Quale ruolo svolgono i legami a idrogeno nel comportamento anomalo dell’acqua?
Tutti sanno cos’è l’acqua. Una molecola di importanza notevole per la vita. Non tutti sanno, però, che l’acqua mostra proprietà particolari quando soluti vengono disciolti in essa. Potrei dire che, in realtà, è patrimonio comune sapere che mettere il sale in acqua ne innalza il punto di ebollizione (innalzamento ebullioscopico) [1] e ne abbassa quello di congelamento (abbassamento criogenico) [2]. In effetti lo sanno tutti che il rimedio per sciogliere il ghiaccio sulle strade innevate è quello di spargere sale [2]. È anche patrimonio comune il fatto che se si mette una bottiglia di vetro piena di acqua in ghiacciaia, questa si rompe. È noto che abbassando la temperatura si ha un espansione del volume dell’acqua liquida [3] che, compressa tra le pareti della bottiglia, ne determina la rottura. Cosa vuol dire, allora, “non tutti sanno che”? Semplicemente che non è noto a tutti che il comportamento anomalo dell’acqua a circa 4 gradi centigradi dipende dalla presenza dei legami a idrogeno [4] che, dovendo rispondere a requisiti geometrici (il legame a idrogeno è di natura lineare), favoriscono l’allontanamento delle molecole di acqua tra loro con aumento degli spazi tra molecole, diminuzione della densità e conseguente aumento di volume. Se dei soluti, come sostanze organiche, sono presenti in acqua, si assiste ad un effetto scenico molto simpatico, ovvero si osserva una compartimentazione della miscela in due fasi: una fase organica (in genere colorata) al centro ed una fase acquosa esterna. Come mai? Ancora una volta i legami a idrogeno hanno un ruolo importante. Man mano che si abbassa la temperatura, le molecole della miscela tendono a”fermarsi” (in termini più opportuni si dice che diminuisce il valore dell’energia cinetica sia delle molecole di acqua che delle molecole di soluto organico). Tuttavia, come è stato evidenziato, i legami a idrogeno sono lineari. Al diminuire della temperatura le molecole di acqua e quelle di soluto non si trovano molto bene assieme. Intendo dire che le molecole di acqua sono certamente più “flessibili” (in quanto più piccole) di quelle del soluto cosicché quest’ultimo fa più fatica a riorientarsi velocemente per mantenere le interazioni a idrogeno con le molecole di acqua. Accade, quindi, che le molecole di acqua espellano quelle di soluto in modo tale da formare legami a idrogeno acqua-acqua più stabili rispetto a quelli acqua-soluto. Il risultato finale è la separazione della fase organica da quella inorganica. Potete fare un esperimento casalingo non pericoloso. Preparate del té e mettetelo in una bottiglia di plastica nel freezer (eviterete, così, la rottura del vetro). Lasciate la bottiglia in freezer, senza disturbarla, per un po’ di tempo ed osserverete quanto vi ho detto. Questo comportamento è stato osservato ed opportunamente misurato nel miele sottoposto a congelamento come si può leggere nel riferimento [5].
Il ruolo dei legami a idrogeno nell’innalzamento ebullioscopico e nell’abbassamento crioscopico verrà spiegato in altre note.
In questi giorni sta circolando in rete una notizia apparsa per la prima volta nel 2015 in merito alla prima morte certificata di un trentunenne per aver ingerito un pomodoro OGM [1]. Secondo questa fonte il giovane sarebbe morto per una reazione allergica ai pomodori contenenti il gene di un pesce. La notizia assomiglia molto alla famosa bufala sulla fragola pesce che negli anni 80 fu presa in considerazione da Mario Capanna. Non è difficile capire che la notizia riportata da worldnewsdailyreport [1] sia una vera e propria sciocchezza. Una rapida ricerca in rete [2, 3] dimostra che non solo non c’è nessun rapporto medico di alcun tipo da nessuna parte, neanche nei siti anti OGM, ma il worldnewsdailyreport è chiaramente un sito satirico esattamente come il nostro Lercio.it. In definitiva se vedete in giro questa notizia consideratela solo come una vecchia barzelletta un po’ macabra.
Non ho mai assistito ad una eclissi solare. Tuttavia chi l’ha fatto è testimone di un fenomeno molto singolare. Infatti, durante le eclissi solari il vento si attenua e cambia direzione [1].
Questa osservazione pare sia stata fatta già tre secoli fa, ma solo oggi è stata data una spiegazione attendibile del fenomeno [2].
Uno studio dei cambiamenti climatici a seguito di una eclissi solare avvenuta nel Marzo 2015 nel Regno Unito [3] ha dimostrato che la suddetta eclissi ha comportato non solo un aumento dell’umidità relativa, ma anche un raffreddamento con una diminuzione di circa un grado Celsius della temperatura al suolo.
Nel momento in cui si ha il raffreddamento per effetto dell’eclissi, l’aria al suolo si raffredda e tende a non andare più verso l’alto. La conseguenza è che non solo cambia la velocità del vento (il raffreddamento dell’aria comporta una riduzione della sua velocità) ma anche la direzione, non più dal basso verso l’alto, ma il contrario.
In definitiva, nessuno spirito maligno, nessun diavolo o dio alterato, ma solo “semplice” fisica.
PS. Spero di aver usato il linguaggio corretto. Non me ne vogliano i meteorologi.
Vi siete mai chiesti come mai si parla tanto di intolleranza al lattosio? Cos’è e come si manifesta?
Il lattosio è uno zucchero; per la precisione si tratta di un disaccaride, ovvero di uno zucchero formato da due altri zuccheri, chiamati monosaccaridi, che, nella fattispecie, sono il D-glucosio ed il D-galattosio legati tra loro attraverso un legame beta, 1-4 glicosidico.
Il lattosio è lo zucchero principale del latte di mucca, capra, asina oltre che del latte umano [1]. La sua funzione è molto importante nei bambini in fase di crescita dal momento che il D-galattosio è implicato nella formazione delle strutture nervose, mentre il D-glucosio è coinvolto nel ciclo di Krebs, ovvero in uno dei processi metabolici più importanti dell’organismo dal momento che è implicato nella respirazione cellulare [2].
La scissione (o idrolisi) del lattosio nelle sue due componenti avviene ad opera di un enzima che si chiama lattasi [3] di cui l’intestino degli esseri umani è provvisto fin dalla nascita. In particolare, l’efficienza della lattasi rimane costante durante tutto il periodo dell’allattamento, diminuendo, poi, progressivamente dallo svezzamento in poi.
Negli individui adulti la lattasi è quasi completamente assente comportando quella che viene indicata come “intolleranza al lattosio”. Infatti, l’assenza (o la scarsa efficienza) dell’enzima fa in modo che il lattosio non venga idrolizzato completamente (o non venga idrolizzato del tutto) nelle sue componenti D-galattosio e D-glucosio. Il lattosio che rimane intatto all’interno dell’intestino subisce processi fermentativi ad opera della flora batterica intestinale e porta alla produzione di gas quali idrogeno, metano ed anidride carbonica oltre ad acidi grassi a catena corta. Gli effetti di questi prodotti sono: meteorismo, distensione addominale, digestione lenta, stanchezza, pesantezza di stomaco, senso di gonfiore gastrico oltre che forti crampi [1].
Un modo per evitare i suddetti problemi è assumere alimenti senza lattosio. Questi si ottengono aggiungendo ad essi la lattasi. Quest’ultima idrolizza il lattosio all’interno degli alimenti stessi rendendoli non solo più adatti a chi è affetto da intolleranza al lattosio, ma anche più dolci a causa della presenza dei due monosaccaridi derivati dal lattosio.
Il diabete è una patologia legata ad una eccessiva concentrazione di glucosio nel sangue. Due possono essere i motivi che portano alla suddetta patologia.
Da un lato, il cattivo funzionamento del pancreas comporta una drastica riduzione dell’ormone insulina deputato alla regolazione dell’utilizzo del glucosio da parte delle cellule (diabete mellito di tipo I) [1]. La conseguenza è un incremento della concentrazione del predetto zucchero nel sangue (iperglicemia) dovuta alla incapacità delle cellule di poterlo utilizzare per la produzione energetica (ciclo di Krebs [2]). Gli eccessi di glucosio vengono eliminati attraverso le vie urinarie e le cellule sono costrette ad attivare vie metaboliche alternative per ricavare l’energia necessaria per la loro sopravvivenza. Una di queste vie alternative sfrutta il catabolismo (ovvero la degradazione) degli acidi grassi [3] con formazione ed accumulo di quelli che si chiamano corpi chetonici [4], ovvero di molecole (appartenenti alla classe dei chetoni come, per esempio, l’acetone) che in alte concentrazioni risultano tossiche per l’organismo (possono portare al coma ed alla morte). Il forte cattivo odore che si sente nell’alito dei malati di diabete di tipo I è proprio dovuto alla presenza di tale molecola (oltre che di un altro paio di esse [4]) nel loro sangue. L’unico modo per evitare i rischi legati al diabete di tipo I è quello di fornire insulina all’organismo che non è in grado di sintetizzarla per conto proprio.
L’altra forma di diabete (diabete mellito di tipo II) [5] è legata o alla scarsa sensibilità all’azione dell’insulina da parte delle cellule adipose e muscolari che non sono, quindi, in grado di “consumare” il glucosio nel sangue per produrre energia e ne determinano un accumulo, o ad una produzione insufficiente di insulina che, quindi, non consente alle cellule di utilizzare al meglio tutto il glucosio assimilato. Questa forma di diabete, che si presenta in età adulta, può essere curata attraverso una dieta controllata, attività fisica e, nei casi più gravi, assunzione di metformina (la molecola la cui struttura è mostrata in foto) [6]. Ad oggi, non si conoscono ancora bene i dettagli della biochimica della metformina, sebbene sembri che essa possa agire a tre livelli differenti: 1. agisce nella regolazione dell’attività di un enzima (il cui nome abbastanza complicato è protein-chinasi AMP-attivata o AMPK) coinvolto nel metabolismo di carboidrati e lipidi; 2. attiva degli enzimi (anche questi dal nome difficile: tirosin-chinasi) il cui “cattivo” funzionamento è collegato alla scarsa sensibilità all’insulina da parte delle cellule adipose e muscolari; 3. inibisce la produzione di glucosio epatico (ovvero il glucosio prodotto dal fegato) attraverso la stimolazione alla produzione di una molecola dal nome ancora più complicato di quelli precedenti: il peptide glucagone simile 1 altrimenti detto anche GLP-1. Proprio perché interviene in diversi processi metabolici, la metformina ha una applicabilità abbastanza trasversale. Per esempio può essere usata come coadiuvante nelle diete per contrastare l’obesità; può essere usata per prevenire (o curare) malattie cardiovascolari come l’ipertensione; può essere utilizzata per la prevenzione dell’aterosclerosi precoce ed addirittura, recentemente, è stata scoperta la sua funzione selettiva nel contrastare lo sviluppo di alcuni particolari tipi di neoplasie (ovvero alcuni tipi di cancro) [7, 8].
Come tutti i farmaci, sia l’insulina (per il diabete di tipo I) che la metformina (per il diabete di tipo II) devono essere usati con cautela e soltanto sotto stretto controllo medico perché un loro abuso può portare a complicazioni notevoli [5-10]
<L’approccio del “risolvere un grande problema trovando le cose microscopiche che sono rotte ed aggiustarle” è chiamato riduzionismo – se si vuole comprendere un sistema complesso, bisogna scomporlo nelle parti che lo costituiscono. Il pensiero riduzionista ha dominato la scienza occidentale per secoli, aiutando l’Occidente a tirarsi fuori dal pantano dell’età medievale. Il riduzionismo può essere una gran bella cosa. Essendo stato bambino all’epoca di Jonas Salk, sono immensamente felice di aver beneficiato di un prodotto della scienza riduzionista, ovvero il vaccino scoperto da lui (o da Albert Sabin, ma non ci addentriamo in questo argomento), invece di aver avuto un pediatra che facesse una cerimonia su di me armato di ciondoli feticci e interiora di capra per propiziarsi il demone della polio. Gli approcci riduzionisti alle scienze mediche ci hanno fornito vaccini, farmaci che bloccano fasi specifiche della replicazione virale e hanno identificato precisamente quale parte di noi si guasta in moltissime malattie. È grazie al riduzionismo se, nel corso dell’ultimo secolo, la nostra aspettativa di vita è aumentata considerevolmente. Perciò, se si vuole comprendere la biologia del ciò che siamo […], l’approccio riduzionista fornisce regole del gioco piuttosto chiare: capire gli individui che formano la società; capire gli organi che costituiscono gli individui, le cellule che formano gli organi e, scendendo fino alle fondamenta dell’intero edificio, capire i geni che danno istruzioni alle cellule su cosa fare. Questa prospettiva ha dato luogo a un’orgia di ottimismo riduzionista nella forma del progetto di ricerca più dispendioso della storia delle scienze naturali, ovvero il sequenziamento del genoma umano>
Era il 2005 quando Robert M. Sapolsky scriveva nell’introduzione al suo “Monkeyluv: and other essays on our lives as animals”, che nella traduzione italiana de I Timoni – Castelvechi editori (2014) suona così: “l’uomo bestiale: come l’ambiente e i geni costruiscono la nostra identità“, quanto ho appena riportato.
Il suo elogio del riduzionismo è la base per evidenziare come ridurre il comportamento umano alla risultante lineare dei comportamenti dei geni contenuti nel DNA sia sbagliato. L’approccio più corretto è prendere in considerazione l’effetto combinato di geni ed ambiente. Insomma, usando un linguaggio più pop, la comprensione dell’uomo passa attraverso un approccio “olistico” che deve considerare tutto l’insieme, interno ed esterno, di ciò che caratterizza l’essere umano.
Non sono un neurofisiologo né un osservatore del comportamento umano; non sono in grado di sostenere o controbattere le argomentazioni di Sapolsky nel suo campo. Per questo mi addentro nel campo che mi è più congeniale che è quello chimico.
Indubbiamente scomporre un sistema complesso nelle sue singole componenti ha consentito l’enorme sviluppo scientifico degli ultimi 4 secoli. Se oggi sappiamo quante sono le forze che tengono insieme i nostri atomi e, nel loro complesso, l’insieme di atomi alla superficie terrestre, è perché qualcuno è andato a smontare la materia ed ha visto da cosa è composta.
L’approccio riduzionista è quello che ha permesso lo sviluppo di tecniche analitiche come la cromatografia in fase liquida o quella in fase gassosa; la risonanza magnetica nucleare ad alta e bassa risoluzione, e tutta una serie di tecniche oggi riconosciute come incomparabili per la valutazione della qualità degli alimenti o per la loro tracciabilità (questo tanto per stimolare la corda più populista di chi si preoccupa di sapere se l’olio extravergine che usa è tunisino o viene fatto raccogliendo le olive dietro casa).
Tuttavia, sebbene fin dagli albori della scienza ai giorni nostri ha prevalso l’idea che le proprietà di tutti i sistemi fossero comprensibili solo sulla base di una loro scomposizione nelle diverse componenti elementari e che la somma delle proprietà di ciascuna risultasse, in qualche modo, nelle proprietà dell’intero sistema, appare chiaro, oggi, che non è così. Usando un linguaggio matematico, si può dire che le proprietà dei sistemi complessi non sono una combinazione lineare delle proprietà delle singole componenti, quanto, piuttosto, la risultante delle loro interazioni non lineari. Le eventuali relazioni lineari debbono essere considerate solo come caso particolare di quello più generale che si inquadra nella già citata relazione non lineare.
Un esempio abbastanza banale è il principio di Le Chatelier: quando un sistema all’equilibrio chimico viene perturbato per effetto di un’azione esterna, il sistema reagisce in maniera da ridurre o annullare la sollecitazione stessa ristabilendo l’equilibrio. Per esemplificare questa definizione prendiamo un composto A che, in una soluzione, è in equilibrio con il composto B secondo l’equazione:
dove n e m sono i coefficienti stechiometrici. Il sistema sotto osservazione contiene due componenti (A e B) che interagiscono tra loro in modo tale che aumentando la concentrazione del reagente A, la reazione si sposta a destra producendo una maggiore quantità di prodotto B. Allo stesso modo introducendo una certa quantità di B, la reazione si sposta verso sinistra portando alla formazione di A.
Pur sapendo che il sistema è fatto da due componenti le cui proprietà possono essere studiate indipendentemente le une dalle altre, non possiamo dire che il comportamento del sistema nella sua totalità sia dato dalla combinazione lineare della concentrazione delle singole componenti (la concentrazione è una proprietà intensiva). Infatti, è possibile dimostrare che la relazione che lega la concentrazione di A a quella di B all’equilibrio chimico è:
dove k è comunemente indicata come costante di equilibrio (la x indica semplicemente l’operazione di moltiplicazione).
Possiamo concludere, da questo semplice esempio, che l’equilibrio chimico (croce di tutti gli studenti e delizia di tutti i docenti) non è altro che una proprietà delle soluzioni, emergente dalle interazioni non lineari delle proprietà (in questo caso la concentrazione) delle singole componenti della soluzione.
La storia della scienza (e, nella fattispecie, della chimica in particolare) è ricca di esempi di questo tipo.
Volendo considerare un caso più complesso si può citare l’allosterismo. “L’allosterismo rappresenta una delle modalità di regolazione della funzione di alcune proteine, di solito oligomeriche, […]; fra queste si ricordano l’emoglobina e numerosi enzimi”. Originariamente proposta da Jaques Monod, la regolazione allosterica delle proteine consiste nel fatto che un piccolo metabolita si lega ad uno dei siti attivi della proteina modificandone la conformazione (ovvero la struttura tridimensionale) ed alterandone nel contempo le funzionalità (sia migliorandole, allosterismo positivo, che inibendole, allosterismo negativo). L’esempio più semplice è la regolazione allosterica positiva dell’emoglobina da parte della molecola di ossigeno. È noto che l’emoglobina è una proteina complessa costituita da quattro sub unità proteiche ognuna con un sito attivo che prende il nome di “gruppo eme“. Quando una molecola di ossigeno si lega al gruppo eme di una delle sub unità, la conformazione di questa sub unità si modifica secondo una modalità che potrebbe essere vista come una mano che si chiude a pugno dopo aver afferrato un oggetto. Le modificazioni conformazionali della sub unità suddetta modificano quelle delle altre sub unità che appaiono, quindi, nella nuova situazione come delle mani più aperte pronte ad afferrare un nuovo oggetto. Grazie a queste modificazioni conformazionali, la seconda molecola di ossigeno è in grado di legarsi al secondo sito attivo più velocemente di quanto abbia fatto la prima molecola di ossigeno. A seguito di questa seconda interazione, le sub unità ancora libere subiscono delle ulteriori modificazioni conformazionali aprendosi ancora di più e permettendo ad una terza molecola di ossigeno di legarsi ancora più velocemente rispetto alle prime due. La terza molecola di ossigeno induce dei nuovi cambiamenti conformazionali nell’ultima sub unità libera cosicché essa riceve l’ultima molecola di ossigeno con una facilità ancora maggiore rispetto alle precedenti. Da un punto di vista matematico l’allosterismo dell’emoglobina non è descrivibile mediante una relazione lineare, bensì attraverso una sigmoidale (Figura 1).
Come nel caso dell’equilibrio chimico su descritto, anche l’allosterismo non può essere considerato semplicemente come la risultante di una combinazione lineare delle proprietà delle singole sub componenti di un enzima/proteina, quanto piuttosto come una proprietà emergente dalle loro interazioni non lineari.
Tutta la chimica (dalla chimica organica, alla biochimica, alla chimica del suolo e così via) è ricca di sistemi complessi le cui proprietà emergono dalle interazioni tra le singole sub unità componenti. Come non ricordare, per esempio, la complessità del metabolismo in cui ogni singolo metabolita rappresenta solo un dente di un ingranaggio ben più complicato le cui caratteristiche non sono la somma di quelle dei singoli denti, ma da essi derivano. In questa ottica va inserito il concetto di vita vista come una proprietà che emerge dalle complesse interazioni occorrenti nei processi metabolici.
Qual è dunque l’importanza del riduzionismo nell’ottica scientifica attuale?
Il riduzionismo deve essere, quindi, considerato come un approccio che consente non solo di conoscere i singoli dettagli della realtà fisica fino alle dimensioni microscopiche, ma anche in grado di riporre le varie sub componenti della stessa nella giusta posizione rispetto a tutte le altre in modo da poter riprodurre con accuratezza le proprietà macroscopiche dell’intero sistema rappresentato dalla realtà osservata. In questa ottica il giudizio (secondo la mia lettura, negativo) di Sapolsky in merito alla dispendiosità del progetto di ricerca sul genoma umano mi lascia molto perplesso. È pur vero che la conoscenza del genoma non risponde a tutte le domande che ci possiamo porre in merito al comportamento umano, ma è anche vero che attribuire ai geni la responsabilità di ogni cosa è solo una trovata di un giornalismo di bassa lega che deve fare business e vendere un prodotto a un pubblico le cui conoscenze scientifiche sono mediamente basse. Si tratta dello stesso pubblico che ha necessità di trovare delle correlazioni di causalità laddove esistono solo relazioni di casualità come nel caso dell’omeopatia e dell’autismo causato dai vaccini. Mi trovo, invece, molto d’accordo sull’idea dell’interazione corredo genetico/ambiente nello sviluppo del comportamento umano in quanto questo modo di pensare si inserisce molto bene nel modello di riduzionismo emergentista di cui si è discusso fino ad ora.
Naturale è buono? Le sostanze tossiche di origine vegetale
Quante volte si sente dire che naturale è buono e chimico è cattivo? In realtà non tutto quello che viene sintetizzato in natura è “buono” nell’accezione che oggi noi diamo a questo aggettivo. Un esempio molto banale è quello delle piretrine (la figura che accompagna questa Pillola è la struttura base di queste sostanze).
Le piretrine sono delle molecole che vengono sintetizzate nei processi metabolici di alcune piante. Nella fattispecie si trovano in alcuni crisantemi. Sì, proprio i fiori che nel nostro mondo vengono usati per addobbare le tombe nel giorno dei morti, mentre nel mondo orientale (il Giappone per quanto mi è dato sapere) sono simbolo di gioia e felicità.
Passando al linguaggio scientifico, le piante da cui vengono estratte le piretrine sono del genere Chrysantherum. La pianta che è più ricca di piretrine è la Chrysanterum cinerariaefolium coltivata in diversi paesi tra cui il maggior produttore sembra essere il Kenia.
Le piretrine agiscono alterando la trasmissione assonale dell’impulso nervoso bloccando in questo modo le funzioni vitali degli insetti. In effetti quello che si verifica è che gli insetti che entrano a contatto con queste molecole vengono immediatamente paralizzati. Non è una bella morte devo aggiungere. Ma non è questo il punto. Pur essendo tossici per gli insetti, le piretrine mostrano una tossicità per gli animali superiori che sembra essere abbastanza bassa. Per esempio la dose letale media per i topi è di circa 500 mg/kg. Supponiamo che questa sia anche la dose letale media per l’essere umano. Quel numero significa che per arrivare ad avere degli effetti tossici, un individuo del peso di 80 kg deve ingerire circa 40 g di piretrine. Non è facile. Ovvero, non lo è per i consumatori di frutta e verdura. Può esserlo per gli agricoltori che nella loro attività fanno uso di queste che vengono definite sostanze naturali .
Come si vede dalla foto allegata, queste molecole hanno un ciclo a tre atomi di carbonio. Questa parte della molecola rende le piretrine facilmente degradabili. Infatti, il loro tempo di residenza medio nei suoli è di circa un paio di giorni. Dopo tale periodo esse sono totalmente decomposte ed il loro effetto tossico finisce. Ecco spiegato il motivo per cui un consumatore medio difficilmente può essere intossicato da queste molecole.
Interessante vero? Beh, questo è il fascino di quella che si chiama “chimica delle sostanze naturali”. Si tratta di una branca della chimica che studia la struttura e le proprietà delle molecole che vengono sintetizzate come metaboliti secondari nelle piante e negli animali. E’ facile capire che la presenza delle piretrine tra i metaboliti secondari delle piante sia un vantaggio evolutivo. Solo le piante che sono in grado di sintetizzare questi metaboliti sono in grado di “difendersi” dagli insetti predatori e, di conseguenza, sopravvivere in natura. Si tratta, in definitiva, di molecole che fanno parte dello scudo difensivo che viene usato dagli esseri viventi nell’eterna lotta per la sopravvivenza.
Si tratta di un tessuto usato per impermeabilizzare. Allo stesso tempo, però, esso consente di rendere traspiranti gli indumenti per i quali viene utilizzato.
Si ottiene dal politetrafluoroetilene (PTFE). Si tratta di un polimero che è alla base del teflon, una plastica usata in diversi campi, dall’idraulica all’industria aerospaziale. Il teflon, sotto forma di nastro, viene usato per evitare le perdite nelle tubazioni, per fabbricare pentole antiaderenti o per la costruzione degli scudi che consentivano, fino a qualche anno fa, il rientro dello Space Shuttle dalle missioni spaziali. L’elevata resistenza alle temperature rendeva, infatti, il PTFE particolarmente adatto ad evitare i danni dovuti all’attrito tra la struttura dello Space Shuttle e l’atmosfera Terrestre.
Quando il PTFE viene trattato in modo particolare (in termini tecnici si dice che viene espanso [1]) si ottiene un materiale brevettato dalla famiglia Gore (sì, quella del vice presidente degli Stati Uniti nell’epoca Clinton) che è stato battezzato GoreTex.
Il PTFE espanso ha un’area superficiale molto elevata. Poiché l’area superficiale è direttamente correlata alla porosità di un materiale, il GoreTex ha anche una elevata porosità. In particolare, la dimensione dei pori del GoreTex è dell’ordine dei 2 μm (μm sta per micrometri, ovvero 10-6 m)).
Una molecola di acqua occupa un volume del diametro di circa 0.2 nm (nm sta per nanometri, ovvero 10^(-9) m).
Il rapporto tra le dimensioni dei pori del GoreTex e il diametro di una molecola di acqua è di circa 10000 : 1, ovvero i pori del GoreTex sono diecimila volte più grandi di quelli di una singola molecola di acqua.
Poiché la dimensione dell’acqua in fase aerea (ovvero vapore) è molto più piccola di quella dei pori del GoreTex, il sudore, che altro non è che acqua in forma di vapore, riesce passare attraverso il tessuto. Al contrario, le molecole di acqua in fase liquida formano aggregati le cui dimensioni sono molto più grandi di quelle dei pori del GoreTex. Il risultato finale è un materiale plastico,(sì, il GoreTex è plastica) in grado di impedire la penetrazione dell’acqua dall’esterno (proprietà impermeabili) e di favorire la fuoriuscita del sudore (proprietà traspiranti).
La chimica dei materiali lascia sempre a bocca aperta
Riferimenti e note:
L’espansione di un polimero si ottiene addizionando materiali espandenti quali, per esempio, il pentano, o qualsiasi altro idrocarburo, che bollono a temperature basse. Durante la fase di preparazione del polimero, che avviene a caldo, il materiale espandente si allontana e lascia “traccia” di sé nelle bolle che conferiscono “leggerezza” al prodotto finale. Nel caso specifico del GoreTex, l’espansione si ottiene termomeccanicamente, ovvero il filamento caldo viene viene teso con uno stratto secco
E’ appena apparsa la notizia che l’impronta enorme di un dinosauro (in particolare un titanosauro) è stata scoperta nel deserto del Gobi in Mongolia (https://it.wikipedia.org/wiki/Mongolia)
L’impronta, di 106 cm di lunghezza e 77 cm di larghezza, è stata scoperta in uno strato di suolo databile in un intervallo che va dai 70 ai 90 milioni di anni fa.
Il ruolo che i legami a idrogeno svolgono nel comportamento dell’acqua è già stato evidenziato più volte in altre Pillole di scienza [1-3]. La formazione dei legami a idrogeno è stata ascritta al momento dipolare dell’acqua, ovvero al fatto che una parziale carica positiva è presente sugli atomi di idrogeno mentre una parziale carica negativa è presente sull’atomo di ossigeno. Grazie a questa separazione di carica, ogni molecola di acqua è in grado di circondarsi di un massimo di altre 4 molecole di acqua che sono agganciate alla prima attraverso 4 legami a idrogeno. Di questi, due legami sono ottenuti grazie al contributo degli elettroni delle coppie solitarie, gli altri due grazie al contributo degli atomi di idrogeno.
All’aumentare del numero di molecole di acqua che circondano una data molecola H2O, si osserva un comportamento singolare. Infatti, man mano che il numero di molecole di acqua aumenta intorno ad una di riferimento, si osserva un “rafforzamento” dei legami a idrogeno che la molecola di riferimento forma con quelle vicine. Questo “rafforzamento” è dovuto ad un incremento del modulo, ovvero del valore, del momento dipolare che passa da 1.85 D (la D è l’unità di misura del momento dipolare e si legge Debye) per l’acqua monomerica (cioè l’acqua da sola) a circa 3 D per l’acqua inserita in un cluster (cioè un grappolo, un insieme) fatto da 32 molecole di acqua.
Come si spiega il cambiamento del momento dipolare e, di conseguenza, il rafforzamento dei legami a idrogeno?
Sembra che il ruolo più importante nel definire il momento dipolare di una molecola di acqua non sia ricoperto dai legami O-H, ma dalle coppie solitarie (indichiamole semplicemente con lp) presenti sull’ossigeno. Quando il numero di molecole che circondano quella di riferimento aumenta, l’angolo lp-O-lp diminuisce passando da circa 125 gradi dell’acqua singola a circa 114 gradi dell’acqua circondata da altre 32 molecole di acqua. Questa diminuzione dell’angolo descritto porta all’incremento del valore del momento dipolare e della forza coi cui la molecola di acqua riesce a legare a sé le altre molecole di acqua via legami a idrogeno. Informazioni dettagliate per i più curiosi nel riferimento [4].
[4] Kemp & Gordon, An interpretation of the enhancement of the water dipole moment due to the presence of other water molecules. J. Phys. Chem. A, 2008, 112: 4885-4894
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