Anche agli scienziati piace scherzare: esperimenti in doppio cieco sull’efficienza dei paracadute

Cosa c’entrano i paracadute con il metodo scientifico?

Paracadute: come recita il vocabolario Treccani, dispositivo che ha lo scopo di ridurre la velocità di caduta di un grave ad esso vincolato.

ll metodo scientifico si basa sull’osservazione dei fenomeni, sulla loro ripetibilità e riproducibilità. La ripetibilità si riferisce alla condizione per cui lo stesso laboratorio è in grado di rifare gli stessi esperimenti sempre nelle stesse condizioni. La riproducibilità è quella situazione per cui laboratori differenti sparsi per il mondo sono in grado di riprodurre gli stessi esperimenti utilizzando condizioni identiche. Ripetibilità e riproducibilità sono condizioni essenziali perché una ipotesi possa essere formulata e un modello in grado di spiegare l’osservato possa essere elaborato.

In campo chimico non è difficile riprodurre un esperimento ammesso che si abbiano fondi a sufficienza per attrezzare un laboratorio nel modo necessario. Per esempio, con pochi euro si possono comprare dei sali, acqua bidistillata, un viscosimetro. Si possono preparare delle soluzioni a concentrazione variabile dei diversi sali e se ne può misurare la viscosità.  Il buon senso ci dice che all’aumentare della concentrazione aumenta anche la viscosità. Tuttavia, chi si occupa di scienza sa benissimo che il “buon senso” può essere fallace. Per questo motivo, per evitare i pregiudizi di conferma di cui ho già parlato nei riferimenti [1, 2], si possono far misurare le viscosità a ricercatori che non sanno  di che tipo di soluzione stanno facendo l’analisi. Che so, una decina di soluzioni a concentrazioni differenti di sali differenti si possono conferire ad un ricercatore, un’altra decina di soluzioni diverse ad un altro ricercatore e così via di seguito. Si raccolgono le misure sperimentali e se ne fa una analisi. Ne viene che la variazione di viscosità varia in positivo (aumento) o in negativo (diminuzione) a seconda della natura del sale preso in considerazione. Tanto per fare un esempio banale, l’aumento di concentrazione del cloruro di sodio (NaCl) comporta un aumento della viscosità. Al contrario, nelle stesse condizioni, cambiando il sodio col potassio (quindi cambiando sale ed usando KCl, invece che NaCl), si osserva una diminuzione della viscosità. Non sto qui a spiegare perché. Il mio intento è altro. Questo esempio mi serve solo per far capire che se tutti i laboratori in giro per il mondo si attrezzano  con le stesse strumentazioni e fanno esperimenti con le modalità descritte, sono in grado di osservare sempre lo stesso comportamento delle diverse soluzioni saline.

Il paracadute entra in capo: nel settore medico le cose non sono così semplici!

Supponiamo di voler stabilire l’efficacia di un farmaco antitumorale. Un esperimento ben progettato dovrebbe prevedere un certo numero di persone che abbiano quel tipo di tumore. Questo insieme dovrebbe essere diviso in due gruppi, per esempio gruppo A e gruppo B. Il farmaco antitumorale dovrebbe essere somministrato in modo casuale agli individui dei due gruppi. Diciamo che al gruppo A si potrebbe somministrare il farmaco, mentre al gruppo B si potrebbe somministrare un placebo. Gli individui dei due gruppi non sanno cosa assumono. I medici addetti ai controlli sperimentali non sanno cosa stanno somministrando. Un esperimento di questo tipo, simile a quello descritto sopra, si chiama “in doppio cieco” perché nessuno dei protagonisti sa cosa sta assumendo o prescrivendo. Questa tipologia di esperimenti è utile perché, come nel caso chimico già illustrato, impedisce che i risultati sperimentali risentano dei pregiudizi di conferma  [1, 2].  In campo medico, tuttavia, questa tipologia sperimentale ha delle implicazioni etiche e morali insormontabili. Dal momento che  gli individui  di entrambi i gruppi sono affetti da tumore, in che modo si deve decidere quale dei soggetti è destinato a sicura morte? In altre parole chi decide e come fa a decidere quale delle persone coinvolte nell’esperimento deve assumere il placebo e, per questo, è destinata ad una morte molto probabile?

Un esperimento anche se ben progettato non è sempre fattibile sotto l’aspetto tecnico.

Un paradosso del genere è stato evidenziato in modo comico da due ricercatori britannici che hanno deciso di fare una meta-analisi dei lavori condotti in doppio cieco per la valutazione dell’efficienza dei paracadute nei lanci dagli aerei [3]. Il lavoro è stato pubblicato nel 2003 dal Biomedical Journal, una rivista medica abbastanza autorevole e famosa per la pubblicazione di paradossi come quello che sto descrivendo.  Gli autori affermano che:

“Our search strategy did not find any randomised controlled trials of the parachute”

In altre parole, non sono stati in grado di trovare in letteratura alcun lavoro in doppio cieco in grado di poter affermare con certezza scientifica che l’uso del paracadute è fondamentale per salvarsi la vita in un lancio aereo da 5000 m o più. In effetti, gli autori suggeriscono che, per poter affermare che il paracadute è utile, si dovrebbe condurre un esperimento selezionando un certo numero di persone da suddividere in due sottogruppi: sottogruppo A e sottogruppo B. Ad ognuna delle persone dei due sottogruppi, gli addetti alla distribuzione dei paracadute devono consegnare uno zaino. Gli addetti alla distribuzione non sanno cosa contengono gli zaini che distribuiscono: possono contenere oppure no il paracadute; ognuna delle persone che riceve lo zaino non sa cosa esso contenga. Entrambi i sottogruppi vengono imbarcati e portati ad una certa altezza; da lì si devono lanciare nel vuoto. Se si osserva che tutti quelli che hanno lo zaino col paracadute sopravvivono, mentre gli altri no, si può concludere, con ragionevole certezza, che il paracadute ha una certa efficacia, fino a prova contraria, nel salvare le vite umane.

Nelle loro conclusioni, in breve, gli autori affermano:

“As with many interventions intended to prevent ill health, the effectiveness of parachutes has not been subjected to rigorous evaluation by using randomised controlled trials. Advocates of evidence based medicine have criticised the adoption of interventions evaluated by using only observational data. We think that everyone might benefit if the most radical protagonists of evidence based medicine organised and participated in a double blind, randomised, placebo controlled, crossover trial of the parachute”.

In altre parole, i sostenitori compulsivi di esperimenti in doppio cieco in campo medico, quando esperimenti del genere sono insostenibili per motivi etici e morali, si dovrebbero offrire volontari per studi in doppio cieco sulla efficienza dei paracadute nei lanci aerei.

Morale della storia: ci sono situazioni in cui gli esperimenti randomizzati in doppio cieco è meglio non farli oppure è meglio farli non su esseri umani; la sopravvivenza della specie, in mancanza di alternative efficaci, si può assicurare tramite la sperimentazione animale.

Riferimenti:

[1] https://www.facebook.com/RinoConte1967/posts/1920705241484336:0

[2] https://www.facebook.com/notes/rino-conte/la-memoria-dellacqua-lomeopatia-ed-i-pregiudizi-di-conferma/1919125418308985

[3] https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pmc/articles/PMC300808/pdf/32701459.pdf

Ringraziamenti:

Si ringrazia il Dr. Arturo Di Girolamo per aver accennato agli esperimenti in doppio cieco sui paracadute nella sua lezione sull’utilità dei vaccini tenuta il 10 Febbraio 2017 presso il Caffè dei Libri di Bassano del Grappa. La lezione è a questo link: https://www.facebook.com/RinoConte1967/videos/1930788107142716/

 

Naturale vs sintetico: l’ormone della crescita

Oggi vi scrivo della somatotropina ovvero di una molecola che viene anche semplicemente indicata come “ormone della crescita”. Si tratta di un peptide (ovvero di un sistema organico formato da diversi amminoacidi legati assieme) prodotto nell’ipofisi e responsabile della nostra crescita.

L’ormone della crescita utilizzato come farmaco per curare gli individui affetti da nanismo.

Sapete come si ottiene? Si ottiene per via sintetica, ovvero, si sintetizza in laboratorio usando la tecnica del DNA ricombinante. Si tratta della stessa tecnica di sintesi che consente di ottenere i prodotti geneticamente modificati (i famosi OGM tanto vituperati in Italia). Come mai una molecola così importante viene sintetizzata in laboratorio e non ottenuta “naturalmente” attraverso processi di estrazione?

Come ho già scritto, questa molecola è prodotta dall’ipofisi. L’unico metodo “naturale” noto per poterne ottenere in quantità sufficienti da produrre farmaci da distribuire “urbi et orbi” (e realmente utilizzato prima che venisse messa a punto la tecnica del DNA ricombinante) è l’estrazione dalle ghiandole del sistema endocrino di giovani uomini morti o di scimmie. Il problema delle estrazioni è che non si ottiene un prodotto puro, ma sempre “contaminato”. Infatti, il problema fondamentale dei processi estrattivi è che non consentono di “distinguere” tra molecola “giusta” e molecola leggermente “modificata” casualmente per motivi “naturali”. La somatotropina modificata geneticamente ed in modo naturale è anche quella che può dar luogo alla malattia di Creutzfeld-Jacob, altrimenti conosciuta come “morbo della mucca pazza”.

Quando in passato veniva usata la somatotropina ottenuta per processi estrattivi, quindi “naturalmente”, era abbastanza alto il rischio di contrarre il morbo della mucca pazza.

La sintesi chimica attraverso la tecnica del DNA ricombinante consente di ottenere una molecola estremamente pura senza alcun pericolo di contrarre la malattia anzidetta.

Ricordiamo anche questo, quando sentiamo i “naturisti” affermare che ciò che è naturale è necessariamente “buono”.

Per saperne di più

http://www.eusebio.pro/Ormone_della_crescita_gh.pdf

http://www.amegighi.it/…/3-IPOFISI%20e%20ORMONI%20IPOFISARI…

http://www.med.unipg.it/…/Fisi…/Il%20Sistema%20Endocrino.pdf

https://it.wikipedia.org/wiki/DNA_ricombinante

L’influenza della scienza sulla società: il nostro governo ha, finalmente, modificato la legge sui fertilizzanti, inserendo anche il biochar come amendante dei suoli.

Chi mi segue sa che il mio lavoro di ricerca consiste nello studio delle dinamiche molecolari all’interfaccia solido liquido, laddove il solido è il biochar. Tradotto in parole più semplici, mi occupo di studiare come si muovono i liquidi (in particolare acqua) sulla superficie di un composto (il biochar) fatto prevalentemente di carbonio ottenuto come scarto dei processi industriali (o casalinghi) per la produzione energetica (per es. calore, gas etc).

Questo tema di ricerca è il centro dell’attenzione di numerosi gruppi di ricerca nazionali ed internazionali, tanto è vero che io stesso collaboro con persone ai quattro angoli del mondo (beh…quattro angoli è un modo di dire, ovviamente…non è che io pensi che la Terra sia piatta 😀 ).

I lavori di ricerca hanno dimostrato che il biochar ha numerosi effetti quando applicato come ammendante dei suoli. Recentemente il gruppo internazionale di cui faccio parte, ha pubblicato in merito alla quadruplicazione della produzione di zucche in Nepal quando biochar trattato con urina viene usato come fertilizzante. Lo stesso gruppo ha pubblicato anche i possibili meccanismi con cui il nitrato (uno dei principali nutrienti per le piante) viene catturato e, successivamente, lentamente rilasciato dal biochar quando questo viene applicato ai suoli.

Sebbene molti siano i lavori che dimostrino l’efficacia del biochar come ammendante, molti sono i detrattori di questo materiale. C’è chi prova che il biochar non ha alcun effetto sulla produzione agricola; c’è chi scrive che il biochar contamina i suoli attraverso il rilascio di sostanze tossiche (per es. gli idrocarburi policiclici aromatici) e potrei continuare.

Il punto fondamentale che, in genere, non è chiaro né ai detrattori né ai fautori dell’uso del biochar come ammendante, è che questo materiale va studiato accuratamente prima della sua applicazione come ammendante e non tutti i biochar sono buoni per tutto. In altre parole, i detrattori del biochar sono tali perché sono stati sfortunati: hanno sperimentato con biochar non adatti a quel tipo di piante di cui intendevano aumentare la produzione; i fautori del biochar sono in genere fortunati, ovvero studiano piante per cui il biochar selezionato funziona bene.

In generale le meta-analisi sul biochar (ovvero studi che considerano tutta la letteratura in merito ad un argomento) dimostrano che il biochar come ammendante dei suoli permette un aumento di produttività medio intorno al 18%.

Perché tutto questo? Che c’entra tutto questo discorso con l’impatto della scienza sulla società?

Il punto è che proprio grazie a tutto quanto scoperto sul biochar (sia effetti positivi che negativi), il nostro governo ha, finalmente, modificato la legge sui fertilizzanti, inserendo anche il biochar come possibile fertilizzante dei suoli.

Questo è avvenuto nemmeno un mese fa quando sulla Gazzetta Ufficiale serie generale n° 186 del 12-8-2015 è apparsa quella che viene conosciuta come “normativa biochar”. Questa legge è un grosso passo avanti perché permette a tutti l’uso del “carbone” come ammendante dei suoli sempre che vengano rispettati dei requisiti fondamentali sia sotto l’aspetto chimico che fisico. Infatti, l’uso del biochar è finalizzato non solo all’aumento della produttività dei suoli ma anche al sequestro del carbonio in modo da limitare le emissioni di anidride carbonica nell’atmosfera.

“la norma avrà riflessi che andranno ben oltre questi evidenti benefici tecnici ed economici” – spiega Vittorino Crivello, Presidente di ICHAR – “perchè il Biochar potrà entrare di diritto nei mercati volontari di riduzione delle emissioni di gas serra, stimolando un ciclo virtuoso in cui si potranno generare compensazioni delle emissioni per chi acquisterà crediti e redditi addizionali o risparmi per chi distribuirà il Biochar nel terreno”.

Informazioni complete in merito sono al sito: http://www.ichar.org/

commenti qui

Sulla correlazione casuale e non causale vaccini/autismo

Non sono un medico. Come scrivevo un po’ di tempo fa, questo potrebbe rendermi non credibile quando faccio invasione di campo e parlo di argomenti che non sono strettamente di carattere chimico o correlati in qualche modo alla salvaguardia ambientale o alla chimica fisica applicata all’ambiente (i miei campi di ricerca). Tuttavia, sono un tecnico, ovvero mi occupo di scienza da un po’ di tempo ed ho sviluppato, o almeno credo di aver sviluppato, quel senso critico che porta chiunque si occupi di scienza in modo serio a saper distinguere le scemenze da ipotesi più o meno attendibili.

Quando leggo di lavori ritrattati o ritirati dalla letteratura scientifica perché i dati sperimentali erano stati ottenuti alterando i risultati, inventandoli di sana pianta o frodando, sono certo che le ipotesi fatte sulla base di quei dati non possono essere più prese in considerazione a meno che non sopraggiungano dei lavori basati su dati oggettivi e meno attaccabili sotto l’aspetto metodologico. È il caso parecchio frequente oggigiorno della correlazione vaccini/autismo. Questa correlazione si basa su un lavoro di un medico britannico che, attraverso esperimenti pilotati, ha pensato di ottenere esattamente la correlazione anzidetta. Ma di questo ho già scritto e non vale la pena ripetermi.

La curiosità mi ha spinto stavolta a cercare nella letteratura scientifica se esistano studi che riescano ad individuare le possibili cause della sindrome autistica. Ho fatto una ricerca veloce in rete usando poche parole chiave e tra le centinaia di siti spazzatura sono riuscito a trovare un po’ di lavori nei quali è stato possibile evidenziare che i vaccini c’entrano nulla con tale sindrome.

Addirittura ben 3 anni prima del famigerato lavoro del medico britannico summenzionato, viene pubblicato un lavoro (http://journals.cambridge.org/action/displayAbstract…) nel quale si riporta testualmente

“The findings indicate that autism is under a high degree of genetic control and suggest the involvement of multiple genetic loci”.

Ovvero, già nel 1995 si sospettava una possibile causa genetica per l’autismo. Ciò è stato confermato qualche anno dopo da un altro lavoro in cui si riporta:

“Review of 2 major textbooks on autism and of papers published between 1961 and 2003 yields convincing evidence for multiple interacting genetic factors as the main causative determinants of autism”.

Il lavoro è qui: http://pediatrics.aappublications.org/content/…/5/e472.short. Ancora una volta fattori genetici sono responsabili della sindrome autistica. Ma la cosa più rilevante è che nel predetto lavoro è anche scritto:

“Autism is a complex, behaviorally defined, static disorder of the immature brain that is of great concern to the practicing pediatrician because of an astonishing 556% reported increase in pediatric prevalence between 1991 and 1997 […] This jump is probably attributable to heightened awareness and changing diagnostic criteria rather than to new environmental influences”.

Ovvero, l’aumento del numero di casi di bambini autistici si deve al miglioramento delle tecniche usate per la diagnosi della sindrome. In altre parole, i vaccini non c’entrano NULLA. Ma se anche questo non bastasse, o si ritenesse che le riviste linkate non siano sufficientemente autorevoli, un ulteriore lavoro (http://link.springer.com/article/10.1007/s10803-004-1038-2) riporta che

“Autism is a heterogeneous disorder that can reveal a specific genetic disease. This paper describes several genetic diseases consistently associated with autism (fragile X, tuberous sclerosis, Angelman syndrome, duplication of 15q11-q13, Down syndrome, San Filippo syndrome, MECP2 related disorders, phenylketonuria, Smith–Magenis syndrome, 22q13 deletion, adenylosuccinate lyase deficiency, Cohen syndrome, and Smith–Lemli–Opitz syndrome) and proposes a consensual and economic diagnostic strategy to help practitioners to identify them”.

In altre parole, la sindrome autistica ha origini genetiche e potrebbe essere legata ad altre sindromi genetiche come quella Down.

E veniamo ai giorni nostri. È di qualche giorno fa la pubblicazione di un lavoro fatto su dei primati in cui si rileva assenza di correlazione tra vaccino e autismo: http://www.pnas.org/content/112/40/12498.full.pdf. La cosa interessante di questo lavoro pubblicato su PNAS (rivista molto quotata) è che neanche la somministrazione di un derivato organico del mercurio, usato come stabilizzante nei vaccini, ha avuto alcun effetto sui primati. Sempre nel 2015, ovvero pochi mesi fa, un lavoro apparso su Cell (altra rivista quotatissima in ambito scientifico) riporta che la sindrome autistica può essere dovuta alle modifiche di un gene particolare indicato come UBE3A. Il lavoro è qui: http://www.cell.com/abstract/S0092-8674(15)00770-9.

Qualche altro lavoro, piuttosto che modifiche genetiche, attribuisce a fattori ambientali l’insorgenza della sindrome: http://archpsyc.jamanetwork.com/article.aspx…. In ogni caso i vaccini sembrano completamente scagionati. Non sono responsabili dell’autismo la cui diagnosi è solo casualmente fatta nel periodo delle vaccinazioni pediatriche.

Allora la domanda diventa d’obbligo. Perché tanta gente continua ostinatamente a voler attribuire ai vaccini la causa scatenante dell’autismo?

Non sono neanche uno psicologo, ma la mia opinione (e proprio per questo soggettiva) si basa su due ordini di fattori. Il primo è che se la sindrome autistica avesse cause genetiche, un genitore si sentirebbe direttamente, ma anche erroneamente, responsabile dell’autismo del figlio. Quale genitore si vorrebbe sentir dire che qualcosa è andato storto nei processi di replicazione del DNA durante la gestazione con la conseguente insorgenza (diagnosticata ben oltre il parto) della sindrome autistica? Quale genitore, ritenendosi erroneamente responsabile della sindrome del figlio, non pensa che, secondo natura, toccherà a lui morire per primo e lasciare un figlio non completamente autosufficiente privo di qualsiasi sostegno per il resto della sua, possibilmente, lunga vita? Non si è pronti. Non sono un padre, ma penso che non si sia mai pronti ad accettare qualcosa del genere. Meglio, molto meglio, incolpare il destino o un Dio qualunque. Oggi, e questo è il secondo dei due ordini di fattori citati prima, la scienza ha preso il posto della religione. La gente comune, ovvero chi non si occupa di scienza, ricerca in essa le certezze che una volta erano date dai preti. Il problema è che la scienza non dà certezze. La verità scientifica è tutt’altro che assoluta. Non è la verità immutabile della religione. Da qui la mancanza di fiducia generalizzata nei confronti di tutto il comparto scientifico che viene incolpato dell’incapacità di indicare una strada sicura ed immutabile per la comprensione di fenomeni che rispondono solo al caso.

#iovaccino, NO alla #disinformazione

 

per i commenti vedi qui

L’origine del nome degli elementi

Vi siete mai chiesti da dove originano i nomi degli elementi? Di tanto in tanto me lo sono chiesto anche io. Quando insegnavo la chimica generale e la chimica organica, era divertente sbalordire gli studenti con aneddoti curiosi e carini. Smorza la tensione per la lezione oggettivamente pesante e consente di andare avanti con più leggerezza.

Uno degli aneddoti che mi piaceva raccontare, ancora oggi lo faccio se ne ho la possibilità, è quello relativo all’azoto.

L’azoto è un elemento molto importante in natura. E’ presente in tantissimi composti organici che assolvono a funzioni metaboliche importantissime. E’ presente nelle proteine, nel RNA, nel DNA, in molte sostanze che i chimici definiscono composti naturali e compagnia cantando.

Ma perché si chiama azoto? Il nome è stato coniato da Lavoisier (https://it.wikipedia.org/wiki/Antoine-Laurent_de_Lavoisier) in Francia: “azote”. Significa “senza vita”. Deriva dal greco in cui al termine “zotos” (che viene da zoe, vivere) si associa la alfa privativa, da cui “a-zoto”, ovvero “azoto”. Sembra un paradosso, vero? Un elemento che è fondamentale per il metabolismo, ovvero per i processi alla base della vita, porta un nome che si riferisce alla morte.

Beh, ai tempi di Lavoisier non si conoscevano certo le molecole come si conoscono oggi. Non si conosceva l’importanza di questo elemento nei metaboliti. Si sapeva però che una atmosfera privata di ossigeno provocava la morte, da cui il termine “azote” che in Italiano è diventato “azoto”.

Ma se il nome è “azoto”, perché ha simbolo “N”?
In realtà,questo elemento ha un nome con doppia etimologia. Il termine “azoto” è usato prevalentemente nei paesi non anglosassoni.

Nei paesi anglosassoni “azoto” è indicato con “nitrogen”. Il nome fu coniato nel 1790 da Chaptal (https://it.wikipedia.org/wiki/Jean-Antoine_Chaptal), un altro chimico francese, che capì che l’elemento era uno dei costituenti del nitrato di potassio, un sale, comunemente noto come “salnitro” ed usato come sapone ai tempi dei Romani. “Nitro”-“gen” vuol dire quindi “genitore” del “nitron”, laddove “nitron” è l’antico nome del nitrato di Potassio.

In definitiva benché Paperino in questa vignetta http://bressanini-lescienze.blogautore.espresso.repubblica.… si riferisca ad un certo “nitrogeno” commettendo un errore che molti chimici ritengono grave perché in Italiano N = azoto, posso dire che, in realtà, si tratta solo di un errore veniale perché sia “azoto” che “nitrogeno” sono i nomi che possiamo attribuire all’elemento di simbolo “N” con numero atomico 7 e peso atomico 14 g/mol.

Anche agli scienziati piace scherzare: il caso “Get me off Your Fucking Mailing List”

Mailing list: chi è impegnato in attività di ricerca conosce bene il problema. Ogni giorno riceviamo decine di e-mails con le quali veniamo invitati a sottoporre i nostri ultimi risultati a riviste open access dalle caratteristiche più improbabili. Per esempio io ricevo quasi ogni giorno inviti da Journal of Research Analytica, International journal of scientific and technical research in engineering, o addirittura da riviste del tipo BAOJ Diabetes che è una rivista medica. Cosa c’entri la mia attività con il diabete non è dato sapere, ma tant’è.

Come regola generale, la mattina, appena apro il mio programma di posta elettronica, perdo 5-10 min solo per selezionare e cancellare senza leggere tutta questa paccottiglia di posta eletronica. Questa posta è solo apparentemente innocua: occupa spazio di memoria che, per gli account istituzionali, è molto limitata, di conseguenza molto preziosa.

La cosa che colpisce molto in tutte le lettere è che tutte le riviste riportano su “otto colonne” l’informazione che esse sono soggette a peer review, ovvero revisione tra pari.

Per chi è poco informato, la procedura per la pubblicazione consiste nello scrivere ed inviare lo studio alla rivista prescelta; gli editor della rivista valutano la congruenza dello studio con gli obiettivi della rivista stessa; se il lavoro centra gli obiettivi, viene inviato a revisori anonimi che hanno il compito di valutare la congruenza tra i dati sperimentali e la loro interpretazione; i revisori possono suggerire la pubblicazione senza modifiche se i dati e la loro interpretazione sono congruenti tra loro; possono chiedere delle modifiche (che possono essere minor o major a seconda del livello di approfondimento richiesto); possono rifiutare il lavoro se dati ed interpretazione non sono congruenti.
Una volta che il lavoro è stato accettato per la pubblicazione, l’editor lo invia al comitato editoriale che ha il compito di formattare il lavoro secondo gli standard della rivista.

Adesso viene il bello.

La stragrande maggioranza delle riviste non chiede alcuna tassa di pubblicazione. Si tratta di riviste chiuse il cui accesso è garantito solo a chi paga un abbonamento annuale.

Esistono delle riviste, però, che consentono a tutti di poter accedere ai lavori pubblicati. Si tratta di riviste indicate semplicemente come open access. Tutte le riviste open access chiedono una tassa agli autori. Questa tassa serve per pagare le spese sostenute dal comitato editoriale che si occupa della formattazione dei lavori e della pubblicazione della rivista. La tassa di pubblicazione non è piccola. Si può andare dai 100 euro in su. Per esempio alcune riviste chiedono anche 1000 euro. Ne viene che se un ricercatore non ha fondi, si guarda bene dal pubblicare su riviste del genere.

Tutto bene, vero? Non c’è nulla di strano. Ognuno può scegliere come e dove pubblicare. Tuttavia, il sospetto che molte riviste open access siano solo uno specchietto per acchiappare soldi dai gonzi o per consentire la pubblicazione di sciocchezze è abbastanza forte.

Ciò che voglio evidenziare è che lo standard qualitativo delle riviste open access può essere abbastanza basso. I lavori possono essere accettati senza una seria revisione tra pari. Non tutte le riviste open access sono così. Ci sono riviste open access che, invece, sono molto serie: PlosOne, Scientific Reports, Agriculture etc etc etc (non faccio un elenco completo perché non è questo lo scopo del post).

Veniamo al punto.

Nel 2005, David Mazieres e Eddie Kohler, due ricercatori Statunitensi, scrissero un articolo dal titolo “Get me off Your Fucking Mailing List” (ho bisogno di tradurre?) [1].

Questo il titolo. Come ogni buon articolo scientifico, anche questo aveva un abstract, una introduzione e diversi altri paragrafi. A parte abstract ed introduzione che avevano i titoli canonici, tutti gli altri paragrafi erano intitolati “Get me off Your Fucking Mailing List” (ho sempre bisogno di tradurre?).

Ed il testo? Beh, tutto il testo di ogni singolo paragrafo e di ogni figura era solo ed esclusivamente “Get me off Your Fucking Mailing List” (a questo punto sono sicuro che non c’è bisogno di tradurre).

Peter Vamplew, un ricercatore dell’Università di Vittoria in Australia [2], pensò bene di inviare, per scherzo, il lavoro di questi due suoi colleghi alla rivista open access International Journal of Advanced Computer Technology, particolarmente molesta in quanto a spam. Con enorme sorpresa, dopo qualche tempo, arrivò la lettera di accettazione del lavoro con la richiesta della tassa di pubblicazione (qualcosa come 150$) come contributo per la pubblicazione open del lavoro accettato.

Siete curiosi vero? Volete conoscere il giudizio espresso dal revisore? Sì, perché pare che il lavoro sia stato inviato ad un solo revisore, piuttosto che ai 3-5 delle riviste più quotate. Ebbene la reviewer form la trovate nel riferimento [3]. In sintensi è scritto:

Accuracy: Excellent
Innovation: Very Good
Relevance: Very Good
Presentation: Good
Quality of writing: Very Good

Divertente, vero? Qualità del testo “molto buona”. Non c’è che dire; l’editor prima, il revisore, poi, hanno avuto un ottimo senso dell’umorismo. Ma l’hanno mai letto questo lavoro? Ne dubito fortemente così come dubito che esso sia mai stato inviato ad un qualsiasi revisore.

Inutile dire che lo scherzo ha fatto il giro del mondo ed è finito su molte testate giornalistiche [4-6] (basta cercare in Google e si trovano “vagonate” di pagine che riportano la notizia).

Morale della favola. Uno scherzo nato per caso e per fare un “dispetto” all’editor di una rivista open access particolarmente molesto nell’inviare posta indesiderata acchiappa-gonzi, ha smascherato un punto molto debole delle riviste open access: alcune di esse non effettuano alcuna peer review; sarebbe meglio dire che non solo non assicurano la peer review, ma i lavori possono passare i diversi filtri pre-pubblicazione senza nemmeno essere letti.

Questa storia è del 2005. Pensate che sia servita a qualcosa? Ebbene, no. Nel 2009, un articolo bufala sulla catastrofe del 11 Settembre 2001 fu pubblicato proprio su una rivista open access che oggi è chiusa e non pubblica più nulla [7]. Sulla validità di questo lavoro tornerò in un altro post. Stasera (sono in Canada in questo momento e qui sono solo le 20:25) sono stato fin troppo logorroico 🙂

Riferimenti

[1] http://www.scs.stanford.edu/~dm/home/papers/remove.pdf
[2] http://federation.edu.au/
[3] https://scholarlyoa.files.wordpress.com/…/11/review-form.pdf
[4] https://www.theguardian.com/…/journal-accepts-paper-request…
[5] http://www.skeptical-science.com/…/fucking-mailing-list-pe…/
[6] http://mobile.businessinsider.com/scientific-journal-accept…
[7] http://www.911research.wtc7.net/…/ActiveThermitic_Harrit_Be…

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