Vi ricordate il famoso “Antonio, fa caldo” della pubblicità di una nota marca di té freddo?
Eccola
Mi chiederete: “ma che c’entra questa cosa col fatto che gestisci un blog scientifico principalmente dedicato alla chimica?”
Ogni scusa è buona per parlare di scienza.
In questo periodo di fine Agosto che continua a “vedere” temperature giornaliere che superano i 30 gradi, vi siete chiesti a cosa è dovuta la sensazione di calore?
Vabbé, magari non state dicendo esattamente queste cose e vi state solo facendo una risata. Allora faccio la domanda in un altro modo: vi siete mai chiesti qual è la spiegazione della sensazione di calore a livello molecolare?
Dovete sapere che il concetto di calore può essere preso in considerazione solo quando mettete a contatto due corpi differenti. Senza il contatto non ha senso parlare di calore. Quando dite che il bicchiere di acqua è freddo, lo fate perchè state toccando il bicchiere; in altre parole, il vostro corpo entra in contatto col bicchiere di acqua ed avviene uno scambio di energia termica (ovvero calore) tra voi (corpo caldo) ed il bicchiere (corpo freddo) in modo tale che i due corpi, alla fine dello scambio, ovvero all’equilibrio, abbiano la stessa quantità di calore. Ci accorgiamo che i due corpi sono all’equilibrio (termico) perché il parametro che misuriamo, la temperatura, diventa la stessa per i due corpi.
Chi di voi ha frequentato a vario titolo un laboratorio di chimica sí ricorderà sicuramente di uno dei primi avvertimenti del proprio docente: “non toccate mai a mani nude un pezzo di vetro poggiato su un banco; il vetro freddo non si distingue da quello caldo”. In altre parole se, inavvertitamente o meno, toccate a mani nude un oggetto di vetro di cui non conoscete la provenienza, rischiate che l’eventuale corpo caldo (il vetro appena tirato fuori dalla muffola a 200 gradi) possa scambiare calore con voi, corpo freddo, con la conseguenza di ustioni molto dolorose.
Direte voi: “ma che scemenza. Prima di toccare un qualsiasi oggetto posso avvicinare la mano e ‘sentire’ se esso è freddo o caldo, così da evitare di farmi del male”. Vero! Ma come mai riuscite a “sentire” il calore di un corpo anche senza toccarlo? Sembra una magia, vero? Oppure poche righe più su ho scritto una scemenza.
In realtà, non ho detto una sciocchezza. Noi non viviamo nel vuoto. Anche se siamo in una landa desolata, non siamo nel vuoto. Siamo circondati da molecole dalla natura più disparata. Anche in una landa desolata siamo circondati da molecole di aria (del resto senza aria non potremmo neanche sopravvivere). Quando il vetro di cui ho parlato poco fa viene tirato via dalla muffola a 200 gradi centigradi, esso entra a contatto con un corpo freddo e con esso scambia calore. Qual è questo corpo freddo? Ma l’aria, naturalmente. In altre parole aria e vetro caldo scambiano energia termica. Quando avviciniamo la mano al vetro caldo, l’aria riscaldatasi per effetto dello scambio termico col vetro, scambia a sua volta energia termica con noi ed ecco perché riusciamo a “sentire” se il vetro è troppo caldo e può provocarci delle ustioni.
Ritorniamo ora alla simpatica pubblicità della Nestle (sì, si legge Nestle e non Nestlè, con l’accento. Quella lineetta che vedete non è altro che la gambetta allungata della “t”). A cosa è dovuta la sensazione di calore in estate? Semplicemente al fatto che i raggi del Sole riscaldano l’aria intorno a noi. L’aria calda, a contatto col nostro corpo, scambia con noi energia termica da cui “Antò, fa caldo…”.
Sapete cos’è il guaiacolo? Si tratta di una molecola molto semplice (Figura 1) il cui nome IUPAC (1-idrossi, 2-metossi-benzene) ci dice chiaramente essere costituita da una componente aromatica (l’anello benzenico), un gruppo ossidrilico (-OH) ed un gruppo metossilico (CH3O-).
Questa molecola, nella sua semplicità, è importantissima in natura. Sapete perché? È uno dei precursori della lignina (Figura 2).
La lignina è una classe di polimeri complessi presenti all’interno delle piante vascolari a cui essi conferiscono proprietà strutturali. In altre parole, i tessuti di queste piante, oltre a contenere cellulosa (Figura 3), contengono anche lignina che permette alle piante suddette di non essere flessibili (ovvero di essere rigide) e di poter crescere in altezza.
In giro per la rete si trovano tanti siti in cui vengono esaltate le qualità di questo prodotto ottenuto dalla fermentazione e successiva distillazione di miscele di cereali. Tutti esaltano l’aumento della fragranza del whisky quando viene servito on the rocks, ovvero con aggiunta di ghiaccio. Solo recentemente è stata data una spiegazione chimica al perché l’addizione di acqua esalta il sapore di questa bevanda (qui il lavoro apparso su Scientific Reports il 17 Agosto 2017).
Lo studio mediante simulazione computazionale (Figura 4) ha evidenziato che il guaiacolo può formare legami a idrogeno sia con l’acqua che con l’etanolo (anche comunemente conosciuto come alcol) naturalmente presenti nel whisky. Tuttavia, a quanto sembra, tra i due, il guaiacolo ha maggiore affinità per l’etanolo col quale interagisce più efficacemente. Quando la concentrazione di alcol è molto elevata (> 59%) il guaiacolo tende a stare quanto più lontano possibile dalla superficie del liquido. Al contrario, quando la quantità di alcol etilico scende al di sotto del 49% per aggiunta di acqua, accade che il guaiacolo, tendendo a “seguire” l’etanolo che si posiziona all’interfaccia liquido-aria per effetto della presenza di acqua, si disponga anche esso sulla superficie del liquido. Essendo più vicino alla fase aerea, la probabilità che il guaiacolo possa evaporare aumenta. La presenza di quantità maggiori di guaiacolo nella fase aerea del bicchiere che contiene whisky on the rocks, conferisce al distillato l’aroma di affumicato che a sua volta influenza il sapore della bevanda. In effetti, lo studio suggerisce che il modo migliore di imbottigliare il whisky è quello di diluirlo prima di farlo. In questo modo già all’apertura della bottiglia, il consumatore può apprezzare l’aroma della bevanda che può essere successivamente modulato mediante l’aggiunta di ghiaccio o di soda.
Estate. Tempo di zanzare e tempo della nostra quotidiana lotta contro questi insetti fastidiosi.
Uno dei prodotti più utilizzati nelle nostre case per la lotta alle zanzare è lo zampirone. Sì, quella spirale di colori differenti di cui un esempio vedete nell’immagine di copertina. Il suo nome, ormai entrato nell’uso comune, deriva da un chimico di Mestre (sì, proprio un Italiano nato vicino a Venezia) che nel 1862 incominciò a studiare in che modo sfruttare delle conoscenze acquisite intorno al 1840. Questo chimico si chiamava Giovanni Battista Zampironi e le conoscenze che decise di utilizzare erano relative alla scoperta, fatta appunto nel 1840, che i fiori di piretro, un tipo di margherita originaria del Caucaso, funzionavano molto efficacemente per tener lontane le zanzare. Il Dr. Zampironi pensò bene di brevettare dei coni antizanzare che chiamò piroconofobi, ovvero “coni fumiganti che fanno paura” (Figura 1).
La forma a spirale degli attuali zampironi non è stata opera del chimico Italiano, ma di un imprenditore giapponese che, all’inizio del XX secolo pensò di fabbricare dei bastoncini di incenso antizanzare utilizzando la polvere di piretro importata dagli Stati Uniti. Per una storia completa dell’evoluzione della forma degli zampironi si può far riferimento a Wikipedia.
Oggi sappiamo che i principi attivi contenuti nelle polveri secche del fiore di piretro sono le piretrine con attività repellente o neurotossica per le zanzare. La struttura generale di questi composti è riportata in Figura 2.
Le piretrine ricadono sotto la denominazione di “sostanze naturali” perché si estraggono da organismi vegetali, come i fiori di piretro o quelli di Chrysanthemum cinerariaefolium, nei quali hanno una funzione difensiva, ovvero servono a tener lontani i predatori.
Attualmente negli zampironi sono presenti dei piretroidi, ovvero delle piretrine di sintesi, che hanno efficacia analoga a quella dei prodotti naturali.
La Figura 3 mostra la composizione di zampironi commerciali nei quali è contenuta la palletrina (Figura 4).
La palletrina ha una funzione repellente per le zanzare ed un discreto impatto ambientale dal momento che è altamente tossica per trote e persici, per le api e risulta particolarmente dannosa per alcuni crostacei acquatici oltre ad avere una moderata tossicità per gli uccelli.
La Figura 5 mostra la composizione di zampironi commerciali di una casa diversa da quella mostrata in precedenza.
In questo caso il principio attivo è la esbiotrina (Figura 6) che non solo ha attività repellente ma anche neurotossica nei confronti delle zanzare.
L’esbiotrina mostra tossicità acuta per i pesci e per i topi ed è inserita in alcune liste di interferenti endocrini, sebbene non esistano ancora studi dettagliati sui suoi effetti nell’uomo.
La Figura 7 mostra la composizione di un repellente anti zanzare usato normalmente nelle piastrine elettriche.
In questo caso il principio attivo è la transflutrina (Figura 8).
Si tratta di uno dei più potenti insetticidi attualmente in commercio ad azione veloce e bassa persistenza. Non si riportano al momento studi sui possibili effetti tossici su fauna acquatica e mammiferi.
Conclusioni
Esistono in commercio tantissimi repellenti per le fastidiosissime zanzare. Tutti contengono principi attivi che hanno effetti nocivi anche sull’ambiente. Per questo motivo occorre molta cautela nel loro utilizzo e nella loro dismissione. Ricordo che, anche se sintetici, questi principi attivi hanno la stessa efficacia dei prodotti naturali. Non sono più tossici solo perché di origine antropica. In generale, è buona norma fare attenzione nella manipolazione di ogni sostanza potenzialemte tossica sia essa di origine naturale che sintetica.
Vagando qui e lì tra le strade di Palermo sotto il sole di un’estate Siciliana abbastanza torrida, vado alla ricerca di notizie estive, quindi leggère, da poter proporre in questo blog. Ed ecco all’improvviso la classica bancarella che propone sacchetti e confezioni di popcorn. Mi viene in mente quando da piccolo i miei genitori compravano il mais e, dopo averlo riposto in una pentola chiusa, preparavano questa pietanza con noi ragazzini che aspettavamo lo scoppiettio tipico della formazione dei fiocchi .
Come mai i chicchi di mais scoppiano assumendo quella tipica forma a fiocco di neve che viene indicata come popcorn?
C’entra qualcosa la fisiologia del chicco di mais.
Il chicco di mais è fatto per lo più di amido. La parte più interna del chicco contiene intrappolata una piccolissima quantità di acqua. Quando il chicco viene posto a contatto di una superficie calda, la temperatura interna del chicco diventa più alta di quella di ebollizione dell’acqua. Quella piccola quantità di acqua intrappolata nella parte più interna del chicco passa dalla fase liquida a quella gassosa.
Come anche i bambini sanno, un gas, come il vapor d’acqua, tende ad espandersi. Per questo motivo, il repentino passaggio dell’acqua dalla forma liquida a quella gassosa fa esplodere il chicco con il caratteristico “pop” da cui il nome di popcorn.
Nel processo di esplosione, il chicco si comporta come un calzino rovesciato, ovvero la parte interna diventa esterna ed assume la fisionomia che tanto affascina i bambini. In pratica, l’amido, non più compresso, si espande per effetto dell’esplosione e forma il fiocco. Se ci sono delle microfratture nel nocciolo del chicco di mais, l’acqua vapore fuoriesce gradualmente e non si ottiene alcun fiocco. Ecco perché in fondo alla padella in cui prepariamo il popcorn si può trovare qualche chicco che non si è trasformato in fiocco: si tratta di chicchi che contengono al loro interno delle microfratture che non gli consentono di esplodere.
Vi starete sicuramente chiedendo da dove vien fuori questa informazione. Ebbene, nel 2015 un gruppo di ricerca Francese pubblica un lavoro dal titolo “Popcorn: critical temperature, jump and sound” che potete trovare qui. In questo lavoro, gli autori descrivono una serie di filmati al rallentatore che ha consentito loro di spiegare un fenomeno su cui fino ai giorni nostri aleggiava ancora un alone di mistero.
Avete mai sentito parlare del fuoco greco? Si tratta di un’arma micidiale usata per la difesa di Costantinopoli, l’odierna Istanbul, contro gli attacchi di Arabi, Bulgari ed Avari.
Fonti antiche riportano non solo della potenza distruttrice di tale arma, ma anche del terrore che essa suscitava nella mente dei nemici. Infatti, la peculiarità di quest’arma era il suo enorme potere detonante, l’infiammabilità, l’impossibilità di spegnerlo con l’acqua, il fatto che sembrava bruciare anche l’acqua e la sua tossicità. Tutte queste caratteristiche assieme generavano terrore e, si sa, una battaglia si vince anche e soprattutto col terrore, ovvero spaventando i nemici che sono, quindi, portati a combattere meno energicamente.
Ma non è questa la sede per una digressione storica o psicologica. Qui voglio solo puntare l’attenzione sulla chimica del fuoco greco.
Come era fatto?
In realtà la ricetta del fuoco greco non è nota esattamente. Tuttavia, fonti antiche riportano che esso fosse una miscela di calce viva, salnitro, zolfo e nafta/pece. Quelli che leggete sono ingredienti noti fin dall’antichità. Anche gli antichi Romani conoscevano questi prodotti. La nafta/pece era oltremodo nota in Oriente ed a Costantinopoli, in particolare, che deteneva il potere proprio sulle terre in cui questo prodotto maleodorante era particolarmente facile da trovare.
Ma veniamo alla chimica del funzionamento del fuoco greco.
La calce viva è ossido di calcio (CaO) che a contatto con l’acqua porta alla formazione di idrossido di calcio con una reazione fortemente esotermica:
CaO + H2O = Ca(OH)2 + E
Il calore (E) generato dalla reazione anzidetta serve per innescare la reazione di degradazione del salnitro, ovvero del nitrato di potassio (KNO3) anch’esso ben noto nell’antichità, secondo lo schema:
2KNO3 + E = 2KNO2 + O2
L’ossigeno prodotto da questa reazione, assieme al calore generato dalla reazione di formazione dell’idrossido di calcio, innesca la combustione della nafta/pece secondo lo schema:
CnHm + (n + m/4)O2 = nCO2 + (m/2)H2O
La nafta/pece è una miscela di idrocarburi (CnHm) più leggera dell’acqua ed immiscibile in essa. Questo vuol dire che non solo la nafta/pece galleggia sull’acqua, ma anche che essa si spande sulla superficie dell’acqua ed una volta a fuoco, le fiamme non possono essere spente mediante l’uso di acqua.
L’alta temperatura generata sia dalla reazione della calce viva con l’acqua che dal processo di combustione della nafta/pece, innesca la reazione di ossidazione dello solfo ad anidride solforosa (SO2). Questa a contatto dell’acqua genera acido solforoso (H2SO3) che è particolarmente tossico:
S + O2 = SO2
SO2 + H2O = H2SO3
Gli alchimisti Bizantini dovevano essere veramente dei fini conoscitori della natura e dell’uomo per aver ideato un’arma di distruzione di questa portata la cui temibilità è riconosciuta ancora oggi
Nei giorni passati è apparsa sui quotidiani nazionali una notizia che è stata ripresa anche da diverse testate di divulgazione scientifica (qui, qui e qui, per esempio). In questa estate torrida e piuttosto noiosa, è stata data enfasi ad una comunicazione apparsa sulla rivista Nature firmata da un gruppo di ricerca, tra cui alcuni Italiani (qui). Questi colleghi hanno parzialmente smentito quanto riportato in un articolo su Nature del 2012 (qui) di cui uno degli autori è il famoso J. Frazer Stoddart che nel 2016 è stato insignito del premio Nobel per la sintesi delle macchine molecolari (ne ho parlato qui).
Cerchiamo di vederci chiaro.
Il principio di autorità
Innanzitutto, voglio evidenziare che nel mondo scientifico non si applica alcun principio di autorità; ciò che viene affermato da ognuno è messo sotto la lente di ingrandimento ed analizzato da tutti quanti sono interessati a quel determinato settore. La conseguenza è che, con una adeguata preparazione scientifica, è possibile confutare anche i modelli elaborati da scienziati che sono insigniti del famosissimo premio Nobel.
Un esempio delle strane ipotesi messe a punto da premi Nobel e smentite dalla comunità scientifica è la memoria dell’acqua di Montagnier di cui ho già discusso qui, qui, qui e qui.
Se interroghiamo l’Enciclopedia Britannica (famosa enciclopedia molto in uso quando ero piccolo), si legge:
la ferroelettricità è una proprietà di certi cristalli non conduttori, o dielettrici, che esibiscono una polarizzazione elettrica spontanea (separazione tra il centro delle cariche positive e quello delle cariche negative tale che una faccia del cristallo è caricata positivamente mentre l’altra negativamente) la cui direzione può essere invertita mediante l’applicazione di un appropriato campo elettrico. […] I materiali ferroelettrici, come il titanato di Bario ed i sali di Rochelle, sono fatti da cristalli in cui le unità strutturali sono piccoli dipoli elettrici; in altre parole, in ogni unità, il centro delle cariche negative è separato da quello delle cariche positive. In alcuni cristalli, questi dipoli elettrici si allineano a formare dei cluster indicati come domìni. Questi ultimi sono orientati predominantemente in una data direzione sotto l’azione di un intenso campo elettrico. L’inversione della direzione del campo elettrico inverte anche l’orientazione preferenziale dei domìni anzidetti. Tuttavia, il cambiamento di direzione dei domìni avviene con ritardo rispetto al cambiamento della direzione del campo elettrico applicato. Questo ritardo è anche indicato come isteresi ferroelettrica.
Se masticate l’Inglese e volete sapere più in dettaglio qualcosa sui materiali dielettrici e sulla loro interazione con i campi elettrici, potete seguire la lezione del Prof. Lewin famoso per le scenografie delle sue lezioni di fisica:
Il corso completo di fisica del Prof. Lewin è qui.
Ma torniamo a noi.
I materiali ferroelettrici ed il lavoro del premio Nobel Stoddard e collaboratori
I materiali ferroelettrici sono molto interessanti perché possono essere utilizzati per la costruzione di sensori, banchi di memoria e nella fotonica.
Nel 2012 appare su Nature un articolo (in realtà una Letter) dal titolo: “Room-temperature ferroelectricity in supramolecular networks of charge-transfer complexes“. Tra gli autori J. Frazer Stoddart che, come già evidenziato, nel 2016 è stato insignito del premio Nobel per la sintesi delle macchine molecolari. In effetti le macchine molecolari non sono altro che un tipo particolare di sistemi supramolecolari esattamente come i “supramolecular networks” di cui si parla nell’articolo sulla ferroelettricità del 2012.
Cosa hanno fatto questi autori?
Hanno sintetizzato dei complessi organici a trasferimento di carica [1] combinando a due a due i composti indicati da 1 a 4 in Figura 1 attraverso la tecnica conosciuta come Lock-Arm Supramolecular Ordering (LASO) [2].
I complessi ottenuti e designati con le sigle 1-2, 1-3 ed 1-4 di Figura 1 hanno presentato delle eccezionali proprietà ferroelettriche a temperatura ambiente.
Tutto normale. Un gruppo di studiosi ha fatto una scoperta che può avere degli interessanti sviluppi tecnologici ed ha scritto un rapporto che è stato accettato per la pubblicazione su una delle riviste più importanti del panorama scientifico.
Il lavoro degli Italiani
La notizia non è il lavoro di Stoddard e Co. per quanto esso possa essere importante sotto l’aspetto scientifico. La notizia che ha destato l’attenzione dei giornalisti nostrani è che un gruppo di ricercatori, tra cui diversi Italiani, ha riprodotto le sintesi riportate nello studio di Stoddard (qui). Le analisi hanno mostrato che i complessi ottenuti erano del tutto simili a quelli la cui sintesi era riportata nel lavoro del 2012. Tuttavia, quando sono state misurate le proprietà ferroelettriche dei complessi ottenuti, è stato scoperto che due dei tre complessi a trasferimento di carica non mostravano le proprietà descritte da Stoddard e collaboratori (Figura 2).
Naturalmente la non riproducibilità delle proprietà ferroelettriche di prodotti ottenuti da un premio Nobel ha trovato la giusta visibilità sulla stessa rivista che nel 2012 aveva ospitato le proprietà ferroelettriche a temperatura ambiente dei composti anzidetti.
Ma andiamo oltre, perché quasi nessuno ha riportato della risposta di Stoddard e collaboratori.
In coda alla comunicazione dei ricercatori Italiani (qui) è riportata anche la confutazione scritta dai responsabili del gruppo di ricerca che ha descritto le proprietà ferroelettriche a temperatura ambiente dei materiali 1-2, 1-3 ed 1-4 di Figura 1. Stoddard et al. rispondono che i processi di cristallizzazione descritti da D’avino et al. hanno prodotto dei cristalli con dei difetti ai quali sarebbe imputabile la non osservazione delle proprietà ferroelettriche. La risposta di Stoddard et al . si conclude con un interessantisimo invito:
“We offer to share our materials and devices, and to host the authors of the accompanying Comment at Northwestern University in an effort to clarify all discrepancies in reproducibility”
Conclusioni
Il titolo che ho deciso di dare a questa nota è “anche i Nobel sbagliano?”. In realtà non c’è stato alcun errore. L’episodio che ho descritto in questa nota e che con eccessiva enfasi è stato comunicato dai maggiori quotidiani e siti di divulgazione nostrani, fieri che degli italiani abbiano smentito un premio Nobel, dimostra solo una cosa: il mondo scientifico è estremamente democratico. Chiunque può permettersi di fare uno studio e smentire ciò che è stato detto da qualche nome famoso. Ciò è quanto è sempre accaduto. E’ proprio questo a consentire l’avanzamento delle nostre conoscenze. Tuttavia, non basta buttare lì la prima cosa che passa per la testa oppure ritenere che una qualsiasi maggioranza di persone possa influenzare in qualche modo una evidenza scientifica. Per poter aprire una discussione produttiva come quella riportata nelle pagine di Nature, occorre dedizione allo studio e preparazione. Senza questi ingredienti non è possibile instaurare alcun dialogo con nessuno. Bravi certamente i colleghi Italiani. Ma bravi tutti quelli che si dedicano con coscienza ed abnegazione allo sviluppo delle nostre conoscenze.
Non si può dialogare con scienziati della domenica o pseudo intellettuali come quelli che popolano le fila di chi è a favore della biodinamica, dell’omeopatia o dell’antivaccinismo. Queste persone non hanno alcuna caratura intellettuale ed una qualsiasi apertura al dialogo le metterebbe sullo stesso piano di chi lavora seriamente in ambito scientifico.
Note ed approfondimenti
[1] Un complesso a trasferimento di carica è un sistema in cui una molecola (o un dominio molecolare) ricca di elettroni interagisce con un sistema chimico (molecola, dominio molecolare o metallo di tansizione) povero di elettroni in modo tale da formare un legame in cui si realizza un trasferimento di carica negativa dal donatore di elettroni all’accettore di elettroni. Per saperne di più potete cliccare qui.
[2] La Lock-Arm Supramolecular Ordering, indicata con l’acronimo LASO, è una procedura per la sintesi di complessi molecolari a trasferimento di carica. Si tratta di un approccio di tipo modulare in cui moduli molecolari ricchi di elettroni vengono fatti co-cristallizzare in presenza di altri moduli molecolari poveri di elettroni. Entrambi i moduli (donatori ed accettori di elettroni) sono costruiti in modo tale da avere delle braccia flessibili attraverso le quali essi sono in grado di interagire mediante legami a idrogeno. L’efficienza del processo di cristallizzazione è assicurata proprio dalla flessibilità della braccia anzidette che consentono la massima complementarietà tra i moduli. L’azione cooperativa del legame a trasferimento di carica e dei legami a idrogeno consente di ottenere sistemi binari in cui le proprietà donatore-accettore sono interscambiabili così da ottenere proprietà ferroelettriche migliorate rispetto a complessi ottenuti con strategie sintetiche differenti. Per saperne di più cliccate qui.
Fonte dell’immagine di copertina: https://www.researchgate.net/publication/257972728_Statistical_mechanical_origin_of_hysteresis_in_ferroelectrics
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