura biodinamica di cui ho parlato anche qui nelle famose sette domande ai firmatari della lettera aperta sulla libertà della scienza, alle quali Enrico Bucci ed io attendiamo ancora risposta.
Di agricoltura biologica, nel mio piccolo, ho discusso anche io in due documenti (qui e qui), uno dei quali era la lettera della Professoressa Cattaneo in risposta alle farneticazioni scritte da Michele Serra, noto giornalista italiano.
Nel documento inviato ai parlamentari, i firmatari (a cui mi sono appena aggiunto anche io) evidenziano come la migliore pratica agricola sia quella ottenuta dall’integrazione di tutte le migliori tecnologie al momento disponibili. Non voglio fare lo spoiler di questo documento che invito a leggere e firmare qui o cliccando sulla figura sottostante.
Quando scrivo nel blog cerco di fare chiarezza su argomenti di cui penso di capire qualcosa. Non mi aspetto di avere successo. In genere non so a quante persone arrivi il mio messaggio e se esso sia più o meno chiaro. Ho il polso della situazione solo se c’è un contatto diretto attraverso lo scambio di messaggi che sostituiscono l’interazione faccia a faccia che normalmente ho con gli studenti nella mia attività didattica. Molte volte mi scrivono persone che sono più esperte di me in un dato argomento e mi correggono. A queste persone sono molto grato perché non faccio altro che imparare cose nuove, esattamente come imparo, anno dopo anno, in che modo insegnare le mie materie dal confronto diretto con gli studenti.
Non mi sarei mai aspettato che il breve articolo in cui ho confutato alcune sciocchezze scritte dal Sig. Serra, giornalista votato alla difesa dell’agricoltura biologica e biodinamica ma senza avere basi scientifiche, sarebbe stato letto addirittura dalla Professoressa e Senatrice della Repubblica Elena Cattaneo.
Questa l’immagine della lettera arrivatami dal Senato della Repubblica
La risposta molto articolata della Professoressa Cattaneo è una lezione utilissima per comprendere in che cosa consista il lavoro di uno scienziato.
Uno scienziato non dice cose a caso inseguendo la pancia delle persone come fa il giornalista Serra.
Uno scienziato serio prima di scrivere/parlare studia e si documenta. Ogni sua affermazione è seguita da uno o più riferimenti così da fare in modo che il lettore possa rifarsi alle fonti originali e verificare per proprio conto le argomentazioni di chi scrive.
Serra, approfittando della sua posizione dominante in seno al giornalismo italiano, si permette di scrivere in modo superficiale tutto quello che gli passa per la testa usando affermazioni generaliste e parole prese dalla comunicazione scientifica da cui sottrae ogni possibile significato.
Come riportavo nel mio articolo (qui), non ci vuole molto a scrivere sciocchezze in poche righe. Ci vuole molto lavoro, dedizione e fatica per confutare le sciocchezze scritte da chi intende essere il “masaniello” della pancia dell’opinione pubblica.
La risposta della Professoressa Cattaneo alle argomentazioni di Serra è la prova di quali siano i sacrifici che uno scienziato deve affrontare quando una persona senza alcuna autorevolezza scientifica afferma delle corbellerie.
Al link qui (o anche cliccando sull’immagine sotto) le argomentazioni dettagliate della Professoressa Cattaneo al giornalista Serra.
Invito tutti a leggerle e diffonderle.
Fonte dell’immagine di copertina: archivio personale
In questi giorni si leggono tanti soloni discettare di dogmatismo scientifico perché il mondo accademico, almeno una parte consistente di esso, bolla come pseudoscientifiche le elucubrazioni esoteriche di chi cerca di ammantare di scientificità la pratica agricola che va sotto il nome di biodinamica®. Ricordo brevemente che si tratta di una pratica che si basa sulle concezioni filosofiche di Rudolf Steiner, vissuto tra il 1861 ed il 1925, il quale dettò alcune regole per la produzione alimentare che avevano come obiettivo l’equilibrio “spirituale” tra l’uomo e la Terra. Non è questo il momento per evidenziare le sciocchezze di Steiner. Ne ho scritto qualcosa qui e recentemente, assieme ad Enrico Bucci, ne ho parlato anche qui. Voglio, piuttosto, centrare l’attenzione sul fatto che i soliti redivivi Giordano Bruno e Galileo Galilei pensano di essere innovativi e che la scienza ufficiale brutta e cattiva si opponga alle loro novità per motivi economici o di arrivismo carrieristico. Tralasciando queste accuse che qualificano solo chi le fa, è da un po’ di tempo che non racconto di novità in ambito scientifico. Oggi voglio raccontarvi di nuove scoperte che la chimica – sì, proprio quella che produce le tanto vituperate sostanze tossiche (qui, per esempio) – sta facendo per aiutare la produzione agricola.
Chi mi segue sa che qualche volta ho parlato delle grandi scoperte scientifiche. Tra queste bisogna certamente annoverare il processo Haber-Bosch grazie al quale è possibile convertire l’azoto molecolare in ammoniaca.
Vi chiederete: embé?
Da un punto di vista chimico, l’azoto molecolare (N2) è una delle molecole più stabili (ovvero irreattive) che esistano in natura. L’energia di dissociazione della molecola di azoto è di circa 900 kJ mol-1. Ai non chimici questa informazione quantitativa è inutile. Vediamo di trasformarla in qualcosa di più comprensibile.
La reazione del processo Haber-Bosch (che potete trovare descritta qui) è:
N2 + 3H2 = 2NH3
Per ottenere questa conversione attualmente bisogna operare a 500 °C (contro i 600 °C del processo originario) e 150 bar (contro i 300 bar del processo originario). In altre parole, occorre una temperatura particolarmente alta (voi mettereste la mano nel piombo o nel rame fusi? Ecco…neanche io. 500 °C è una temperatura alla quale sia il rame che il piombo sono in fase liquida) ed una pressione altrettanto drastica (150 bar corrispondono approssimativamente alla pressione esercitata dall’acqua quando scendiamo ad una profondità di circa 1500 m).
L’importanza di questa reazione è legata al fatto che l’aria che noi respiriamo è costituita per l’80 % di azoto molecolare che è, quindi, disponibile a basso costo. La conversione Haber-Bosch consente di ottenere ammoniaca dalla quale poter, poi, sintetizzare molecole quali il solfato di ammonio che vengono usate, tra l’altro, per arricchire di azoto disponibile i suoli. Ricordo che l’azoto è un elemento importantissimo non solo per l’uomo, ma anche per le piante – ed in generale per tutti gli esseri viventi. Il motivo è che esso è presente in molecole come DNA e RNA, e nel nostro corredo proteico. Una carenza di azoto porta le piante a condizioni di stress in quanto esse non sono in grado di sintetizzare le predette molecole. Vi renderete conto, quindi, che l’uso di concimi a base di azoto è estremamente importante per conservare la fertilità dei suoli (che è la capacità di un suolo di sostenere la vita) e consentire la produzione alimentare per fornire sostentamento alla popolazione mondiale attualmente ancora in crescita.
Ebbene, fatta questa lunga premessa su un processo chimico oggi molto importante per le sue implicazioni in agricoltura, veniamo alla novità (l’articolo originale è qui. Se non avete possibilità di accesso a JACS, potete leggerne un riassunto qui).
Ricercatori statunitensi si sono messi a studiare in modo sistematico un fenomeno dall’apparente non riproducibilità.
Circa 75 anni fa si osservò che il biossido di titanio (TiO2), un composto inorganico usato come catalizzatore nella chimica verde, come sbiancante nelle vernici e nei dentifrici, nella forma allotropica indicata come rutilo (Figura 1) riesce a convertire l’azoto molecolare in ammoniaca secondo lo schema riportato più su in condizioni molto blande, ovvero temperatura e pressione ambiente.
Il fenomeno veniva osservato solo saltuariamente. Tuttavia, nel tempo un certo numero di ricercatori ha condotto studi computazionali dai quali si è evinto che la non ripetibilità della conversione era legata al fatto che centro dell’attenzione nell’ottenimento del biossido di titanio era un prodotto con elevato grado di purezza. Quando tracce di impurezze carboniose erano presenti sulla superficie del catalizzatore, esso funzionava ottimamente a temperatura e pressione ambiente per convertire azoto molecolare in ammoniaca. Nel lavoro su JACS (una delle riviste più autorevoli della American Chemical Society) sono riportate finalmente le prove sperimentali di quanto ottenuto attraverso la computazione.
Qual è la morale di questa storia. I “bufalari” sono usi opporsi alla scienza perché definiscono gli scienziati chiusi nelle loro posizioni dogmatiche. Questi ignoranti ed arroganti neanche si rendono conto che se un fenomeno non viene osservato, non c’è nessun motivo per studiarlo. Quali ipotesi si dovrebbero formulare se il fenomeno semplicemente non esiste? Invece, la conversione di azoto in ammoniaca, sebbene saltuaria, era evidente. Bisognava solo capire quali fossero le condizioni necessarie a rendere ripetibile e riproducibile il fenomeno. Una volta individuate queste condizioni, si è ottenuta la fissazione dell’azoto in modo più conveniente del processo Haber-Bosch. Si tratta ora solo di replicare lo studio in laboratori indipendenti e ingegnerizzate il tutto in modo da produrre fertilizzanti a costo molto più basso dell’attuale.
Altro che le scemenze sulla biodinamica o sulla agro-omeopatia che esistono solo nella testa dei seguaci di queste pseudoscienze.
Ormai anche le dolomiti sanno che sono un chimico; sanno anche che sono alquanto irritabile quando leggo certe cose. E guardando alla foto di Figura 1 mi sono irritato non poco.
La dottoressa scrive: “i dolcificanti artificiali, che sono chimici e tossici”.
Cosa vuol dire che i dolcificanti artificiali sono chimici? Forse che il saccarosio (ovvero quella polverina bianca che usiamo per dolcificare il caffè al bar) non è inquadrabile come un composto chimico? Ed il fruttosio? E tutti gli altri zuccheri? Non sono forse anche essi composti chimici? Ma, del resto, esiste un qualche composto nell’intero universo che possa essere definito come “non chimico”? Anche le rocce che sono su Marte sono composti chimici.
Ancora una volta il termine “chimico” viene usato male.
Come sto ripetendo fino alla nausea da un po’ di tempo a questa parte, la chimica è una forma di conoscenza. Come questa conoscenza possa essere utilizzata è ben altro. Non voglio ripetermi per l’ennesima volta. Vi invito a leggere le interviste che ho rilasciato a “La medicina in uno scatto” (qui) e Gravità Zero (qui) oppure l’intervista che è apparsa su Il Sole 24 Ore (qui).
Il linguaggio popolare
Capisco che per le persone che non sono abituate al linguaggio scientifico il termine “chimico” voglia dire “di sintesi”, ovvero fatto in laboratorio. Ma il fatto che un composto chimico sia fatto in laboratorio non vuol dire che esso sia necessariamente tossico. Nella intervista a “La medicina in uno scatto” (qui) faccio l’esempio della nitroglicerina che è un composto che non esiste in natura; può essere usato come esplosivo (e di fatto è l’ingrediente della dinamite), ma anche come medicinale, dal momento che il suo sottoprodotto di degradazione nell’organismo umano è un ottimo vasodilatatore e viene usato come farmaco antianginoso. Questo è solo uno dei tanti esempi che si possono fare. Un altro è l’insulina. Fino a una cinquantina di anni fa, l’insulina (sì, quel famoso ormone la cui carenza è legata all’insorgenza del diabete) era isolata dal pancreas animale (in particolare del maiale). Il suo grado di purezza non era sufficiente a garantirne una completa innocuità perché gli individui che assumevano questo prodotto di origine animale potevano rispondere negativamente alle impurezze in esso contenuto. Oggi l’insulina è fatta in laboratorio (mediante l’uso di organismi geneticamente modificati, sì, proprio i bistrattati OGM) ed il suo grado di purezza assicura agli esseri umani un ottimo grado di tollerabilità. Oggi i diabetici possono condurre una vita “normale” fino a tarda età facendo ovviamente attenzione a ciò di cui si alimentano e facendo uso costante di questo farmaco di sintesi.
I dolcificanti di sintesi
Ed ora ritorniamo ai dolcificanti di sintesi. Sono tossici? Non più di quanto lo sia un qualsiasi altro alimento. Ne parlo molto dettagliatamente nel mio libro “Frammenti di Chimica“, ma ne ho parlato anche diverse volte in un mio reportage sui dolcificanti. Per esempio qui parlo dell’acesulfame K, qui della “tossicità” dello zucchero raffinato (ma ne parlo anche nell’intervista a Gravità Zero, qui), qui parlo della saccarina, qui dell’aspartame. Insomma, la “tossicità” degli edulcoranti di sintesi è una leggenda. È ovvio che se assumiamo quantità enormi di un qualsiasi dolcificante, questo bene non fa. Il trucco è tutto nella moderazione e nella variabilità alimentare.
Metabolismo veloce; metabolismo lento
Altro punto che mi lascia perplesso, e molto, è il concetto di “accelera il metabolismo”. Il metabolismo è una complessa serie di reazioni chimiche dalle quali traiamo la nostra capacità autopoietica (per approfondire ne ho già parlato in passato qui e qui). Il metabolismo (la cui complessità è in Figura 2) non può essere inteso come un’automobile che accelera quando pigiamo sul pedale dell’acceleratore o rallenta quando pigiamo il pedale del freno.
Le reazioni metaboliche vanno in una direzione o nell’altra a seconda delle attività che svolgiamo durante la giornata. “Accelerare” o “rallentare” il metabolismo è un non-senso biochimico; in altre parole non significa nulla. L’uso di questi termini non fa altro che alimentare dei miti e delle leggende popolari che, a loro volta, posso generare bufale.
Come difendersi dalle bufale?
L’educazione alla scienza, la difesa dalle bufale, passa anche dal modo con cui noi professionisti del settore usiamo le parole. Non possiamo, noi, abbassarci al linguaggio popolare. Dobbiamo fare in modo che il linguaggio popolare venga dismesso e le parole vengano usate nel modo opportuno. Questo lo possiamo fare solo se noi tutti ci impegniamo nella corretta divulgazione ed educhiamo il salumiere, la massaia, il professionista che è fuori dal contesto scientifico, all’uso corretto delle parole che appartengono al nostro mondo.
In Figura 1 si riporta il programma completo col titolo degli interventi.
Obiettivo dell’evento è stato quello di avvicinare il mondo accademico alla società civile per far comprendere in cosa consista il lavoro scientifico e in che modo poter riconoscere le fake news (o bufale, che dir si voglia). Tra i partecipanti oltre a professionisti di ogni settore, anche tantissimi studenti (Figura 3).
È stata una grande soddisfazione vedere un numero così elevato di studenti. Questo vuol dire che anche le menti più giovani sono curiose ed hanno voglia di apprendere i meccanismi attraverso cui si possono riconoscere le pseudoscienze così da poter dare esse stesse un contributo attivo alla lotta contro maghi, imbonitori e truffatori.
L’evento è stato condiviso in diretta streaming dalla pagina facebook della C1Vedizioni.
Qui di seguito trovate i filmati caricati sul mio canale YouTube personale delle singole presentazioni. Nello stesso canale potete anche trovare lo streaming completo nel caso aveste voglia e tempo di (ri)vivere tutte le emozioni e gli errori tecnici che, inevitabilmente, accompagnano l’organizzazione di un evento complesso come un Workshop.
Introduzione della Dr.ssa Tocci e intervento del Prof. Giorgio Dobrilla
Medicina insolita nell’era 2.0
Intervento del Prof. Silvano Fuso
Chimica buona e chimica cattiva
Intervento del Dr. Armando De Vincentiis
Scienza e autoinganni
Intervento del Prof. Roberto Burioni
I vaccini, la scienza e le bugie
Intervento del Prof. Francesco Cappello
Il ruolo dell’anatomia umana nella battaglia contro la pseudoscienza
Intervento del Prof. Gugliemo Bonaccorsi
Prevenire le bufale con l’Health Literacy
Intervento del Dr. Nino Cartabellotta
Miti, presunzioni ed evidenze: un mix di ingredienti e le fake news sono servite!
Intervento del Dr. Sergio Saia
Le bufale scientifiche sul frumento e sui derivati
Intervento del Dr. Francesco Mercadante
Incubatori di devianze. Il linguaggio dei social network tra paradossi, cattiverie e mondi impossibili
Interessante. Oggi parlavo con un collega che evidentemente sta seguendo i miei post sul blog, in particolare questi sugli errori, e mi faceva notare che anche io non sono esente da errori nel riportare correttamente le cifre significative di cui ho parlato qui. Dovrei stare attento quando giudico gli altri e scrivo certe cose perché io stesso sono suscettibile delle medesime critiche. Sono d’accordo. Anzi aggiungo che sono assolutamente d’accordo. Ma proprio per questo devo guardare anche a me stesso.
Ho controllato nei diversi lavori che ho pubblicato, avendo come traccia solo che si trattava di un lavoro degli inizi della mia carriera. In effetti è così. L’ho trovato. Si tratta di: Zena, Conte, Piccolo (1999) GC/ECD determination of ethylenethiourea residues in tobacco leaves, Fresenius Environmental Bulletin 8, 116-123. Si tratta di un lavoro in cui sono stati ricercati i prodotti di degradazione, anzi del prodotto di degradazione, di un fungicida usato nella coltivazione del tabacco. Le tabelle incriminate sono quelle che potete vedere in Figura 1 e Figura 2.
Si tratta di errori del tutto analoghi a quelli che ho denunciato nella Parte II di questo reportage.
Non è certo un caso che la rivista che ha accettato questo lavoro abbia un impact factor di 0.673 per il 2017/2018. In effetti una qualsiasi altra rivista più quotata quasi sicuramente non avrebbe fatto passare un lavoro con questi errori così evidenti. La qualità di questa rivista è valutabile al seguente link Fresenius Environmental Bulletin.
La Figura 3 mostra come si posiziona negli anni Fresenius Environmental Bulletin nei vari quartili che sono utilizzati per la valutazione della qualità di una rivista scientifica.
Per i non addetti ai lavori, ogni rivista viene posizionata in un quartile in base all’importanza della rivista stessa. Il quartile più importante è indicato come Q1, poi a scalare ci sono Q2, Q3 e Q4. Le riviste che si posizionano in Q1 sono quelle più accreditate (Nature e Science, tanto per essere chiari), mentre più alto è il valore del quartile, meno importante è la rivista in cui si decide di pubblicare. Il codice dei colori riportato in Figura 3 mostra che Fresenius Environmental Bulletin per il 2017 si trova in Q4 per il settore Environmental Science e Q3 per i settori Pollution e Waste Management and Disposal. La posizione migliore che questa rivista aveva nel 1999 era Q2 per Waste Management and Disposal.
Come fa una rivista a scendere così in basso nel posizionamento dei quartili? Uno dei motivi è che accetta lavori come il mio con errori così evidenti che non consentono agli stessi di far crescere la rivista in cui sono pubblicati.
Le quotazioni di una rivista crescono con la qualità dei lavori che essa accetta e pubblica. Lavori di bassa qualità non permettono alla rivista di essere catalogata tra quelle importanti per un determinato settore scientifico.
Volete sapere quale è stato l’impatto di questo mio lavoro nella comunità scientifica? Lo potete vedere nella Figura 4 che è ricavata dallo screenshot della mia pagina Google Scholar (qui).
Come vedete, dal 1999 ad oggi il lavoro è stato citato solo sei volte. In quasi venti anni sei citazioni sono davvero poche. Solo come confronto, nella Figura 4 è riportato anche l’impatto (in numero di citazioni) di altri due miei lavori. Evidentemente la qualità dei dati sperimentali descrivibile attraverso l’uso scorretto delle cifre significative riflette la qualità complessiva del lavoro che non è risultato utile alla comunità scientifica relativa al mio settore.
Devo ancora trattenermi in quel che dico o scrivo perchè alcuni ritengono che sottolineare il pressapochismo che sovente si nota nel riportare le cifre significative sia insignificante o, addirittura, sbagliato? No.
Anche io posso sbagliare, ma l’importante è stato imparare dai miei errori, non certo non commetterne mai. Anzi, sono molto grato al mio collega che ha avuto la costanza e la pazienza di andarsi a scaricare tutta (sic!) la mia produzione scientifica, leggere un bel po’ di lavori ed andare a spulciare nei meandri delle mie pubblicazioni se eventualmente ci fosse da segnalare al sottoscritto la presenza di sbagli, anche in pubblicazioni di quasi venti anni fa. Di questo lo ringrazio perchè la mia memoria non è così ferrea.
Ma, anche, questo mi permette di dire che tutti commettiamo errori e che non bisogna mai abbassare la guardia di fronte alla sciatteria scientifica se si ha la volontà di crescere e migliorare professionalmente.
Ed eccomi qui in una trasmissione on line. Grazie a Carolina Sellitto per l’intervista nella sua Oxygen con la quale mi ha dato modo di poter parlare di chimica, di scienza e di presentare il mio Frammenti di chimica. La corretta divulgazione si fa con tutti i mezzi possibili in modo da raggiungere le menti curiose del pubblico di ogni fascia di età ed estrazione culturale.
Nelle prime due parti del reportage sulla qualità dei dati scientifici ho posto l’attenzione sulla differenza tra riviste chiuse e riviste aperte (qui) e ho evidenziato che la scarsa qualità dei dati scientifici non riguarda solo i predatory journal, ma anche giornali ritenuti molto affidabili (qui). In altre parole ho puntualizzato che la cosiddetta bad science, ovvero ciò che sfocia nella pseudo-scienza, è trasversale; ne sono pervase un po’ tutte le riviste: siano esse predatory journal oppure no; siano esse open-access oppure no. Ne ho discusso anche altrove (per esempio qui e qui), quando ho evidenziato che lavori poco seri sono apparsi su Nature e Science (riviste al top tra quelle su cui tutti noi vorremmo pubblicare) e che più che dal contenitore, ovvero dalla rivista, bisogna giudicare la qualità di un lavoro scientifico sulla base di ciò che viene scritto. Nonostante questo, tutte le istituzioni accademiche e non, riconoscono che la probabilità di avere bad science in un predatory journal è più alta che nelle riviste considerate non predatory; per questo motivo tutte le istituzioni formulano delle linee guida per tenersi lontani da riviste di dubbia qualità.
In che modo difendersi dalla bad science delle riviste predatorie?
Esistono tanti siti al riguardo. Per esempio, la mia Università, l’Università degli Studi di Palermo, mette a disposizione una pagina (qui) in cui elenca una serie di siti web da cui attingere per valutare se una rivista è seria oppure no. In particolare, se la rivista in cui si desidera pubblicare è compresa negli elenchi dei link riportati ed è anche nella Beall’s list of predatory journals and publishers, con molta probabilità si tratta di un predatory journal a cui si raccomanda di non inviare il proprio rapporto scientifico. Se, invece, la rivista o l’editore sono negli elenchi citati ma non nella Beall’s list of predatory journals and publishers, con buona probabilità si tratta di riviste non predatorie. Qual è il limite di queste raccomandazioni? I predatory journal spuntano come funghi per cui è possibile che ci si imbatta in una rivista che non è stata ancora catalogata come predatoria. Cosa fare in questo caso? Bisogna ricordarsi che tutte le riviste predatorie hanno in comune alcuni caratteri essenziali che le distinguono dalle riviste più accreditate:
Comitati editoriali anomali, non determinati o inesistenti
Tendenza a pubblicare lavori scientifici in settori molto eterogenei tra loro
Tasse per la pubblicazione estremamente basse (in genere meno di 150 €)
Presenza di immagini sfocate o non autorizzate presenti nei loro siti web
Richiesta di invio dei lavori mediante posta elettronica, spesso a indirizzi e-mail non professionali o non accademici, e non attraverso un sistema di invio on-line
Mancanza di qualsiasi politica sulle ritrattazioni, correzioni, errata corrige e plagio (più della metà delle riviste più accreditate descrive nei propri siti web come comportarsi in ognuna delle quattro circostanze)
Basso o inesistente valore di impact factor (IF)
Tutti questi caratteri possono essere presenti contemporaneamente o in parte in una data rivista. Tuttavia, la loro presenza non necessariamente deve essere indice di predazione. Infatti, per esempio, una rivista nuova non ha l’impact factor che si calcola confrontando il numero di citazioni di tutti gli studi pubblicati in un biennio col numero totale di studi pubblicati nello stesso biennio (qui). Questo significa che una rivista può cominciare ad avere un IF solo a partire dal terzo anno di vita. Se la rivista è di nuova fondazione, può attuare una politica di incentivazioni alla pubblicazione fornendo agevolazioni ai ricercatori che decidono di inviare il loro lavoro. Per esempio, la ACS Omega(una rivista ancora senza IF della American Chemical Society, ACS) permette la pubblicazione gratuita a chiunque disponga di voucher (del valore di circa 750 $) elargiti dalla ACS a ricercatori di paesi in via di sviluppo o con problemi di fondi di ricerca per la pubblicazione in open access. C’è anche da dire che attualmente è abbastanza facile costruire siti web accattivanti ed attraenti. Per questo motivo, a meno che non si tratti di truffe molto evidenti, è abbastanza difficile trovare riviste predatorie con siti web fatti male. Infine, in passato ho pubblicato su riviste molto importanti del mio settore (quindi non predatorie, non open access e con ottimo IF), il cui editor rispondeva ad un indirizzo e-mail con dominio gmail.com.
Ma adesso sto diventando prolisso. Basta annoiarvi.
Ho aperto questo articolo scrivendo che tutte le istituzioni accademiche (e non) si raccomandano di seguire le linee guida appena indicate per evitare di pubblicare su riviste dalla scarsa qualità. In altre parole, le linne guida riportate sono un modo per riconoscere l’attendibilità dei contenitori in cui “versare” le conoscenze scientifiche che noi raccogliamo dalla nostra attività di ricercatori. Per ora non vi voglio annoiare di più. Nella quarta ed ultima parte di questo reportage dimostrerò che, in realtà, la qualità della ricerca non dipende dalla tipologia di rivista, ma da ben altri fattori tra cui le istituzioni che finanziano la ricerca e che, nello stesso tempo, si raccomandano di tenersi lontani da certi giornali.
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