In esso ho solo accennato alla funzione delle mascherine chirurgiche. Ora voglio entrare nel dettaglio della loro chimica.
Alzi la mano chi di voi non ha mai sentito parlare del tessuto non tessuto detto anche TNT.
No…non è il trinitrotoluene, noto per la sua potenzialità esplosiva. Quindi, se tra i miei lettori c’è qualche appassionato di “fuochi artificiali” non cerchi di dar fuoco al TNT di cui parlo in questo articoletto perché non otterrà alcun botto particolare, ma solo una bella fiamma.
Torniamo a noi.
Se facciamo una banale ricerca in Wikipedia, si trova che il tessuto non tessuto è un materiale in cui non è possibile distinguere una trama ben precisa come nel caso dei normali tessuti che indossiamo. Insomma si tratta di un materiale che viene ottenuto mediante dei procedimenti industriali particolari che, per ora, non rappresentano oggetto di discussione.
Le sue peculiarità lo rendono molto versatile tanto è vero che viene utilizzato in diversi campi: da quello edilizio a quello tessile, fino ad arrivare al campo medico. Ebbene sì, anche in campo medico questo materiale viene utilizzato. Infatti, santo Google alla richiesta di informazioni sul tessuto non tessuto restituisce, tra i tanti siti web, un link a un’azienda che vende chilometri di tessuto non tessuto per la fabbricazione delle mascherine chirurgiche di cui oggi abbiamo estrema necessità a causa del virus SARS-CoV2.
Ma cosa è questo TNT? Appurato che la sigla non si riferisce al trinitrotoluene, noto esplosivo, di cosa si tratta?
Ebbene, non è altro che banalissima plastica. Il termine che ho appena usato non è molto corretto, se vogliamo essere puntigliosi. Infatti, “plastica” è un termine generico che si riferisce a una classe di composti molto differenti tra di loro sia per caratteristiche chimiche che caratteristiche fisiche.
La plastica con cui è fatto il TNT può essere o polipropilene o poliestere. In realtà, se vogliamo essere ancora puntigliosi, bisognerebbe parlare di poliesteri e non di poliestere. Infatti, anche questa è una classe di composti che differiscono tra loro per proprietà chimiche e fisiche. In ogni caso, sono più che sicuro che ne avete già sentito parlare, non foss’altro per il fatto che questi nomi li trovate scritti sulle etichette dei vostri capi di abbigliamento quando leggete che assieme al cotone essi contengono anche poliestere e polipropilene (Figura 1).
Per poter avere una idea di quali siano gli oggetti di uso comune che contengono le plastiche anzidette, potete far riferimento alla Figura 2.
Ma veniamo alle mascherine chirurgiche.
Esse sono fatte da strati sovrapposti di tessuti ottenuti sia con polipropilene che con poliestere. In particolare, lo stato esterno è costituito da un foglio di polipropilene che viene trattato per farlo diventare idrofobo e conferirgli resistenza meccanica. Lo strato intermedio può essere fatto sia da polistirene che da polipropilene che vengono lavorati in modo da produrre un foglio sottile con pori di diametro nell’intervallo 1-3 μm. Infine, il terzo strato (quando è presente) è fatto da polipropilene che ha il compito di proteggere il volto dallo strato intermedio filtrante (Figura 3). La capacità filtrante verso l’esterno (ovvero la capacità di trattenere le goccioline di sudore/saliva) di queste mascherine è molto elevata. Tuttavia, esse hanno una bassa capacità filtrante dall’esterno (Riferimento).
Insomma, da questa breve digressione avete capito che le mascherine chirurgiche che indossiamo in questi giorni sono fatte di plastica.
C’è un impatto ambientale di questa plastica? Beh…se l’argomento vi intriga posso rimandare ad un secondo articolo l’impatto che le mascherine che usiamo hanno sull’ambiente.
Avete voglia di saperne di più sulla risonanza magnetica nucleare a ciclo di campo che di tanto in tanto introduco anche nei miei articoli?
Venerdì 8 maggio 2020 sarà una giornata di studi dedicata proprio a questa tecnica ed alle sue applicazioni in diversi campi: dalla teoria alle applicazioni in campo oncologico a quelle in campo ambientale fino ad arrivare alle applicazioni in ambito energetico.
La giornata organizzata nell’ambito di un progetto COST, si svolgerà in modalità telematica sulla piattaforma WebEx. Per poter avere accesso ai webinar bisogna richiedere l’iscrizione al seguente indirizzo eurelax@matman.uwm.edu.pl chiedendo di partecipare a uno o a più seminari. Vi verrà inviata una mail con le indicazioni da seguire per potervi connettere.
Se volete avere una idea del programma e di come potersi iscrivere potete cliccare sulle immagini qui sotto.
Il glifosato oggi rappresenta il demone da sconfiggere.
Ormai giornali di ogni tipo, dai quotidiani a tiratura nazionale ai giornalini di quartiere, fanno a gara ad indicare il Roundup®, il fitofarmaco che contiene il glifosato quale principio attivo, come il nemico da sconfiggere perché responsabile di tutti i mali di questa terra.
Un po’ di tempo fa, tempo recente, mi è capitato di leggere in una di quelle pagine di complottisti che imperversano in rete, che il glifosato è responsabile anche dell’insorgenza della pandemia da SARS-CoV-2. Insomma, manca solo il gomito della lavandaia ed il ginocchio del tennista (citazione liberamente ispirata a “Tre uomini in barca per non parlar del cane” di Jerome K. Jerome) per incoronare il glifosato come principe del male.
Chi mi conosce e mi segue da un po’ di tempo, sa che non sono nuovo a prendere posizioni in merito al glifosato. Per esempio, ne parlai già a suo tempo in un articolo che potete trovare qui:
Un po’ più recentemente, invece, ho anche evidenziato la faziosità di certi scienziati che pubblicano lavori sulla tossicità di questo composto con dubbia (si fa per dire) qualità sia progettuale che sperimentale. L’articoletto lo potete trovare qui:
“Allora perché ci ritorni su?”, mi potreste chiedere.
Semplicemente perché ogni tanto bisogna ricordare che la chimica è una scienza e non tiene conto delle opinioni di nessuno, anche se a parlare è un premio Nobel. Le sciocchezze sono tali anche se a dirle è il padreterno sceso in terra. La scienza si basa sui fatti ed i fatti sono quelli che vi descrivo adesso. Peraltro questi sono anche i fatti che racconto ai miei studenti nelle mie lezioni sia di Chimica del Suolo che di Recupero delle Aree Degradate.
Cos’è il glifosato?
Solo per completezza, il nome IUPAC del glifosato è N-(fosfonometil)-glicina. La sua struttura è quella rappresentata in Figura 1.
Benché nel suo nome compaia il termine “glicina”, che è un amminoacido che assolve a diverse funzioni importantissime nel nostro organismo (Figura 2), esso ha delle funzioni biochimiche che sono completamente diverse da quelle dell’amminoacido glicina.
La via sintetica dell’acido shichimico
Quello che gli scienziati della domenica non sanno, o fanno finta di non sapere, è che esiste una relazione diretta tra struttura ed attività biochimica. Questo vuol dire che la N-(fosfonometil)-glicina non ha le stesse caratteristiche dell’amminoacido da cui essa deriva. Ed infatti, se andiamo a studiare il meccanismo di funzionamento di questo composto, ci accorgiamo che esso è un “competitore” del fosfoenolpiruvato per i siti attivi di un enzima che è coinvolto nel metabolismo dell’acido shichimico (Figura 3).
Traduco quanto detto in termini più semplici. Il metabolismo dell’acido shichimico è una parte del metabolismo vegetale grazie alla quale le piante sintetizzano degli amminoacidi che abbiamo deciso di chiamare “essenziali”. Ricordo che tutti gli amminoacidi sono importanti perché sono coinvolti nei processi di sintesi delle proteine. Senza certi amminoacidi, proteine che svolgono numerose funzioni importantissime nel nostro organismo non possono essere sintetizzate. Questo implica insorgenza di patologie più o meno mortali. La “essenzialità” degli amminoacidi citati discende dal fatto che noi animali non siamo in grado di auto-produrceli e li dobbiamo assimilare dalla dieta mangiando proprio i vegetali. Il fatto che noi non auto-produciamo gli amminoacidi essenziali e dobbiamo assumerli dalla dieta, ci consente di intuire immediatamente che nel nostro metabolismo non è compresa la via sintetica dell’acido shichimico. Se noi non “godiamo” di questa meravigliosa (in senso chimico per chi è in grado di apprezzare i passaggi chimici in essa coinvolti) via sintetica, vuol dire che anche tutti gli enzimi che mediano le reazioni comprese nella via dell’acido shichimico non sono presenti nel nostro organismo. In definitiva, quindi, il glifosato non è in grado di agire nell’organismo umano come fa, invece, nelle piante.
La tossicità del glifosato.
Ora, però, non mettetemi in bocca quello che non ho detto. Ho detto che il glifosato è in grado di inibire la via metabolica dell’acido shichimico, tipica delle piante. Questo non vuol dire che esso non sia tossico ad elevate concentrazioni per gli animali. Infatti, per esempio, recentemente è stato pubblicato un lavoro in cui sono stati studiati gli effetti teratogeni di “dosi da cavallo” di glifosato iniettate direttamente nei feti di alcuni ratti (riferimento). Il lavoro, che immediatamente è stato usato dagli amici della natura (come se gli scienziati odiassero il mondo che li circonda) come cavallo di battaglia per dar contro a tutti quelli che fanno uso di questo erbicida, è stato, in realtà, messo sotto la lente di ingrandimento dalla comunità scientifica a livello mondiale. Ciò che tutti gli addetti ai lavori hanno stigmatizzato è stato l’uso strumentale e fazioso di questo studio che dimostra solo che se i feti vengono esposti a dosi massicce di glifosato subiscono degli effetti deleteri. In altre parole, questo studio non dimostra nulla se non che è la dose che fa il veleno. Ma questo è noto fin dai tempi di Paracelso. In Campania, regione dalla quale provengo, c’è un modo di dire molto caratteristico quando si vuole evidenziare la lapalissianità di uno studio. Tuttavia, per ovvi motivi di decenza, evito di usare il turpiloquio. In ogni caso, per avere un’idea delle critiche circostanziate al lavoro di cui sto parlando, rimando al blog del mio amico Enrico Bucci che ha scritto l’articolo che trovate qui sotto.
Poco fa ho scritto che il glifosato è tossico ad alte concentrazioni. Ma chiunque mastichi un poco il linguaggio scientifico sa benissimo che “elevato”, “grande”, “piccolo”, “alto”, “basso” etc. sono tutti aggettivi privi di significato. Da un punto di vista scientifico, noi dobbiamo sempre quantificare l’ammontare di un certo composto chimico oltre il quale si possono avere effetti negativi sulla salute. A tale scopo abbiamo definito la cosiddetta LD50, ovvero la dose di composto che somministrata per via orale, per contatto dermale, per inalazione etc. uccide il 50% (ovvero la metà) della popolazione di animali usati come target di riferimento. Più elevato è il valore della LD50, meno tossico è il composto preso in considerazione se paragonato ad altri composti chimici. Ed allora se cerchiamo le schede di sicurezza del glifosato e di altri prodotti chimici di uso comune, possiamo elaborare il grafico che è mostrato in Figura 4.
In questo grafico ho paragonato la tossicità orale (espressa in milligrammi di principio attivo per chilogrammo in peso dei target animali usati per misurare la LD50) del glifosato con quella dell’acido acetico (presente nell’aceto), dell’acido citrico (presente negli agrumi), dell’alcol etilico (presente, per esempio, nei vini), dell’aspirina, dell’ibuprofene (il principio attivo dell’OKI o del Moment, farmaci di uso comune), della caffeina (presente nel thé e nel caffè) e della nicotina (presente nelle foglie di tabacco). A colpo d’occhio si evidenzia subito che il glifosato è molto meno tossico (il valore della LD50 è il più alto) di composti che vengono ritenuti innocui. Evidentemente, l’esposizione mediatica a cui è stato sottoposto il glifosato negli ultimi anni, ha alterato sia la percezione del pericolo che quella del rischio legate all’assunzione per via orale dell’erbicida rispetto a quella di altri sistemi di uso più comune e quotidiano.
Pericolo e rischio: una definizione
Occorre sottolineare per i non addetti ai lavori che pericolo e rischio non sono sinonimi e non possono essere considerati interscambiabili. Riprendendo una bella definizione che ho trovato sul sito della Società Chimica Italiana (qui), il pericoloè una qualità intrinseca di un determinato fattore avente il potenziale di causare danni, mentre il rischio è la probabilità di raggiungere il livello potenziale di danno nelle effettive condizioni di impiego. In altre parole, un composto può essere pericoloso ma non rischioso, ossia avere una valenza mortale ma non essere concentrato a sufficienza. Come detto in precedenza: è la dose che fa il veleno.
A cosa è dovuta la tossicità del glifosato?
In realtà, sarebbe meglio chiedere a cosa non è dovuta la tossicità di tale principio attivo. Infatti, girando un po’ per la rete internet, è venuto fuori che quando la concentrazione di glifosato supera certe dosi, esso compete con l’amminoacido glicina per la sintesi proteica. Avendo una struttura un po’ diversa dalla glicina, le proteine che si ottengono hanno delle conformazioni (ovvero delle caratteristiche strutturali tridimensionali) che non le rendono adatte ad assolvere i compiti per cui esse sono sintetizzate. Si innescano, quindi, patologie mortali. Devo dire la verità. Leggendo questa informazione ho ritenuto che essa fosse verosimile. In realtà, sicuro di me, ho dimenticato che la chimica è una scienza e, per questo, prima di ritenere verosimile una informazione occorre andare a verificare da dove questa informazione è scaturita. Ebbene, devo aggiungere che studiare per scrivere gli articoli in questo blog mi fa bene. Infatti, proprio per cercare le fonti della notizia in merito alla competizione glicina/glifosato, mi sono imbattuto in un bellissimo studio dal titolo: “Glyphosate does not substitute for glycine in proteins of actively dividing mammalian cells”. Il lavoro lo potete scaricare liberamente cliccando direttamente sull’immagine di Figura 5.
In questo lavoro si evidenzia che la intercambiabilità glicina/glifosato è un mito. Una falsa informazione messa in giro ad arte per supportare delle posizioni antiscientifiche. Per semplicità riporto solo le conclusioni, piuttosto chiare, presenti alla fine dell’abstract dello studio anzidetto: “the assertion that glyphosate substitutes for glycine in protein polypeptide chains is incorrect“. Come potete leggere voi stessi, gli autori parlano di “assertion” che in inglese vuol dire “a declaration that is made emphatically (as if no supporting evidence were necessary)” (da: “Advanced English Dictionary and Thesaurus”, app per iPad). In conclusione, se navigando in rete vi imbattete in qualcuno che dice che il glifosato si sostituisce alla glicina, potete cancellare la pagina dalla memoria del computer. Se invece leggete la notizia sulla stampa…beh…sapete adesso che potete bruciare quel giornale. Se è un vostro amico/contatto in Facebook…cancellatelo. Non vale la pena leggere quello che scrive.
Ma allora come funziona il glifosato negli animali?
La mia risposta è: non lo so. Non ho la più pallida idea di quali siano i meccanismi chimici alla base della tossicità del glifosato oltre una certa dose limite. Fino ad ora, per quanto ho potuto verificare in rete, sono pubblicati lavori che riportano di effetti negativi e fanno ipotesi (per esempio qui) che non sono sperimentalmente verificate se non in vitro. L’unica cosa che mi è chiara è che il glifosato può complessare micronutrienti metallici che funzionano da co-fattori in molti processi metabolici inibendone, quindi, l’utilizzo negli enzimi in cui essi dovrebbero essere presenti. Ma questa è una informazione che potete già leggere nel mio articolo del 2017 (qui) e che riprende le conclusioni di un lavoro del 2013 che potete liberamente scaricare qui. Peraltro, la particolare natura chimica del glifosato lo rende molto polare e, di conseguenza, particolarmente solubile in acqua. Come spiega Donatello Sandroni nel suo libro “Orco glifosato“, esso viene espulso per 2/3 nelle feci e 1/3 nelle urine. In altre parole, se rimaniamo al di sotto delle concentrazioni limite previste per legge (in Europa la concentrazione limite assimilabile dagli organismi umani è 0.3 mg/kg/d), il glifosato non si accumula nell’organismo.
Da tutto quanto avete letto fino ad ora, appare chiaro che non è possibile semplificare il comportamento del glifosato quando entra a contatto con il nostro organismo. Dire che il glifosato è un demone che innesca patologie di ogni tipo, semplicemente non corrisponde a verità.
Perché si possa avere un effetto tossico è necessario superare di gran lunga le soglie limite di cui abbiamo discusso fino ad ora.
Dalla Figura 4 abbiamo imparato che la LD50 di glifosato per assunzione orale è di 5 g per kg di peso corporeo. In altre parole, per cominciare ad avere effetti negativi un individuo di peso medio pari a 80 kg deve ingerire almeno 400 g di glifosato in un unico shot. Ma adesso abbiamo anche imparato che il limite massimo di glifosato che un individuo può assumere ogni giorno è 0.3 mg/kg. Se una persona pesa 80 kg, può ingerire al massimo 24 mg di glifosato al giorno. In altre parole si tratta di una quantità di glifosato circa 200 volte inferiore a quella necessaria per avere problemi di salute.
Impatto ambientale del glifosato.
Uno dei problemi che vengono spesso presi in considerazione da chi demonizza il glifosato è legato alla sua persistenza al suolo che influenzerebbe la comunità microbica presente ed al fatto che è solubile in acqua per cui può facilmente arrivare a contaminare le acque potabili. In realtà anche quella appena indicata è una semplificazione del comportamento del glifosato. Essa è fatta in modo strumentale e fazioso ad uso e consumo di chi, non avendo strumenti adeguati, non può comprendere a fondo che si tratta di mezze verità.
Il glifosato (con la struttura rappresentata in Figura 1) è una molecola che ha almeno tre siti con i quali si può agganciare alle componenti organiche ed inorganiche presenti nei suoli. Questo, da un punto di vista ambientale, vuol dire che esso può essere lisciviato verso le falde acquifere abbastanza difficilmente rimanendo a disposizione dei microorganismi del suolo che lo possono degradare a molecole più semplici e meno tossiche. Infatti, è noto già da parecchio tempo (per esempio qui) che il glifosato subisce nei suoli processi di degradazione microbica, mentre sono poco importanti quelli di tipo fotochimico (ovvero ad opera della luce del sole) e meccanico (ovvero ad opera delle lavorazioni del suolo). È, comunque, anche vero che l’elevata solubilità del glifosato in acqua possa portare a dei concreti problemi alle forme di vita acquifere qualora esso fosse utilizzato in prossimità di tali fonti. In ogni caso, i microorganismi che vivono in acqua possono “lavorare” come quelli terrestri per decomporre il glifosato a sistemi più semplici e meno tossici. In altre parole, sia che finisca in acqua, sia che finisca al suolo, il glifosato non rimane in quei comparti a tempo indefinito, ma viene degradato microbiologicamente. Il problema è capire quali sono le concentrazioni limite di glifosato oltre le quali l’attività dei microorganismi viene inficiata. Vi ricorda qualcosa? Ma certo. È la dose che fa il veleno. Oltre un certo limite il glifosato diventa tossico anche per i microorganismi. Questo vuol dire che per evitare problemi di tipo ambientale non possiamo usare il glifosato tutti i giorni a tutte le concentrazioni possibili. Occorre una gestione oculata dell’uso di tale erbicida. Del resto…voi mangereste una sacher torte da 5 kg tutta assieme sapendo che subito dopo dovreste essere portati in pronto soccorso per intossicazione alimentare? Non è meglio centellinare la torta in modo da evitare i problemi di salute e godere del dolce per un tempo più prolungato?
Adesso permettetemi di entrare in qualche dettaglio chimico che mi serve per capire cosa bisogna fare per progettare un uso oculato del glifosato.
Volete sapere come si degrada nei suoli il glifosato? Seguendo lo schema della Figura 6. Qui, il pathway più importante è quello riportato nella parte sinistra della figura.
Il glifosato viene prima degradato ad acido amminometilfosfonico (AMPA) ed acido gliossilico. Mentre il primo viene trasformato in fosfato e metilammina e quest’ultima in ammonio ed anidride carbonica, l’acido gliossilico si ossida completamente ad acqua ed anidride carbonica. In definitiva i prodotti finali di questa via di degradazione sono fosfato, ammonio, anidride carbonica ed acqua.
Il meccanismo di degradazione riportato nella parte destra di Figura 6 è stato individuato in laboratorio ed avviene ad opera di microorganismi che vengono isolati dal suolo e studiati in vitro. In pratica, il glifosato viene decomposto a fosfato e sarcosina. La sarcosina viene, poi, trasformata in glicina.
Il meccanismo di degradazione riportato a sinistra nella Figura 6 si può semplificare anche in questo modo: G→A→M, dove la G indica il glifosato, la A l’acido amminometilfosfonico e la M la metilammina. Se facciamo l’assunzione che la velocità di degradazione da G ad A e da A a M segua in entrambi i casi una cinetica del primo ordine, dopo calcoli più o meno complicati, si ottengono delle equazioni che possono essere graficate come in Figura 7.
La curva blu indica la scomparsa nel tempo del glifosato, mentre quella in arancione l’andamento temporale di AMPA. La concentrazione di quest’ultimo prima aumenta, poi, man mano che il glifosato diminuisce, comincia a diminuire perché i microorganismi del suolo cominciano ad utilizzarlo come nutrimento per ricavare energia per il loro metabolismo.
Nelle condizioni descritte nella didascalia della figura, occorrono circa 100 giorni per arrivare a un contenuto di glifosato pari a circa 20 mg ha-1, mentre ne occorrono circa 250 per arrivare ad una analoga concentrazione di AMPA.
Alla luce di quanto scritto fino ad ora, possiamo dire che le applicazioni di glifosato devono essere progettate in modo tale da tener conto delle caratteristiche chimico fisiche dei suoli sui quali esso verrà applicato. Due applicazioni successive non si possono fare a pochi giorni di distanza. Occorre attendere che i microorganismi facciano il loro “lavoro” portando la concentrazione dei contaminanti a livelli predefiniti, prima di poter fare una seconda applicazione.
Conclusioni
Da tutto quanto scritto in questo articolo, si capisce che non è il glifosato ad essere un problema. I problemi sono l’ignoranza e la superficialità che impediscono di capire che, se non si seguono le indicazioni degli esperti nell’uso di un erbicida, si possono avere seri problemi sia ambientali che di salute.
Cosa rispondere a tutti coloro che sono per il “NO” a tutto? Semplicemente che devono studiare. Il “no” non risolve i problemi, anzi li incrementa. La semplificazione estrema di cui essi si fanno portavoce, non consente di comprendere che i problemi ambientali (e non solo quelli) sono complessi. Problemi complessi ammettono solo risposte/soluzioni complesse.
Recentemente sul quotidiano Il Tempo è apparso un articolo dal titolo “Burioni, Pregliasco e Brusaferro . Gli esperti più scarsi del mondo” in cui i nomi di tre medici che ultimamente occupano le prime pagine dei giornali non sono neanche messi in ordine alfabetico. L’articolo che trovate qui è un attacco neanche troppo velato alla credibilità di questi tre professionisti che ci avvertono dei pericoli della pandemia da SARS-Cov-2. L’attacco viene sferrato usando uno dei parametri (non l’unico) utilizzato per la valutazione comparativa dei candidati a posti più o meno importanti nel mondo accademico e della ricerca scientifica: l’h-index.
Cos’è l’h-index?
Per i non addetti ai lavori, si tratta di un indice che serve per valutare l’impatto che il lavoro di uno scienziato ha sulla comunità scientifica di riferimento. Se un lavoro pubblicato è molto importante, esso viene citato tantissimo e l’h-index di quello scienziato aumenta in modo proporzionale al numero delle citazioni che riceve.
Nel mondo da classifiche calcistiche in cui viviamo, questo parametro sembra molto utile, vero?
In effetti sembra così. Il problema è che questo parametro deve essere necessariamente contestualizzato. Prima di usarlo è necessario entrare nel merito del lavoro di uno scienziato. Se così non fosse tutte le commissioni di cui faccio parte e di cui ho fatto parte (inclusa quella relativa all’Abilitazione Scientifica Nazionale del mio settore concorsuale) non avrebbero alcun senso. Se bastasse solo valutare il valore dell’h-index per fare una classifica di idoneità ad una data posizione accademica, non sarebbe necessario rompere le scatole ai docenti universitari per includerli nelle commissioni: basterebbe il lavoro di un semplice ragioniere che non dovrebbe fare altro che accedere ai data base accademici, estrarre il valore dell’h-index e, poi, mettere i nomi dei candidati in ordine di h-index decrescente. Al contrario, se a me serve un ricercatore che abbia esperienza in fisiologia vegetale, non vado a vedere solo il suo h-index, ma vado a valutare anche l’attinenza della sua ricerca con la posizione che egli deve occupare. Se al concorso si presenta un ricercatore in filologia romanza con h-index 40 ed uno in fisiologia vegetale con h-index 20, sceglierò il secondo dei due perché la sua attività di ricerca è più attinente al profilo di cui si sente il bisogno. Da tutto ciò si evince che l’articolo pubblicato su Il Tempo è fallace proprio in questo. Il giornalista, di cui non conosco il nome e neanche mi interessa perché sto valutando solo quello che ha scritto, ha messo a confronto gli h-index di una serie di scienziati più o meno famosi senza andare a vedere se i settori di cui essi si occupano sono congruenti gli uni con gli altri e se i lavori scientifici che hanno pubblicato siano congruenti con la virologia. Questo giornalista si è solo peritato di agire come un tipico ragioniere che legge dei numeri e li mette in fila dal più grande al più piccolo. Alla luce di questa classifica ha concluso che Burioni (persona che conosco personalmente e che stimo moltissimo) è uno scienziato tra i più scarsi del mondo. A questo giornalista non importa neanche minimamente ciò che il Prof. Burioni dice. Ciò che gli importa è che un parametro, che nel mondo universitario noi utilizziamo con tanta oculatezza, collochi questo scienziato in fondo alla classifica che egli ha deciso autonomamente di stilare senza tener in alcun conto delle differenze che possono esistere tra i diversi settori scientifici in cui gli scienziati da egli presi in considerazione si muovono. Ed allora perché non inserire nella stessa classifica anche il Prof. Guido Silvestri che ha un h-index di 66 (qui) e che si muove su posizioni analoghe a quelle di Burioni? Ma…poi…siamo sicuri che Anthony Fauci, con h-index 174 e consigliere di Trump, non sia in linea con quanto dicono Burioni e Silvestri? Il giornalista che ha scritto l’articolo che sto commentando, probabilmente, pensa di no. Non tiene conto del fatto che Trump è una scheggia impazzita, che gli americani hanno eletto a loro rappresentante uno che è fallito ben due volte, e che questa persona non brilli certo in quanto a cultura e preparazione scientifica.
Gli h-index e la credibilità scientifica.
Ora voglio usare gli stessi criteri del giornalista de Il Tempo per fare una mia classifica di scienziati. Partiamo dalla fisica. Penso che io non abbia bisogno di presentare Enrico Fermi. È una gloria italiana che ha dato un contributo notevole alla fisica mondiale. Trovate una sua biografia qui. Il suo h-index è 28 (qui). Incredibile vero? Nonostante abbia vinto un premio Nobel, Enrico Fermi ha un h-index confrontabile con quello di Burioni che il giornalista de Il Tempo ha giudicato scarso. Però in effetti sto confrontando un medico con un fisico, peraltro deceduto già da molto tempo. Non sono paragoni da fare. Andiamo a prendere un altro fisico che è diventato famoso qualche tempo fa, all’inizio degli anni 2000: Jan Hendrik Schön. Ho parlato di questo scienziato qui. Fu uno studioso della superconduttività nei sistemi organici. In odore da Nobel fino a che si scoprì che inventava i dati. Gli è stato ritirato anche il dottorato di ricerca. Ebbene, se andiamo a leggere l’h-index di Schön su Scopus, risulta che esso è pari a 32 (qui). In definitiva, usando i parametri del giornalista de Il Tempo, Enrico Fermi è più scarso di Jan Hendrik Schön. Ma quale tra i due ha maggiore credibilità? Enrico Fermi che ha lavorato seriamente ed ha dato un contributo alla fisica riconosciuto dall’intera comunità scientifica oppure Jan Schön che, invece, ha lavorato in modo poco serio arrivando ad inventarsi i dati pur di avere quella notorietà internazionale che non meritava?
Voglio continuare. Ritorniamo nel campo medico e prendiamo Wakefield. Sì, proprio il medico che è stato radiato dall’ordine dei medici e dalla comunità scientifica per aver inventato di sana pianta la correlazione tra vaccini ed autismo. Il suo h-index è 45 (qui) dovuto principalmente alle oltre 1500 citazioni che il suo lavoro su The Lancet, pubblicato nel 1998 e poi ritrattato una decina di anni dopo, sulla correlazione vaccini-autismo ha ricevuto. Usando i parametri del giornalista de Il Tempo, Burioni è più scarso di Wakefield. Ma voi nelle mani di chi mettereste la vostra salute: di Burioni o di Wakefield? Io non ho dubbi, per quanto mi riguarda: mi affiderei senza ombra di dubbi a Burioni.
Conclusioni
Ho scritto questo articolo per far capire quanta spazzatura ci sia in rete in merito a come vengono usati i numeri che hanno significato solo nell’ambito per cui quei numeri sono stati introdotti. Al di fuori dell’ambito accademico, l’h-index non può essere utilizzato. In ogni caso, anche in ambito accademico va utilizzato non in senso assoluto ma assieme a tutta una serie di parametri che servono per valutare la credibilità di uno scienziato. Usando un linguaggio matematico, l’h-index è condizione necessaria ma non sufficiente a farsi un’idea del lavoro di qualcuno.
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